Morire per onore e dignità?
Risposta a una domanda del questionario di Alain (1936)
di Simone Weil
Vai al libro Mosaico “Simone Weil, Scritti sulla guerra 1933–1943”
Sul numero 34 del 20 marzo 1936 di Vigilance, bulletin du comité de vigilance des intellectuels antifascistes, di cui era uno dei vicepresidenti, Alain aveva pubblicato un Questionnaire in dieci punti che poneva quesiti tipo questo: «Pensate che dobbiamo scegliere tra Hitler e i Soviet? O la proposta di questa scelta non costituisce già un’offesa e un atto di guerra?».
Simone Weil decide di replicare alla decima domanda: «Gli uomini che parlano d’onore e di dignità come se fossero più preziosi della vita, sono disposti a rischiare per primi la loro vita? E cosa pensare di loro se non lo sono?».
Ecco la risposta.
Formula di sinistra memoria
Risponderò solo all’ultima delle domande di Alain. Mi sembra di grande importanza. Ma credo che debba essere posta in modo più ampio. Dignità e onore sono oggi forse le parole più micidiali del vocabolario. È molto difficile sapere esattamente come il popolo francese ha realmente reagito agli ultimi avvenimenti. Ma ho notato sin troppo spesso che in ogni genere di ambiente l’appello alla dignità e all’onore nelle questioni internazionali continua a suscitare emozione.
La formula “la pace nella dignità” o “la pace nell’onore”,[1] formula di sinistra memoria, che, con la firma di Poincaré, ha costituito l’immediato preludio al massacro, è ancora correntemente impiegata. Gli oratori che raccomandassero la pace anche senza onore, potrebbero non incontrare, un’accoglienza favorevole da nessuna parte. Ciò è assai grave.
La parola dignità è ambigua. Può significare la stima di se stessi; nessuno oserà allora negare che la dignità non sia preferibile alla vita, perché preferire la vita significherebbe «per vivere, perdere le ragioni di vita».
Ma la stima di sé dipende esclusivamente dalle azioni che ognuno compie in prima persona dopo averle liberamente decise. Un uomo offeso può aver bisogno di battersi per recuperare la stima di sé; ciò avverrà solo nel caso in cui gli sia impossibile subire passivamente l’offesa senza convincersi di essere un vigliacco ai propri occhi.
È chiaro che in una materia come questa ognuno è il solo giudice di se stesso. È impossibile immaginare che un uomo possa delegare a un altro il compito di giudicare se la conservazione della stima di sé esiga o meno di mettere in gioco la propria vita. È ancora più chiaro che la difesa della dignità così intesa non può essere imposta con la costrizione; dal momento in cui si inserisce la costrizione, la stima di sé cessa di essere in questione.
D’altra parte, ciò che libera dalla vergogna non è la vendetta, ma il pericolo. Per esempio, uccidere chi ci ha offeso con l’astuzia e senza rischio non è mai un mezzo con cui conservare la stima di sé.
La guerra non è mai una risorsa
Se ne deve dedurre che la guerra non è mai una risorsa per evitare il disprezzo di sé. Non può essere una risorsa per coloro che non combattono, perché non sono coinvolti nel pericolo, o lo sono relativamente poco; la guerra non può mutare in nessun modo l’idea che si fanno del loro coraggio.
Non può essere una risorsa nemmeno per i combattenti, perché vi sono obbligati. La maggioranza parte per costrizione, e anche coloro che partono volontariamente rimangono per costrizione. Il potere di aprire e far cessare le ostilità è esclusivamente nelle mani di coloro che non si battono.
La libera decisione di mettere la propria vita in gioco è l’anima stessa dell’onore; ma l’onore non centra quando gli uni decidono senza rischi e gli altri muoiono in nome dell’obbedienza. E se la guerra non può rappresentare per nessuno una tutela dell’onore, bisogna anche trarre la conclusione che nessuna pace è vergognosa, quali che ne siano le condizioni.
In realtà, il termine dignità, applicato ai rapporti internazionali, non indica la stima di se stessi, che non può essere in causa; non si oppone al disprezzo di sé, ma all’umiliazione. Sono cose distinte; c’è una grande differenza tra perdere il rispetto di sé ed essere trattati senza rispetto dagli altri.
Epitteto trattato come un giocattolo dal suo padrone, Gesù, sbeffeggiato e incoronato di spine, ai loro occhi non si erano affatto sminuiti di fronte a se stessi. Preferire la morte al disprezzo di sé, è il fondamento di qualunque morale. Preferire la morte all’umiliazione, è tutt’altra cosa: è semplicemente il punto d’onore feudale.
Si può ammirare l’onore feudale; si può anche, e non senza buone ragioni, rifiutare di farne una regola di vita. Ma la questione non è questa. Bisogna vedere chi si manda a morire per difendere questo punto d’onore nei conflitti internazionali.
Chi va a morire davvero
Si mandano le masse popolari, quelle stesse che, non avendo alcuna ricchezza, non hanno in linea generale diritto ad alcun riguardo, o poco ci manca. Noi siamo in una repubblica, è vero; ma ciò non toglie che l’umiliazione sia di fatto il pane quotidiano di tutti i deboli. Nondimeno, essi vivono e lasciano vivere.
Un sottoposto può subire un rimprovero sprezzante senza aver la possibilità di discutere; un operaio può essere messo alla porta senza spiegazioni, e, se ne chiede ragione al suo capo, sentirsi rispondere «non devo render conto a lei»; i disoccupati convocati davanti a un ufficio di collocamento possono venire a sapere dopo un’ora di attesa che non c’è niente per loro; la castellana di un villaggio può dare ordini a un contadino povero ed elargirgli cinque soldi per un lavoro di due ore; una guardia carceraria può picchiare e insultare un prigioniero; un magistrato può fare dell’ironia in mezzo al tribunale a spese di un imputato o persino di una vittima; eppure il sangue non scorrerà.
Ma questo operaio, questi disoccupati e tutti gli altri sono costantemente esposti alla possibilità di dover un giorno uccidere e morire perché un paese straniero non avrà trattato il loro paese o i suoi rappresentanti con tutti i riguardi desiderabili.
Se volessero invece mettersi a lavare l’umiliazione nel sangue per ciò che li riguarda, come vengono invitati a fare per quanto riguarda il loro paese, quante ecatombi quotidiane in piena pace! Assai pochi, tra tutti coloro che possiedono una potenza grande o piccola, sopravviverebbero; sicuramente perirebbero molti capi militari.
La dignità personale calpestata delle classi popolari
Infatti il più grande paradosso della vita moderna è il fatto che non solo nella vita civile si calpesta la dignità personale di coloro che un giorno verranno mandati a morire per la dignità nazionale, ma che proprio quando la loro vita è così sacrificata per difendere l’onore comune, vengono esposti a umiliazioni assai più dure che in precedenza.
Che cosa sono le offese considerate nei diversi paesi motivi di guerra di fronte a quelle che un ufficiale può impunemente infliggere a un soldato? Può insultarlo, e senza che sia ammessa replica alcuna; può dargli pedate — un autore di ricordi di guerra non si è forse vantato d’averlo fatto? Può impartirgli qualunque ordine sotto la minaccia del revolver, compreso quello di sparare a un compagno. Può infliggergli, a titolo di punizione, le angherie più meschine.
Può quasi tutto, e ogni disobbedienza è punita con la morte o potrebbe esserlo. Coloro che, nella retrovia, sono ipocritamente celebrati come eroi, sono in realtà trattati come schiavi. E, tra i soldati sopravvissuti, quelli poveri, liberati dalla schiavitù militare, ricadono in quella civile, dove più d’uno è costretto a subire le insolenze di coloro che si sono arricchiti senza rischi.
L’umiliazione continua e quasi metodica è un fattore essenziale della nostra organizzazione sociale, in pace come in guerra. Ma in guerra è portato a un grado più elevato. Se fosse applicato all’interno del proprio paese il principio in base al quale si dovrebbe respingere l’umiliazione al prezzo della vita stessa, si sovvertirebbe tutto l’ordine sociale, e, in particolare, la disciplina indispensabile per portare avanti la guerra.
La guerra come meccanismo dell’oppressione
Che qualcuno osi, in queste condizioni, fare di questo stesso principio una regola di politica internazionale è veramente il colmo dell’incoscienza. Una celebre frase dice che si possono avere, in linea di principio, degli schiavi, ma che è intollerabile trattarli da cittadini. È ancor meno tollerabile farne dei soldati.
Certo, ci sono sempre state le guerre; ma l’elemento che caratterizza la nostra epoca è che sono fatte dagli schiavi. E per di più, queste guerre in cui gli schiavi sono mandati a morire in nome di una dignità che non viene mai loro accordata, queste stesse guerre costituiscono l’ingranaggio essenziale del meccanismo dell’oppressione.
Tutte le volte in cui si esaminano da vicino e in maniera concreta i mezzi per diminuire effettivamente l’oppressione e l’ineguaglianza, ci si scontra sempre con la guerra, con le conseguenze della guerra, con le necessità imposte dalla preparazione alla guerra. Non si scioglierà questo nodo, bisogna tagliarlo; sempre che sia possibile.
Note
[1] L’Appel à la nation française, firmato da Poincaré il primo agosto 1914 diceva: «La mobilitazione non è la guerra. Nelle circostanze attuali, sembra al contrario il modo migliore d’assicurare la pace nell’onore».
Da: Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933–1943, Edizioni del Corriere della Sera, 2022, pp. 40–45
Questo progetto d’articolo, scritto nel marzo 1936 e pubblicato per la prima volta su La Critique sociale n. 10 nel novembre 1933, è attualmente inserito in Oeuvres complètes, 2 voll., vol. II, L’expérience ouvrière et l’adieu à la révolution (juilliet 1934-juin 1937), Gallimard, Paris 1991, pp. 329- 332.
Simone Weil (1909–1943) Filosofa e scrittrice di origini ebraiche, si formò all’École Normale Supérieure di Parigi e, dopo la laurea in Filosofia, insegnò in alcuni licei francesi, avvicinandosi ai movimenti dell’estrema sinistra e al sindacalismo rivoluzionario. Animata da un profondo desiderio di rinnovamento sociale, appoggiò le rivendicazioni degli operai e nel 1934, per dimostrare la sua partecipazione, scelse di abbandonare l’insegnamento e lavorare in fabbrica. Nel 1936, durante la guerra civile spagnola, si arruolò nelle file delle brigate rivoluzionarie contro le milizie di Franco. Dopo l’esperienza bellica si aprì per lei un periodo di crisi spirituale, che la portò ad avvicinarsi al cristianesimo. Durante il secondo conflitto mondiale si rifugiò prima negli Stati Uniti e poi in Inghilterra, dove militò a fianco delle autorità in esilio della Resistenza francese e dove morì di tubercolosi.