Lo spartiacque di Hegel
di Emanuele Severino
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Il cambiamento del mondo
La filosofia di Hegel è la forma più alta raggiunta dall’epistéme. Marx è convinto che, dopo Hegel, non si tratta più di comprendere il mondo — questo compito sarebbe stato sostanzialmente assolto da Hegel — ma si tratta di cambiarlo.
E infatti, dopo Hegel, il pensiero filosofico ha di mira soprattutto, da un lato, il problema del cambiamento del mondo, alla guida del quale si sono poste la scienza e la tecnica moderna, e, dall’altro, la pretesa dell’epistéme di porsi come il sapere definitivo, stabile, assoluto e incontrovertibile.
Contro questa gigantesca e grandiosa volontà di verità, che anima l’epistéme, si sono rivolte tutte le forze che dominano la moderna civiltà occidentale: il cristianesimo, che non intende lasciare alla filosofia l’ultima parola sul senso del mondo, l’economia borghese, alla quale la filosofia non serve per l’incremento indefinito della produzione e del profitto, la scienza moderna, che invece consente la costruzione degli strumenti che non solo promuovono l’espansione economica, ma, ormai, il dominio dell’universo.
La critica all’epistéme
In questo contesto, anche il pensiero filosofico, dopo Hegel, si è sempre più decisamente trasformato in critica della volontà della filosofia di essere epistéme.
Certo, questo ora indicato è l’aspetto soltanto apparente del rapporto autentico tra l’epistéme e la civiltà occidentale — un rapporto che tuttavia stenta ancora a venire alla luce.
Si è già rilevato che l’Occidente può proporsi il cambiamento e la ricostruzione del mondo, solo in quanto l’epistéme, all’inizio della storia dell’Occidente, ha evocato il “mondo”, ossia la dimensione in cui le cose escono dal niente e ritornano nel niente: solo se le cose sono disponibili sia all’essere sia al niente, solo se sono concepite come questa oscillazione infinita che percorre l’estrema distanza dell’essere dal niente, solo a questa condizione possono sorgere i progetti di quel dominio radicale e inaudito sulle cose, che assegna le cose all’essere e al niente (anche quando evita di riflettere sul senso di queste decisive parole), le crea e le annienta, le produce e le distrugge, le cambia e le trasforma.
E la volontà di potenza è, insieme, la volontà di salvezza dall’angoscia provocata dall’imprevedibilità del divenire.
Il pensiero come produzione
Nella filosofia antica, l’epistéme, dopo avere evocato il “mondo” — e, certo, uno dei tratti più ardui a comprendersi è che, prima dei greci, non c’è “mondo” che concepisce il pensiero dell’uomo come contemplazione: il pensiero contempla la produzione dell’universo. E tuttavia, già nella filosofia antica, l’epistéme si pone come guida e principio di tutto ciò che può essere prodotto dall’uomo.
Nella filosofia moderna, l’epistéme giunge a vedere nel pensiero stesso il principio produttivo dell’universo, dapprima dell’universo soggettivo e fenomenico, e poi, con l’idealismo, dell’universo in ogni suo aspetto.
La forza produttiva dell’azione e della volontà è cosi collocata nel cuore stesso del pensiero: nella sua essenza più profonda il pensiero, la razionalità, non è contemplazione, ma produzione. Invitando a cambiare il mondo, Marx ha sostanzialmente tratto le conseguenze del principio che il mondo è autoproduzione del pensiero.
In questo senso, la volontà di potenza, che caratterizza la civiltà moderna e soprattutto la civiltà della tecnica, ha la sua formulazione più radicale proprio in quella filosofia idealistica che ci si ostina a considerare come un “umanesimo” irriducibilmente ostile e antitetico allo spirito scientifico-tecnologico del nostro tempo. L’autoproduzione idealistica dello Spirito e il dominio scientifico- tecnologico dell’universo hanno la stessa anima.
Ma di questo la nostra cultura non sembra accorgersi. In essa, invece, è divenuta prevalente la convinzione che la volontà di verità, che anima l’epistéme, ostacoli e infine renda impossibile la volontà di potenza. E in effetti un dominio senza limiti è impedito da quel limite in cui vuol consistere la verità assoluta, definitiva, incontrovertibile, alla quale l’epistéme si è sempre rivolta.
L’epistéme dopo Hegel
Tutto questo non significa che dopo Hegel la filosofia non si presenti più come epistéme. All’opposto, vi sono grandi filosofie, come ad esempio quella di Schopenhauer, di Marx, il neohegelismo anglosassone e italiano, l’intuizionismo di Bergson, la fenomenologia di Husserl (ma anche lo spiritualismo di Rosmini e Gioberti), che sono vere e proprie forme di epistéme.
E tuttavia si tratta di forme che, in vari modi, sono riconducibili alle forme preesistenti di epistéme, oppure, come nel caso del marxismo (che peraltro è una forma vera e propria di hegelismo), si associano al tema del cambiamento del mondo.
Un tema, questo, si ribadisca, che non è estraneo epistéme, perché essa ha appunto evocato il “mondo” come luogo del movimento e quindi come dimensione disponibile alle forze che intendono trasformarla e dominarla.
Ma mentre fino a Hegel l’epistéme ritiene che ogni forma di cambiamento del mondo, da parte dell’uomo, debba avvenire sotto la sua guida, dopo Hegel si fa strada in vari modi la persuasione che il mondo può essere cambiato solo riducendo e infine distruggendo l’epistéme.
La distruzione dell’epistéme
Questo grandioso processo di distruzione, che incomincia all’interno della stessa scuola hegeliana (Feuerbach, Marx) e ha le sue prime grandi espressioni in Kierkegaard e Nietzsche, è la caratteristica fondamentale della filosofia contemporanea, dallo storicismo all’esistenzialismo, dal pragmatismo al neopositivismo.
Il problema, a questo punto, riguarda il senso e il valore della distruzione dell’epistéme. E tale problema si inserisce nel più ampio problema della distruzione,
da parte della civiltà della tecnica, della civiltà tradizionale dell’Occidente. Il problema del senso della nostra civiltà.
Da: Da Emanuele Severino, La filosofia del greci al nostro tempo. La filosofia moderna, Garzanti, Milano, 1996