L’oscenità della guerra
di Marcel Proust
Passi da Alla ricerca del tempo ritrovato
Come in Guerra e Pace di Tolstoj ci sono degli straordinari brani di storia che hanno dato vita a nuovi modi di fare storia, influenzando la disciplina in maniera decisiva, così nella grande opera di Proust c’è tantissima storia.
Storia, naturalmente, raccontata à la Proust, cioè filtrata attraverso i suoi ricorrenti personaggi. Pagine straordinarie come quelle sulla Francia dell’Affaire Dreyfus e anche quelle sulla Grande Guerra. Di seguito ne riportiamo alcune tratte da Alla ricerca del tempo ritrovato.
Materia vivente
[Siamo nel salotto di Madame Verdurin e parla degli articoli di Brichot sulla guerra comparsi su “Les Temps. Parla il Barone di Charlus]
Insomma, mio povero amico, tutto questo è spaventoso e noi abbiamo ben altro da lamentarci che di noiosi articoli. Si parla di vandalismo, di statue distrutte, ma la distruzione di tanti meravigliosi giovani, statue policrome incomparabili, non è forse anche questo vandalismo?
E una città che non avrà più begli uomini non sarà forse come una città di cui tutte le statue siano state abbattute?
Che piacere potrei trovare ad andare a pranzo in un ristorante quando venissi servito da vecchi clown muschiosi che assomigliano a Padre Didon, o peggio da cameriere in crestina che mi fan credere di essere entrato alla mensa Duval.
Proprio così, mio caro, e credo di avere il diritto di parlare in questo modo perché il Bello è pur sempre il Bello in una materia vivente. Che gran piacere essere servito da individui rachitici, con gli occhiali, cui si legge in faccia che sono stati riformati.
Contrariamente a quel che succedeva un tempo, in un ristorante, se si vuol far riposare l’occhio su qualcosa di decente non bisogna più guardare i camerieri che servono ma i clienti che consumano. Ma un cameriere si poteva sempre rivedere, benché cambiassero spesso, ma va a sapere chi è, e quando ritornerà, quell’ufficiale inglese venuto forse per la prima volta, e che magari domani verrà ucciso!
Quando Augusto di Polonia, come racconta quel delizioso Morand autore di Clarisse, cambiò uno dei suoi reggimenti con una collezione di vasi cinesi, a mio avviso fece un pessimo affare.
Pensate che tutti quei giovanotti in livrea grandi e grossi, alti due metri, che ornavano i monumentali scaloni delle nostre amiche più belle, sono stati tutti uccisi, arruolatisi per la maggior parte perché veniva ripetuto loro che la guerra sarebbe durata due mesi».
La guerra non è un match di pugilato, ma una malattia
«Ah! se fossero stati a conoscenza, come me, della forza della Germania, del valore della razza prussiana!» esclamò lasciandosi andare. Poi, accorgendosi di essersi troppo scoperto, aggiunse: «Per la Francia, non è tanto la Germania che temo, quanto la guerra in sé.
Quelli che stanno nelle retrovie si immaginano che la guerra sia un gigantesco match di pugilato al quale assistono da lontano, grazie ai giornali. Ma questo non ha alcun rapporto con la realtà.
La guerra è una malattia che quando sembra scongiurata su un certo versante riprende su un altro. Oggi Noyon sarà liberata, domani non si avrà più né pane né cioccolata, dopodomani colui che si riteneva del tutto tranquillo e sarebbe anche pronto a beccarsi una pallottola che però non si immagina, leggendo sui giornali che la sua classe sarà richiamata, verrà colto dal panico.
Quanto ai monumenti, quello che mi spaventa non è tanto la scomparsa di un capolavoro, unico in sé per la sua qualità come le cattedrale di Reims, ma soprattutto è il vedere distrutta una tale quantità di complessi architettonici vivi che rendevano tanto istruttivo e affascinante anche il più piccolo villaggio di Francia». […]
«Non voglio parlar male degli americani, Monsieur» continuò, «sembra che siano infinitamente generosi, ma siccome non c’è stato un direttore d’orchestra in questa guerra, dato che ognuno è entrato in ballo molto tempo dopo l’altro, e gli americani, avendo cominciato quando noi eravamo pressoché allo stremo, può darsi abbiano quell’entusiasmo che quattro anni di guerra in noi hanno affievolito.
Anche prima della guerra amavano il nostro paese, la nostra arte, pagavano molto cari i nostri capolavori. Molti sono nelle loro case adesso. Ma proprio quest’arte sradicata, come direbbe M. Barrès, è tutto il contrario di quello che costituiva il delizioso fascino della Francia.
Il castello spiegava la chiesa e questa, poiché era stata luogo di pellegrinaggio, spiegava la chanson de geste.
Storia e arte distrutti
Non per vantare esageratamente il lustro delle mie origini e delle mie parentele, e d’altronde non si tratta di questo. Ma ultimamente, per regolare una questione di interesse, ho avuto occasione di andare a far visita a mia nipote che abita a Combray, malgrado ci sia un certo raffreddamento tra me e la coppia Saint-Loup.
Combray non era che una piccola cittadina come ce n’è tante, ma i nostri antenati vi erano rappresentati, in quanto benefattori, in certe vetrate; in altre erano raffigurate le nostre insegne araldiche. Avevamo là la nostra cappella e le nostre tombe.
Questa chiesa è stata distrutta dai francesi e dagli inglesi perché serviva da osservatorio ai tedeschi. Tutto questo insieme di storia sopravvissuta e di arte che era la Francia viene distrutto, e non è finita.
Intendiamoci, non voglio essere ridicolo paragonando, per ragioni di famiglia, la distruzione della chiesa di Combray con quella della cattedrale di Reims, che era come il miracolo di una cattedrale gotica che aveva ritrovato spontaneamente la purezza della statuaria antica, o di quella di Amiens.
Non so se il braccio alzato di san Firmino sia oggi spezzato. In tal caso la più alta affermazione della fede e dell’energia sarebbe scomparsa da questo mondo.»
«Il suo simbolo, Monsieur», gli risposi, «e io adoro quanto voi certi simboli; ma sarebbe assurdo sacrificare al simbolo la realtà che esso simboleggia. Le cattedrali devono essere venerate fino al giorno in cui, per conservarle, bisognerebbe rinnegare le verità che insegnano. Il braccio di san Firmino sollevato in un gesto di comando quasi militaresco significava: «Mi spezzino pure se l’onore lo esige. Non sacrificate gli uomini alle pietre la cui bellezza deriva proprio dall’aver fissato per un attimo delle verità umane”.»
«Capisco ciò che volete dire», mi rispose M. de Charlus, «e M. Barrès, che purtroppo ci ha fatto fare troppi pellegrinaggi alla statua di Strasburgo e alla tomba di M. Déroulède, è stato commovente e simpatico quando ha scritto che la cattredale di Reims ci era meno cara della vita dei nostri soldati.
Asserzione che rende piuttosto ridicola la collera dei nostri giornali contro il generale tedesco che comandava laggiù, e che diceva che la cattedrale di Reims per lui era meno preziosa della vita di un soldato tedesco.
Pietà per i propri figli
Del resto, la cosa esasperante e penosa è che ogni paese dice la stessa cosa. Le ragioni per le quali le associazioni industriali della Germania dichiarano indispensabile il possesso di Belfort per preservare la loro nazione contro le nostre idee di rivalsa, sono le stesse di Barrès che pretende Magonza per proteggerci contro le velleità di invasione dei boches.
Perché la restituzione dell’Alsazia-Lorena è parsa alla Francia motivo insufficiente per fare la guerra ma sufficiente per continuarla e dichiararla nuovamente ogni anno? Voi sembrate credere che la vittoria sia ormai nelle mani della Francia, me lo auguro di tutto cuore, non dubitatene.
Ma infine, dacché, a torto o ragione, gli alleati si credono sicuri di vincere (per parte mia sarei naturalmente felice di questa soluzione ma vedo molte vittorie sulla carta, delle vittorie di Pirro, a un costo che non ci viene rivelato) mentre i boches non ne sono più così convinti, vediamo la Germania cercare di affrettare la pace, la Francia prolungare la guerra, proprio la Francia che è la Francia giusta e che quindi ha ragione di voler far udire parole di giustizia, ma che è anche la dolce Francia e perciò dovrebbe far udire parole di pietà, non foss’altro che per i propri figli, affinché ogni primavera i fiori che rinasceranno possano mettere una nota di colore su qualcosa d’altro che non su delle tombe.
Siate sincero, mio caro amico, voi stesso mi avete esposto una teoria secondo la quale le cose esisterebbero solo in virtù di una creazione che si rinnova di continuo. “La creazione del mondo”, mi diceste “non ha avuto luogo una volta per tutte, essa avviene necessariamente ogni giorno.”
Ebbene, se siete in buona fede, non potete escludere la guerra da questa teoria. Il nostro ottimo Norpois ha un bel scrivere (tirando fuori qualche espediente di retorica, di quelli che gli sono tanto cari come: “l’alba della vittoria”, o “il generale inverno”): “Ora che la Germania ha voluto la guerra, il dado è tratto!”.
La guerra si dichiara nuovamente ogni mattina
La verità è che la guerra la si dichiara nuovamente ogni mattino, quindi chi vuole continuarla è colpevole quanto chi l’ha cominciata, anzi, più ancora, forse, perché può darsi che il primo non ne prevedesse tutti gli orrori.
Ora, niente dice che una guerra tanto prolungata, anche se dovesse avere un esito vittorioso, non sia senza rischio. È difficile parlare di cose che non hanno precedenti, e delle ripercussioni su un organismo di un’operazione che si tenta per la prima volta.
È vero che, generalmente, le novità di cui ci si inquieta filano via lisce. I più saggi tra i repubblicani pensavano che era una follia la separazione dalla Chiesa. Invece tutto è andato liscio come l’olio. Dreyfus è stato riabilitato, Picquart nominato ministro della Guerra senza che nessuno abbia detto verbo.
D’altronde, da un sovraffaticamento come quello di una guerra che non viene interrotta per parecchi anni non è lecito aspettarsi di tutto? Che faranno gli uomini al ritorno? La fatica li avrà distrutti o resi pazzi?
Tutto questo potrebbe ritorcersi, se non sulla Francia, almeno sul governo, magari sulla forma che assumerà il governo. Voi una volta mi avete consigliato di leggere quel mirabile Aimée de Coigny di Maurras.
Sarei molto sorpreso che qualche Aimée de Coigny non si aspettasse dallo sviluppo della guerra che sta combattendo la repubblica quello che, nel 1812, Aimée de Coigny s’aspettava dalla guerra che l’Impero combatteva. Se esiste un’Aimée attuale si attueranno le sue speranze? Per parte mia non me lo auguro.
L’abominio del nazionalismo
Per tornare alla guerra in sé, il primo a cominciarla fu veramente l’imperatore Guglielmo? Ne dubito molto. E se è stato lui, che cosa ha fatto di diverso, per esempio, da Napoleone? Io trovo la cosa abominevole ma mi stupisco che ispiri tanto orrore agli incensatori di Napoleone, persone che il giorno della dichiarazione di guerra hanno esclamato, come il generale Pau: “Aspettavo questo giorno da quarant’anni! È il più bel giorno della mia vita!”.
Dio sa se qualcuno ha protestato con maggior foga di me quando, in società, si è dato uno spazio sproporzionato a nazionalisti e militari, mentre ogni amico dell’arte veniva accusato di occuparsi di cose funeste per la patria e ogni atto di civiltà che non fosse bellicoso veniva considerato deleterio.
A malapena un autentico uomo di mondo contava qualcosa nei confronti di un generale. Una pazza per un pelo non mi ha presentato a M. Syveton. Voi mi direte che quelle che mi sforzavo di mantenere non erano che regole mondane. Ma nonostante la loro apparente frivolezza esse avrebbero forse impedito parecchi eccessi. Ho sempre reso onore a chi rispetta la grammatica o la logica. Cinquant’anni dopo ci si accorge che hanno scongiurato seri pericoli.
Ora, i nostri nazionalisti sono i più germanofobi, i più oltranzisti degli uomini, ma negli ultimi quindici anni la loro filosofia è totalmente cambiata. Infatti premono perché la guerra continui, ma soltanto per sterminare una razza bellicosa e per amore della pace. Una civiltà guerriera, che quindici anni fa trovavano tanto bella, adesso fa loro orrore; non soltanto rimproverano alla Prussia di aver fatto prevalere, al suo interno, l’elemento militare, ma affermano che, in ogni tempo, le civiltà militari portarono alla distruzione di tutto ciò che, ora, essi giudicano prezioso, non solo le arti ma anche la galanteria.
Chi non è con noi è contro di noi
Basta che uno dei loro critici si sia convertito al nazionalismo perché divenga all’istante un amico della pace. Costui è convinto che, in tutte le civiltà guerriere, la donna abbia svolto un ruolo umiliante e infimo. Non si osa rispondergli che le “Dame” dei cavalieri medievali e la Beatrice di Dante erano forse collocate su un trono elevato quanto quello delle eroine di Becque. Mi aspetto, uno di questi giorni, di vedermi messo a tavola accanto a un rivoluzionario russo, o magari accanto a uno di quei nostri generali che fanno la guerra per l’orrore che suscita in loro la guerra e per punire un popolo, reo di coltivare un ideale che loro stessi giudicavano, quindici anni fa, come l’unico tonificante. Ancora qualche mese fa, lo sfortunato zar veniva osannato per aver convocato la Conferenza dell’Aia.
Ma ora che si inneggia alla Russia libera, si dimentica il titolo che permetteva di portarlo alle stelle. Così gira la ruota del mondo. E intanto la Germania usa a tal punto le stesse espressioni della Francia che si direbbe la citi, e non si stanca di dire che essa “lotta per l’esistenza”.
Quando leggo: “Lotteremo contro un nemico implacabile e crudele fino a quando non avremo ottenuto una pace che ci garantisca per l’avvenire da ogni aggressione, e affinché il sangue dei nostri coraggiosi soldati non sia stato sparso invano”, oppure: “Chi non è con noi è contro di noi”, non so più se queste frasi siano dell’imperatore Guglielmo o di M. Poincaré, dato che, con alcune varianti, sono state pronunciate venti volte vuoi dall’uno che dall’altro, benché, in verità, debba ammettere che, in questo caso, l’imperatore ha imitato il presidente della Repubblica.
La Francia, probabilmente, non ci avrebbe tenuto a prolungare per così tanto tempo la guerra se fosse stata debole, ma soprattutto la Germania non avrebbe avuto tanta fretta di finirla se non avesse smesso di essere forte. Di essere altrettanto forte, perché forte, lo vedrete, lo è ancora.»
Da Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Rizzoli, Edizione del Kindle, p.3535–3541
Dal cielo
Dopo il raid dell’antivigilia, il cielo che era stato più movimentato della terra, si era calmato come il mare dopo una tempesta. Ma, come il mare dopo una tempesta, non aveva ancora ripreso la calma assoluta.
Aeroplani si alzavano ancora come razzi a raggiungere le stelle, e proiettori facevan vagare lentamente nel cielo sezionato, come una pallida polvere di astri, erranti vie lattee.
Pertanto gli aeroplani si inserivano in mezzo alle costellazioni; e vedendo tutte quelle «nuove stelle» si poteva in effetti credere di essere capitati in un altro emisfero.
M. de Charlus mi espresse la sua ammirazione per quegli aviatori, e siccome non riusciva più a trattenersi dal dare libero sfogo alla sua germanofilia, così come ad altre sue tendenze, pur negando l’una e le altre, mi disse: «D’altronde confesso di ammirare altrettanto i tedeschi che si innalzano sui Gotha.
E sugli Zeppelin; pensate che coraggio ci vuole. Sono semplicemente degli eroi. Che importa che tirino anche sui civili? La batteria non spara forse su di loro? Avete paura voi dei Gotha e del cannone?».
Gli dissi di no, ma forse mi ingannavo. È probabile che, la mia pigrizia avendomi abituato a rimandare, giorno per giorno, all’indomani il mio lavoro, mi immaginavo fosse così anche per la morte. Come si può aver paura di un cannone quando si è convinti che non ci colpirà proprio quel giorno?
D’altronde, formatesi isolatamente, queste idee di bombe lanciate, di morte possibile, non aggiunsero niente di tragico all’immagine che mi facevo del passaggio delle aeronavi tedesche, finché una sera, da una di esse, sballottata, spezzettata ai miei occhi da banchi di nebbia di un cielo sconvolto, da un aeroplano, che benché lo sapessi capace di uccidere immaginavo soltanto astrale e celeste, non vidi il gesto della bomba lanciata verso di noi.
Infatti, la reale essenza di un pericolo non è percepita che in quella cosa nuova, non riconducibile a quanto già sappiamo, che si chiama un’impressione, e che, spesso, come in quel caso, è riassunta da una linea, una linea che rivelava un’intenzione, una linea in cui c’era la forza latente di un’attuazione che la deformava, mentre sul ponte della Concorde, attorno all’aeroplano minaccioso e braccato, e come si fossero riflesse nelle nubi le fontane degli Champs-Elysées, di place de la Concorde e delle Tuileries, gli zampilli luminosi dei proiettori si incurvavano nel cielo, linee anch’esse piene di intenzioni, anche di intenzioni previdenti e protettrici, di uomini potenti e saggi ai quali, come una notte nella caserma di Doncières, ero grato che la loro forza si degnasse di assumersi, con quella precisione così bella, la pena di vegliare su di noi.
Da Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Rizzoli, Edizione del Kindle, p. 3546
Una nuova Pompei
Che documenti per la storia futura, quando gas asfissianti simili a quelli emessi dal Vesuvio, e crolli come quelli che seppellirono Pompei, manterranno intatte le ultime imprudenti che ancora non hanno spedito alla volta di Bayonne i loro quadri e le loro statue!
Del resto, da un anno, non è già ogni sera una specie di Pompei a puntate, quando la gente fugge nelle cantine, e non per prendere qualche vecchia bottiglia di Mouton-Rothschild o di Saint-Emilion, ma per nascondersi portando con sé quanto ha di più prezioso, come i sacerdoti di Ercolano sorpresi dalla morte mentre portavano in salvo i vasi sacri? È sempre l’attaccamento all’oggetto a provocare la morte di chi lo possiede.
Parigi non fu fondata da Ercole come Ercolano. Ma quante somiglianze si impongono! E questa lucidità che ci è data, non è affatto caratteristica esclusiva della nostra epoca. Ogni altra epoca l’ha posseduta.
Così come io penso che domani potremmo subire la stessa sorte delle città poste ai piedi del Vesuvio, queste, a loro volta, sentivano di esser minacciate dal destino delle città maledette della Bibbia. È stata trovata sul muro di una casa di Pompei la scritta rivelatrice: Sodoma e Gomorra».
Non so se fu quel nome di Sodoma e le idee che risvegliò in lui, o il pensiero del bombardamento, che spinsero M. de Charlus ad alzare per un attimo gli occhi al cielo, ma subito li riportò sulla terra.
«Io ammiro tutti gli eroi di questa guerra. Ad esempio, i soldati inglesi che all’inizio consideravo, con una certa leggerezza, come giocatori di calcio qualsiasi, tanto presuntuosi da misurarsi con dei professionisti — e che professionisti! — ebbene, anche solo dal punto di vista estetico, sono semplicemente degli atleti della Grecia, sentitemi bene, mio caro, della Grecia! Sono i giovani di Platone, o piuttosto degli spartani.
Ho un amico che è stato a Rouen, dove hanno la loro base, e ha visto delle autentiche meraviglie, meraviglie come non se ne ha idea. Non è più Rouen, è un’altra città. Naturalmente c’è anche l’antica Rouen, con i santi emaciati della cattedrale. Intendiamoci, è bella anche questa, ma è tutt’altra cosa.
Il soldato tedesco
E i nostri poilus! Non riesco a dirvi che gusto trovo nei nostri poilus, nei nostri piccoli parigini; ecco, guardate, come quello che passa adesso laggiù, con quella sua aria smaliziata, la sua faccia sveglia e divertente. Mi capita spesso di fermarli, di far due chiacchiere con loro, che finezza e che buon senso!
E quei zerbinotti di provincia, come sono divertenti e carini con quell’arrotare di erre e il loro dialetto! Io ho vissuto a lungo in campagna, ho dormito nelle cascine, conosco la loro parlata, ma la nostra ammirazione per i francesi non deve farci disprezzare i nostri nemici, sarebbe come diminuire noi stessi.
E non sapete che cos’è il soldato tedesco, voi non l’avete visto come me sfilare, a passo di parata, il passo dell’oca unter den Linden.» E ritornando all’ideale di virilità che mi aveva abbozzato a Balbec e che con il tempo aveva assunto in lui una forma più filosofica, servendosi per altro di ragionamenti assurdi che a momenti, anche quando gli capitava di dire cose veramente acute, lasciavano intravedere la trama troppo esile del semplice uomo di mondo, sia pure intelligente:
«Ecco», mi disse «guardate che gagliardo pezzo d’uomo è il soldato tedesco, un essere forte e sano che non pensa che alla grandezza del suo paese. Deutschland über alles, il che non è poi così stupido, mentre noi, quando loro si preparavano virilmente — siamo sprofondati nel dilettantismo».
Con questa parola M. de Charlus voleva probabilmente indicare qualcosa di analogo alla letteratura, perché di colpo, ricordandosi che amavo le lettere e che un tempo avevo anche pensato di dedicarmici, mi batté sulla spalla (approfittando del gesto per appoggiarsi fino a farmi male come, quando facevo il servizio militare, il rinculo contro la clavicola del «76») e mi disse come per addolcire il rimprovero:
«Sì, siamo sprofondati nel dilettantismo, noi tutti, anche voi, come me, potete recitare il mea culpa, siamo stati tutti troppo dilettanti». Stupito per il rimprovero e mancandomi la battuta per replicare, o per deferenza verso il mio interlocutore, e nel contempo intenerito per la sua amichevole
Da Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Rizzoli, Edizione del Kindle, pp.3552–3553
L’abbandono
Non fu l’Oriente di Decamps e nemmeno di Delacroix a cominciare a ossessionare la mia immaginazione quando il barone mi ebbe lasciato, ma l’antico Oriente di quelle Mille e una notte che avevo tanto amato, e, perdendomi a poco a poco nel reticolo di quelle strade buie, pensavo al califfo Harun-el-Raschid in cerca di avventure nei quartieri malfamati di Bagdad.
D’altra parte il caldo e la camminata mi avevano messo sete, ma da un pezzo i bar erano chiusi e, a causa della penuria di benzina, i rari taxi che incontravo, guidati da negri o da levantini, non si davano nemmeno la briga di rispondere ai miei segnali.
Il solo posto in cui avrei potuto farmi servire da bere e riprendere le forze per ritornarmene a casa sarebbe stato un albergo. Ma nella strada, abbastanza lontana dal centro, in cui ero arrivato, gli alberghi, da quando i Gotha avevano cominciato a lanciare le loro bombe su Parigi, erano tutti chiusi.
Lo stesso valeva per i negozi, i cui proprietari, per mancanza di commessi, o per paura, erano fuggiti in campagna lasciando sulla porta il solito cartellino scritto a mano che annunciava la riapertura per una data remota, e d’altronde problematica. Gli altri negozi che erano riusciti a sopravvivere annunciavano parimenti che avrebbero aperto solo due volte la settimana.
Si sentiva che la miseria, l’abbandono, la paura abitavano l’intero quartiere. Fui quindi molto sorpreso quando vidi che tra quelle case abbandonate ce n’era una in cui, al contrario, la vita sembrava aver sconfitto la paura e il fallimento, conservando l’attività e la ricchezza.
Dietro le imposte chiuse di ogni finestra, la luce abbassata, secondo le norme in vigore, rivelava tuttavia un’assoluta noncuranza dell’economia. E a ogni istante la porta si apriva per lasciare entrare o uscire qualche nuovo visitatore. Era un albergo che doveva suscitare l’invidia di tutti i commercianti vicini (a causa del denaro che dovevano guadagnare i suoi proprietari); e suscitò anche la mia curiosità quando ne vidi uscire rapidamente, a una quindicina di metri da me, troppo lontano quindi perché io potessi riconoscerlo nell’oscurità profonda, un ufficiale.
Da Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Rizzoli, Edizione del Kindle, p.3555