L’imperativo categorico di Kant
di Emanuele Severino
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Ragione e volontà
La ragione non è soltanto la suprema unificazione (del molteplice sensibile) che si forma all’interno dell’io: la ragione è anche in relazione alla volontà; nel senso che la “determina”. Prima di chiarire il senso di questa affermazione, va detto che non è soltanto la ragione a “determinare” la volontà.
La volontà è determinata da comandi, prescrizioni — “principi pratici” — che la spingono a volere questo piuttosto che quello. Certi principi pratici presuppongono certi impulsi e desideri che si riferiscono a oggetti empirici.
La massima di mangiar bene, ad esempio, che uno può prefiggersi, è un principio pratico che presuppone un desiderio particolarmente intenso del cibo. Tutti i principi pratici di questo tipo sono avvertiti dall’individuo umano come validi soltanto per la sua volontà (e anzi è contrariato se c’è troppa gente a prefiggerseli). Non è dunque questo il caso in cui la volontà è “determinata” dalla ragione.
Ma esistono anche principi pratici che non esprimono immediatamente impulsi e desideri, ma regole della ragione.
Ad esempio, la regola di lavorare e risparmiare in gioventù per non stentare nella vecchiaia non esprime immediatamente un impulso o un desiderio (ché anzi questi ultimi porterebbero a spender subito i propri guadagni), ma indica con quali mezzi si può raggiungere un certo scopo (cioè l’agiatezza nella vecchiaia).
Imperativi ipotetici
Queste regole razionali, tuttavia, sono sì degli imperativi che il soggetto considera validi per la volontà di ogni essere razionale, ma sono imperativi ipotetici, condizionati: tutti (almeno nel tipo di società in cui viviamo) devono lavorare e risparmiare in gioventù, se non vogliono stentare nella vecchiaia (cioè nell’ipotesi, o alla condizione che vogliano una vecchiaia di questo tipo).
Ma questa condizione è evitabile: uno può prevedere di non diventar vecchio, può aspettare l’agiatezza da qualcosa di diverso dal suo lavoro, può proporsi di vivere, da vecchio, alla peggio o come capita.
Anche questi imperativi possono quindi essere evasi — come può essere evaso ogni principio pratico che propone alla volontà un oggetto empirico. Anche gli imperativi ipotetici in cui consistono le regole della ragione derivano infatti da ultimo, sebbene indirettamente, da certi impulsi e desideri che spingono a volere certi oggetti empirici (come, stando all’esempio, derivano dal desiderio di godere i beni della vita non solo nel presente, ma anche nel futuro, dove per vecchiaia non si potrà più lavorare).
L’imperativo categorico
Ma la ragione determina la volontà non soltanto mediante gli imperativi ipotetici, ma anche mediante un imperativo che è “categorico” — cioè non condizionato dall’ipotesi che uno voglia una certa cosa –; e che quindi è valido universalmente, cioè per la volontà di ogni essere razionale.
Tutti i principi pratici, nei quali la volontà è determinata da ultimo da oggetti empirici, e quindi a posteriori, non possono essere universali, e quindi non possono essere imperativi categorici.
Ciò vuol dire che un principio pratico può essere universale non in base alla sua materia, costituita appunto dal suo contenuto empirico, ma solo in base alla sua forma, ossia a ciò che in tale principio rimane quando si sia fatta completamente astrazione dalla sua materia.
Orbene, la forma di un principio pratico universale non solo è a priori, ma è la stessa ragion pura, la quale si presenta, alla volontà, come legislazione universale. Se il desiderio comanda alla volontà di procurarsi il piacere, cioè il soddisfacimento del desiderio, al di sopra del desiderio, la ragione comanda alla volontà di procurarsi l’ordinamento razionale e quindi universale del mondo; e in quanto la ragione è questo comando, essa si presenta alla volontà appunto come legislazione universale — che può anche contrastare tutte le inclinazioni, tutti i sentimenti, i desideri e gli impulsi da cui l’uomo si trova posseduto.
In quanto la ragione determina da sola (cioè senza presupporre alcun sentimento, impulso, desiderio, inclinazione) la volontà, la ragione è un imperativo categorico, un comando cioè che non è subordinato ad alcuna condizione o ipotesi (giacché così subordinati sono gli imperativi che da ultimo prescrivono un certo contenuto empirico, a posteriori).
L’imperativo come legislazione universale
Ciò non vuol dire che l’imperativo categorico sia sempre seguito da tutti (ché anzi è vero piuttosto il contrario), ma che è sempre sentito da tutti gli esseri razionali, e che tutti ne sentono il carattere categorico (un concetto, questo, che non può sembrare eccessivamente ottimistico a un pensatore come Kant, che ha prestato tanta attenzione all’ottimismo di fondo della filosofia di Rousseau, per il quale ciò che vi è di essenziale e di buono nell’uomo esiste indipendentemente da ogni forma di civiltà e di cultura).
Comandando alla volontà di volere l’ordinamento razionale e quindi universale del mondo, l’imperativo categorico dice all’uomo:
«Fai quello che tu credi che ogni essere dotato di ragione dovrebbe fare nella tua situazione».
E infatti in ogni uomo è presente la coscienza di dover fare ciò che ogni essere razionale dovrebbe fare se si trovasse al suo posto; e ogni uomo è sempre in grado di giudicare se il motivo del suo agire è il dover fare ciò che egli crede che ognuno dovrebbe fare in quella situazione, oppure se tale motivo è il proprio benessere e la propria felicità.
La buona volontà
Il volere qualcosa, per il motivo che si è convinti che ogni essere razionale, in una certa situazione, dovrebbe volerlo, è ciò che il senso comune chiama “buona volontà”. E la buona volontà è appunto la volontà determinata dalla ragione. La ragione determina la volontà, nel senso che le prescrive incondizionatamente (categoricamente) di volere ciò che essa crede che dovrebbe essere voluto da ogni volontà razionale.
Da quanto si è detto, risulta che ogni volere ha sempre per oggetto una materia determinata (cioè un contenuto empirico), ma che non è questa materia il motivo per il quale la buona volontà vuole.
La felicità altrui (l’amore del prossimo), ad esempio, può essere la materia che è oggetto della buona volontà. Ma la felicità altrui non può essere il motivo per cui la buona volontà vuole, perché, in questo caso, tale felicità sarebbe, per chi la vuole, un bisogno (impulso, tendenza, inclinazione), e non può esistere un imperativo che comandi categoricamente a tutti gli esseri razionali di provare questo bisogno; mentre è ben concepibile che la ragione comandi a tutti gli esseri razionali di volere un ordinamento razionale del mondo, di volere cioè (dato che la ragione, in quanto determina la volontà, è legge, imperativo categorico) una “legislazione universale” (o legge).
Il carattere formale della ragione kantiana
Appare quindi che la “ragione”, che determina la volontà, non è un sistema di verità determinate (come invece accade nella metafisica), ma è la ragione nel suo aspetto generico o formale, ossia come legge universale: quella legge universale cui il senso comune si riferisce quando, riferendosi a ciò che si deve fare, intende che si debba fare ciò che tutti i nostri simili (cioè tutti gli esseri razionali) dovrebbero fare se si trovassero nella nostra situazione.
La ragione non indica cioè quali siano le azioni che debbono essere compiute, ma prescrive che le azioni siano compiute con la convinzione che siano razionali — sì che il motivo per cui esse sono compiute dalla volontà buona non è la loro materia, ma la razionalità che si è convinti competa a tale materia.
Kant formula l’imperativo categorico appunto in questi termini:
«Agisci in modo che la massima (cioè il motivo) della tua azione possa valere come principio di una legislazione universale»
(ossia come ciò che ogni essere razionale dovrebbe fare se si trovasse nelle tue condizioni).
Kant chiama “ragion pratica” la ragione in quanto determinante la volontà. (E Critica della ragion pratica è il titolo della seconda delle tre celebri Critiche kantiane.)
Da questa formulazione dell’imperativo categorico appare il carattere formale della morale kantiana — una morale che non pone cioè a fondamento un decalogo, ma esclusivamente la buona volontà, e che dunque non può escludere (anche se tenta di farlo) che la volontà possa essere buona anche quando la materia del suo oggetto sia la negazione di un decalogo come quello cristiano.
Da: Emanuele Severino, La filosofia del greci al nostro tempo. La filosofia moderna, Garzanti, Milano, 1996