Lo scetticismo di Hume
Il sapore della mela non è quello del roast beef
di Betrand Russell
Non credo che l’ultimo risultato della ricerca di Hume su quel che passa per conoscenza sia quello che Hume stesso desiderasse. Il sottotitolo del Trattato sulla natura umana dice: “Un tentativo di introdurre il metodo sperimentale del ragionare negli argomenti morali”. È evidente ch’egli era partito con la convinzione che il metodo scientifico portasse alla verità, a tutta la verità, a nient’altro che la verità; finì, però, col persuadersi che una convinzione non è mai razionale, dato che non sappiamo niente.
Dopo aver esposto gli argomenti in favore dello scetticismo (Libro I, parte IV, sez. I), non li rifiuta, ma ricade nella credulità naturale.
“La natura, per un’assoluta e incontrollabile necessità, ci spinge a giudicare non meno che a respirare o a sentire; né possiamo in alcun modo evitare di veder certi oggetti in una luce più forte o più piena (a causa del loro abituale legame con un’impressione reale) più di quanto possiamo trattenerci dal pensare mentre siamo svegli, o dal vedere i corpi circostanti, quando volgiamo gli occhi attorno. Chiunque si è preso la pena di confutare lo scetticismo totale, ha realmente litigato senza un antagonista, e si è sforzato di trovare argomenti per definire una facoltà, che la natura aveva già assegnato alla mente e che aveva già reso inevitabile. Quindi la mia intenzione, nell’esporre con tanta cura gli argomenti di quella fantastica setta, era soltanto di far constatare al lettore la verità della mia ipotesi, che tutti i nostri ragionamenti intorno alle cause e agli effetti derivino da nient’altro che dall’abitudine; e che il credere è più propriamente un atto della parte sensitiva che non della parte cogitativa della nostra natura”.
“Lo scettico”, prosegue Hume (Libro I, parte IV, sez. II), “continua ancora a ragionare e a credere, anche se asserisce di non poter difendere la sua ragione per mezzo della ragione; e analogamente deve esser d’accordo col principio riguardante l’esistenza del corpo, pur non potendone sostenere l’autenticità con alcun argomento filosofico… Possiamo ben chiedere che cosa ci spinga a credere nell’esistenza del corpo. Ma è inutile chiedere, se ci siano corpi o no. Questo è un punto che dobbiamo dare per assodato in tutti i nostri ragionamenti”.
Quanto sopra è il principio di un paragrafo “Intorno allo scetticismo nei riguardi dei sensi”. Dopo una lunga discussione, questo paragrafo termina:
“Questo dubbio scettico, sia rispetto alla ragione che ai sensi, è una malattia che non può mai essere curata alla radice, ma deve ripresentarsi a noi ad ogni istante, per quanto noi possiamo scacciarla e per quanto a volte possa sembrare che ce ne siamo interamente liberati… Soltanto la noncuranza e l’indifferenza possono offrirci qualche rimedio. Per questa ragione mi appoggio interamente su di esse; e siate certi, qualunque possa essere l’opinione del lettore in questo istante, che di qui ad un’ora egli sarà persuaso che esistono sia un mondo esterno che un mondo interno”.
Non c’è alcun merito per studiare la filosofia, così sostiene Hume, eccetto il motivo che, per certi temperamenti, essa costituisce un piacevole modo di passare il tempo. “In tutti gli eventi della vita dovremmo conservare il nostro scetticismo. Se crediamo che il fuoco riscaldi o che l’acqua rinfreschi, questo è solo perché ci costa troppa fatica pensare altrimenti. Anzi, se siamo filosofi, ciò dovrebbe avvenire soltanto sulla base di principi scettici, e per un’inclinazione che sentiamo a impegnarci a quel modo”. Se abbandonassi la speculazione, “sento che uscirei perdente dal campo del piacere; e questa è l’origine della mia filosofìa”.
La filosofia di Hume, esatta o errata che sia, rappresenta la bancarotta della ragionevolezza del XVIII secolo. Hume parte, come Locke, con l’intenzione di essere sensoriale ed empirico, di non dar niente per ammesso, ma di cercare ogni insegnamento che si possa trarre dall’esperienza e dall’osservazione.
Ma, fornito di un’intelligenza superiore a quella di Locke, di una maggiore acutezza nell’analisi, e di una minor capacità di accettare delle confortanti incongruenze, Hume arriva alla disastrosa conclusione che dall’esperienza e dall’osservazione nulla si possa apprendere.
Non esiste niente di simile ad una convinzione razionale: “se crediamo che il fuoco riscaldi o che l’acqua rinfreschi, questo è solo perché ci costa troppa fatica pensare altrimenti”.
Non possiamo fare a meno di credere, ma nessuna convinzione può basarsi sulla ragione. Né una data linea d’azione può essere più razionale di un’altra, dato che tutte sono ugualmente basate su convinzioni irrazionali. Quest’ultima conclusione, però, sembra che Hume non l’abbia tratta.
Anche nel suo capitolo più scettico, in cui riassume le conclusioni del Libro I, dice: “Generalmente parlando, gli errori in religione sono pericolosi; quelli in filosofia sono soltanto ridicoli”. Veramente non ha alcun diritto di dirlo: “pericoloso” è una parola casuale, e uno che è scettico intorno alla causalità non può sapere se qualcosa sia “pericoloso”.
In realtà, nelle ultime parti del Trattato, Hume dimentica tutti i suoi dubbi fondamentali e scrive molte cose che qualsiasi moralista illuminato del tempo avrebbe potuto scrivere; applica ai suoi dubbi il rimedio che egli stesso raccomanda, e cioè “noncuranza e indifferenza”.
In un certo senso il suo scetticismo è insincero, dato che non può poi mantenerlo nella pratica. Ha però l’imbarazzante conseguenza di paralizzare ogni sforzo per dimostrare che una linea d’azione è migliore di un’altra.
Era inevitabile che una simile auto-confutazione del razionalismo fosse seguita da un’esplosione di fede irrazionale.
La disputa tra Hume e Rousseau è simbolica: Rousseau era pazzo, ma fu influente, Hume era savio ma non ebbe seguaci.
I successivi empiristi inglesi respinsero il suo scetticismo senza confutarlo; anche Rousseau e i suoi seguaci dicevano, con Hume, che nessuna convinzione è basata sulla ragione, ma pensavano che il cuore fosse superiore alla ragione, e lasciavano che il cuore li conducesse a convinzioni assai diverse da quelle che Hume sosteneva in pratica.
I filosofi tedeschi, da Kant ad Hegel, non hanno assimilato gli argomenti di Hume. Lo dico deliberatamente, a dispetto dell’opinione che molti filosofi hanno in comune con Kant, che la sua Critica della ragion pura rispondesse a Hume.
In realtà questi filosofi, almeno Kant ed Hegel, rappresentano un tipo di razionalismo pre- humiano, e possono essere confutati con gli argomenti di Hume. I filosofi che non possono essere confutati in questo modo sono quelli che non pretendono di essere razionali, come Rousseau, Schopenhauer e Nietzsche.
Il sorgere dell’irirrazionalismo nel corso del XIX secolo, e quel tanto che ne è passato nel XX, sono una naturale conseguenza della distruzione dell’empirismo effettuata da Hume.
È quindi importante scoprire se esista una risposta a Hume, rimanendo entro l’ossatura d’una filosofia del tutto o per lo più empirica.
Se questa risposta non c’è, non c’è neanche alcuna differenza intellettuale tra la saggezza e l’insania.
Il pazzo che crede di essere un uovo in camicia va condannato unicamente per il fatto che è in minoranza, o piuttosto (dato che non dobbiamo presupporre la democrazia) per il fatto che il governo non è d’accordo con lui. Questo è un punto di vista disperante, e bisogna augurarsi che ci sia la maniera di evaderne.
Lo scetticismo di Hume si basa interamente sul rifiuto del principio di induzione. Il principio di induzione, applicato alla casualità, dice che se si trova che A è molto spesso accompagnato o seguito da B e non si conosce alcun caso in cui A non sia accompagnato o seguito da B, è probabile allora che alla prossima occasione in cui sarà osservato A, questo sarà seguito o accompagnato da B.
Se il principio è sufficientemente esatto, un numero abbastanza elevato di esempi rende la probabilità non molto lontana dalla certezza. Se questo principio, o qualsiasi altro da cui possa esser dedotto, è vero, allora le deduzioni causali che Hume respinge sono valide, non certo perché danno la certezza, ma perché danno una probabilità sufficiente per gli scopi pratici. Se questo principio non è vero, ogni tentativo di giungere a leggi scientifiche generali partendo da osservazioni particolari è fallace, e lo scetticismo di Hume è inevitabile per un empirista.
Il principio stesso non può naturalmente, senza cadere in un giro vizioso, esser ricavato dall’osservazione di certe uniformità, dato che è richiesto appunto per giustificare deduzioni di questo genere. Deve essere quindi (o deve essere dedotto da) un principio indipendente, non basato sull’esperienza.
Finora Hume ha dimostrato che il puro empirismo non è una base sufficiente per la scienza. Ma se questo unico principio è ammesso, tutto il resto può andar d’accordo con la teoria che tutta la nostra conoscenza sia basata sull’esperienza.
Sia chiaro però che questo significherebbe allontanarsi seriamente dall’empirismo, e i non empiristi possono chiedere perché, una volta ammesso di allontanarsene per un verso, debba essere vietato allontanarsene per altri versi.
Queste, però, non sono questioni originate direttamente dai ragionamenti di Hume. Ciò che questi ragionamenti dimostrano (e non credo che la dimostrazione possa essere controbattuta) è che l’induzione è un principio logico indipendente, incapace di esser ricavato dall’esperienza o da altri principi logici, e che senza questo principio la scienza è impossibile.
Da: Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, Milano, Longanesi, 1948.