L’Iliade: il trionfo della forza

La forza annichilisce chi la subisce e chi la usa. Vincitori e i vinti si ritrovano fratelli nella stessa miseria

Mario Mancini
37 min readSep 25, 2021

di Simone Weil

✎ Think|Tank. Il saggio del mese [ottobre 2021]

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Il saggio L’Iliade o il poema della forza vide la luce in un momento molto particolare della storia europea: fu scritto da Simone Weil tra il 1936 e il 1939, cioè nel momento dell’escalation dei preparativi di guerra. Fu pubblicato, con lo pseudomino di Émile Novis, tra il 1940 e il 1941 sui “Cahiers du Sud” a Marsiglia, nella zona libera dall’occupazione tedesca e dal dominio del governo collaborazionista di Vichy.

Nell’Iliade ritroviamo tutti i temi cari alla riflessione spirituale della Weil: il rapporto tra il singolo e il potere, le cause della sventura umana e dell’oppressione, la necessità della meditazione. La Weil va a inseguire questi temi nella fossa della storia, nell’antica Grecia, a Roma, nella quale intravede i prodromi del nazionalsocialismo.

Anche la lettura dell’Iliade le si presenta nella sua drammatica attualità, quasi come leva per una riflessione autobiografica sul suo vissuto e sulla sua esperienza di vita.

Una riflessione che l’accomuna ad un’altra figura di “irregolare” Rachel Bespaloff, anch’ella autrice di un libro sull’Iliade. Le due donne si incrociano spesso, quasi a condividere un comune destino. Entrambe hanno soggiornato nella stessa clinica svizzera, entrambe erano a Marsiglia nel 1942 in cerca di un visto per gli Stati Uniti. Entrambe avvicinano l’analisi dell’Iliade all’attualissimo tema della violenza e della morte. Entrambe andranno incontro a quest’ultima in modo tragico nel giro di pochi anni e a breve distanza di tempo.

L’Iliade è il poema della forza che “trasforma chiunque da essa venga toccato”. Porta alla rovina chi la esercita e annichilisce chi la subisce. Scrive la Weil:

“In questo modo la violenza schiaccia chi la tocca e alla fine appare estranea a chi la usa e a chi la subisce. Nasce allora l’idea di un destino per il quale i carnefici sono altrettanto innocenti delle vittime, i vincitori e i vinti si ritrovano fratelli nella stessa miseria. Il vinto è causa di sventura per il vincitore come il vincitore lo è per il vinto.”

In questa verità, che il poema di Omero mette in luce, c’è anche il destino dell’Europa in cui viveva Simone Weil.

L’Iliade o il poema della forza

Il vero eroe, il vero soggetto, il centro dell’Iliade è la forza. La forza usata dagli uomini, la forza che sottomette gli uomini, la forza davanti alla quale la carne degli uomini si ritrae. L’anima umana vi appare di continuo alterata dai suoi rapporti con la forza: trascinata, accecata dalla forza di cui crede di disporre, curva sotto il giogo della forza che subisce. Chi aveva sognato che, grazie al progresso, la forza appartenesse ormai al passato, ha potuto scorgere in questo poema solo un documento; chi invece, oggi come allora, individua nella forza il centro di ogni storia umana, trova qui il più bello, il più puro degli specchi.

La forza rende chiunque le è sottomesso pari a una cosa. Esercitata fino in fondo fa dell’uomo una cosa nel senso più letterale del termine, poiché lo rende cadavere. C’era qualcuno e, un istante dopo, non c’è più nessuno. È questo un quadro che l’Iliade non si stanca di presentarci:1

…i cavalli
Facevano risuonare i carri vuoti sui sentieri di guerra,
In lutto per i loro condottieri senza macchia. Essi sulla terra
Giacevano, agli avvoltoi assai più cari che alle loro spose.

L’eroe è una cosa trascinata nella polvere, dietro a un carro:

…Intorno i capelli
Neri erano sparsi, e la testa intera nella polvere Giaceva, un tempo incantevole; ora Zeus ai suoi nemici
Aveva consentito di svilirla sulla sua terra natale.

Assaporiamo pura l’amarezza di tale scena: nessun conforto fittizio, nessuna immortalità consolatrice, nessuna scialba aureola di gloria o di patria viene ad alterarla.

La sua anima fuori dalle membra volò via, andò da Ade,
Piangendo il suo destino, abbandonando la sua virilità e la sua giovinezza.

Ancora più dilacerante, tanto il contrasto è doloroso, è l’improvvisa evocazione, subito cancellata, di un altro mondo: il mondo lontano, precario e toccante della pace, della famiglia, quel mondo in cui ogni uomo è ciò che conta di più per quelli che lo circondano.

Ella gridava alle sue serve dai bei capelli per il palazzo
Di mettere vicino al fuoco un grande treppiede, affinché ci fosse
Per Ettore un bagno caldo al ritorno dal combattimento.
L’ingenua! Ella non sapeva che ben lontano dai bagni caldi
Il braccio di Achille lo aveva sottomesso, a causa di Atena dagli occhi verdi.

Certo, era lontano dai bagni caldi, lo sventurato. Non era l’unico. Quasi tutta l’Iliade si svolge lontano dai bagni caldi. Quasi tutta la vita umana si è sempre svolta lontano dai bagni caldi.

La forza che uccide è una forma sommaria, grossolana della forza. Com’è più varia nei suoi modi di procedere e molto più sorprendente nei suoi effetti l’altra forza, quella che non uccide, quella che non ucciderà per certo. Sta per uccidere: sicuramente lo farà, o forse sta per farlo, oppure rimane solo sospesa sull’essere che essa in ogni istante può uccidere. Comunque essa muta l’uomo in pietra.

Dal potere di trasformare un uomo in cosa, facendolo morire, deriva un altro potere, altrimenti prodigioso: quello di trasformare in cosa un uomo che pur è vivo. Egli è vivo, ha un’anima, tuttavia è una cosa. Un essere ben strano: una cosa che ha un’anima; che strana condizione per l’anima. Chi potrà dire quanto ci metterà ad adattarvisi in ogni istante, a torcersi e ripiegarsi su se stessa? Essa non è fatta per abitare una cosa; quando vi è obbligata non v’è più nulla in essa che non patisca violenza.

Un uomo disarmato e nudo, minacciato da un’arma, diventa cadavere ancora prima di essere toccato. Un attimo prima preordina, agisce, spera:

Egli pensava, immobile. L’altro si avvicina, tutto preso,
Ansioso di toccargli le ginocchia. Voleva in cuor suo
Sfuggire alla cattiva morte, al buio destino…
E con un braccio per supplicarlo gli stringeva le ginocchia,
Con l’altro reggeva la lancia aguzza senza abbandonarla…

Ma presto comprende che l’arma non sarà distolta ed egli, respirando ancora, non è che materia e, pur essendo ancora un essere pensante, non può pensare più nulla.

Così parlò questo brillante figlio di Priamo
Con parole supplichevoli. Egli udì un discorso inflessibile:
Egli disse; all’altro vengono meno le ginocchia e il cuore;
Abbandona la lancia e cade seduto, le mani tese,
Entrambe le mani. Achille sguaina il suo gladio aguzzo,
Colpisce la clavicola, lungo il collo; e per intero
Conficca il gladio a doppio taglio. Egli, bocconi, a terra
Giacque disteso, e il sangue nero scorre inumidendo la terra.

Terminato il combattimento, lo straniero debole e disarmato che supplica il guerriero non necessariamente è condannato a morte; ma un istante d’impazienza del guerriero può bastare a togliergli la vita. Tale condizione è sufficiente a privare la sua carne della proprietà principale della carne vivente.

Il sussulto è il primo segno di vita di un pezzo di carne vivente: la zampa di un ranocchio sussulta stimolata da un impulso elettrico. La vicinanza o il contatto con una cosa orribile o terrificante fa sussultare qualsiasi ammasso di carne, nervi e muscoli. Solo, chi supplica in tal modo non trasale, non trema, non ne ha più diritto: le sue labbra stanno per toccare l’oggetto per lui più carico di orrore:

Non si vide entrare il grande Priamo. Egli si fermò,
Cinse le ginocchia di Achille, gli baciò le mani,
Terribili, assassine di uomini, che gli avevano massacrato tanti figli.

Lo spettacolo di un uomo ridotto a tal grado di sventura gela, quasi come gela la vista di un cadavere:

Come quando la dura sventura afferra colui che nel suo paese
Ha ucciso, e giunge alla dimora altrui,
Di un ricco; un fremito coglie chi lo vede;
Così Achille fremette alla vista del divino Priamo.
Anche gli altri fremettero, guardandosi l’un l’altro.

Ma è solo un attimo, e poco dopo la presenza stessa dello sventurato viene dimenticata:

Egli disse. L’altro, pensando a suo padre, desiderò piangerlo;
Prendendolo per il braccio spinse un poco il vecchio.
Ad entrambi saliva il ricordo, al primo di Ettore uccisore di uomini,
E si scioglieva in lacrime ai piedi di Achille, contro la terra;
Ma lui, Achille, piangeva suo padre, e a momenti anche Patroclo; i loro singulti empivano la dimora.

Non per insensibilità Achille ha spinto a terra con un gesto il vecchio incollatogli alle ginocchia; le parole di Priamo, che evocano il suo vecchio padre, lo hanno commosso fino alle lacrime. Semplicemente egli è libero nei gesti e nei movimenti come se ci fosse un oggetto inerte a toccargli le ginocchia anziché un supplice.

Gli esseri umani intorno a noi, per il solo fatto di essere presenti, hanno un potere tutto loro: quello di fermare, reprimere, modificare ogni movimento abbozzato dal nostro corpo. Un passante non devia il nostro percorso allo stesso modo di un cartello; quando siamo soli nella nostra stanza non ci alziamo, non camminiamo, non ci rimettiamo a sedere allo stesso modo di quando abbiamo visite.

Ma questa influenza indefinibile della presenza umana non viene esercitata da quegli uomini che un moto d’impazienza può privare della vita, addirittura prima che un pensiero abbia avuto il tempo di condannarli a morte. Dinanzi a quegli uomini gli altri si muovono come se quelli non fossero presenti; a loro volta essi, rischiando di essere annientati in un istante, imitano il nulla. Spinti, cadono e caduti restano a terra finché il caso non fa venire in mente a qualcuno di tirarli su.

Ma infine rialzatisi, onorati da parole cordiali, non possono prendere sul serio tale resurrezione, non osano esprimere un desiderio; una voce irritata li ridurrebbe immediatamente al silenzio:

Egli disse, e il vecchio tremò e obbedì.

Almeno i supplici, una volta accontentati, ridiventano uomini come gli altri. Ma vi sono esseri più sventurati che, non morendo, diventano cose per il resto della vita. Nelle loro giornate non vi è alcun gioco, alcun vuoto, alcuno spazio libero per realizzare qualcosa di propria iniziativa. Non sono uomini che vivono più duramente di altri o collocati socialmente più in basso di altri; è un’altra specie umana, un compromesso tra l’uomo e il cadavere.

Dal punto di vista logico è contraddittorio dire che l’essere umano è una cosa; ma quando l’impossibile si fa realtà, la contraddizione diviene lacerazione nell’anima. Questa cosa aspira in ogni istante ad essere un uomo o una donna, ma non vi riesce affatto. È una morte che si estende lungo una vita; una vita che la morte ha raggelato molto prima di averla soppressa.

La vergine, figlia di un sacerdote, subirà questa sorte:

Non la restituirò. L’avrà colta prima la vecchiaia,
Nella nostra dimora, in Argo, lontano dal suo paese,
A correre davanti al telaio, a venire verso il mio letto.

La giovane donna, la giovane madre, sposa del principe, la subirà:

E forse un giorno in Argo tesserai la tela per un’altra
E porterai l’acqua della Messide o d’Iperea,
Tuo malgrado, sotto il peso di una dura necessità.

Il piccolo erede dello scettro reale la subirà:

Esse facilmente se ne andranno sul fondo di cavi vascelli,
Io tra loro; tu, figlio mio, o con me
Mi seguirai e farai lavori avvilenti,
Penando sotto lo sguardo di un padrone senza mitezza…

Tale sorte, agli occhi della madre, è temibile per suo figlio quanto la morte stessa; lo sposo si augura di essere morto prima di vedere sua moglie soccombere ad essa; il padre invoca tutti i flagelli del cielo sull’esercito che impone tale sorte alla figlia. Ma per coloro sui quali si abbatte, un destino così brutale cancella le maledizioni, le rivolte, i confronti, le meditazioni sul futuro e il passato, cancella quasi il ricordo. Non è da schiavi rimanere fedeli alla propria città e ai propri morti.

Quando qualcuno di quelli che gli hanno fatto perdere tutto, che gli hanno saccheggiato la città, massacrato i suoi sotto gli occhi, soffre o muore, lo schiavo piange. Perché no? Solo allora gli è concesso piangere, gli è addirittura imposto. Ma in schiavitù le lacrime non sono forse pronte a sgorgare impunemente, non appena possibile?

Ella disse in lacrime, e le donne a gemere,
Col pretesto di Patroclo, ognuna sulle proprie angosce.

In nessuna occasione allo schiavo è concesso esprimere nulla, se non ciò che può compiacere il padrone. Ecco perché, in una vita così cupa, se un sentimento può germinare e animarlo debolmente, non può essere che l’amore per il padrone. Ogni altra strada è sbarrata al dono dell’amore, come ogni sentiero, eccetto uno, è precluso al cavallo bardato con tirelle, redini e morso. E se per miracolo si intravvede la speranza di ridiventare per indulgenza un giorno qualcuno, quale grado raggiungeranno la riconoscenza e l’amore verso quegli uomini il cui recente passato doveva ispirare orrore!

Mio sposo, a cui mi avevano donato mio padre e la mia rispettata madre,
L’ho visto davanti alla mia città trafitto dal bronzo aguzzo.
I miei tre fratelli, partoriti da un’unica madre, Così cari! hanno trovato il giorno fatale.
Ma tu non mi hai lasciata, quando mio marito dal rapido Achille
Fu ucciso, e distrutta la città del divino Minete, Versare lacrime; mi hai promesso che il divino Achille
Mi avrebbe preso come legittima sposa e mi avrebbe condotto sulle sue navi
A Ftia, a celebrare le nozze tra i Mirmidoni. Così ti piango senza tregua, tu che sei sempre stato buono.

Nessuno può perdere più di quanto perda lo schiavo; egli perde tutta la sua vita interiore, la ritrova in parte quando appare la possibilità di cambiare destino. Così è l’imperio della forza: arriva tanto lontano quanto in natura. Anche la natura, quando entrano in gioco i bisogni vitali, cancella ogni vita interiore e persino il dolore di una madre:

Infatti persino Niobe dai bei capelli ha pensato a mangiare,
Ella, a cui dodici figli nella sua casa perirono, Sei figli e sei figlie nel fiore degli anni.
Essi, Apollo li uccise con il suo arco argentato Nella sua collera contro Niobe; esse, Artemide che ama le frecce.
Ella si era paragonata a Leto dalle belle guance, Dicendo “ella ha due figli; io ne ho partoriti molti”. E quei due, benché non fossero che due, li hanno fatti morire tutti.
Essi per nove giorni furono lasciati giacere nella morte; non venne nessuno
A seppellirli. La gente era diventata di pietra per volere di Zeus.

Ed essi il decimo giorno furono seppelliti dagli dei del cielo.
Ma ella ha pensato a mangiare, quando fu stanca delle lacrime.

Mai fu espressa con tanta amarezza la miseria che rende l’uomo addirittura incapace di sentire la propria miseria.

La forza posseduta da altri domina l’anima al pari della fame estrema, dal momento in cui si afferma come un potere perpetuo di vita e di morte. Ed è un imperio così freddo, così duro come se fosse esercitato dalla materia inerte. Il più debole, ovunque si trovi, anche nel cuore di una città, è altrettanto solo, se non di più, di chi si trova sperduto in mezzo ad un deserto.

Due barili sono posti sulla soglia di Zeus,
Nei quali ci sono i doni che egli elargisce, cattivi in uno, buoni nell’altro…
A chi fa doni funesti, lo espone alle offese;
Il tremendo bisogno lo caccia attraverso la terra divina;
Egli erra e non riceve attenzioni né dagli uomini né dagli dei.

La forza annienta tanto impietosamente, quanto impietosamente inebria chiunque la possiede o crede di possederla. Nessuno la possiede veramente. Nell’Iliade gli uomini non sono divisi in vinti, schiavi, supplici da un lato e in vincitori, capi dall’altro; non vi è un solo uomo che non sia in qualche momento costretto a piegarsi alla forza. I soldati, benché liberi e armati, nondimeno subiscono ordini e offese:

Ogni uomo del popolo che vedeva e iniziava a gridare,
Con il suo scettro lo colpiva e lo rimproverava così:
Miserabile, stai buono, ascolta parlare gli altri, I tuoi superiori. Non hai né coraggio né forza, Non conti nulla nel combattimento, nulla nell’assemblea…”

Tersite paga care le proprie parole, simili a quelle pronunciate da Achille, benché perfettamente ragionevoli.

Lo colpì; egli si curvò, le lacrime colarono impazienti,
Un tumore sanguinante sulla sua schiena si formò
Sotto lo scettro d’oro; si sedette ed ebbe paura. Nel dolore e nello stupore si asciugava le lacrime.
Gli altri, nonostante la loro pena, vi presero gusto e risero.

Ma lo stesso Achille, l’eroe fiero, invitto, ci viene mostrato fin dall’inizio del poema mentre piange per l’umiliazione e il dolore impotente, dopo aver assistito al rapimento della donna che egli voleva fare sua sposa, senza osare opporvisi.

…Ma Achille
Piangendo si sedette lontano dai suoi, in disparte, Sulla sponda delle onde biancheggianti, lo sguardo sul mare vinoso.

Agamennone, per mostrare chi è il padrone, umilia Achille deliberatamente:

…Così saprai
Che io posso più di te, e chiunque altro esiterà A trattarmi alla pari e a tenermi testa.

Ma qualche giorno dopo il capo supremo piange a sua volta ed è obbligato ad umiliarsi e a supplicare, soffrendo di farlo invano.

Neppure il disonore della paura viene risparmiato a uno solo dei guerrieri. Gli eroi tremano come gli altri. È sufficiente che Ettore lanci una sfida per rendere sgomenti tutti i Greci, senza eccezioni, tranne Achille e i suoi perché sono assenti:

Egli disse, e tutti tacquero e mantennero il silenzio;
Avevano vergogna di rifiutare, paura di accettare.

Ma appena Aiace si fa avanti, la paura cambia campo:

I Troiani, un brivido di terrore indebolì loro le membra;
Ettore stesso, il cuore gli sussultò nel petto;
Ma non gli era più concesso tremare, né cercare riparo…

Due giorni dopo tocca ad Aiace provare terrore:

Zeus padre, dall’alto, fa montare in Aiace la paura. Egli si ferma, incatenato, dietro di sé mette lo scudo dalle sette pelli,
Trema, guarda smarrito la folla, come una bestia…

Ad Achille stesso accade una volta di tremare e gemere di paura, dinanzi a un fiume, è vero, non dinanzi ad un uomo. Tranne lui, assolutamente tutti ci vengono mostrati vinti in qualche momento. La vittoria è determinata più dal cieco destino, rappresentato dalla bilancia dorata di Zeus, che dal valore:

In quel momento Zeus padre dispiegò la sua bilancia d’oro.
Vi mise due destini di morte, che tutto falcia,
Uno per i Troiani domatori di cavalli, uno per i Greci bardati di bronzo.
Egli la prese nel mezzo, e si abbassò il giorno fatale dei Greci.

A forza di essere cieco, il destino stabilisce una specie di giustizia, cieca anch’essa, che punisce gli uomini armati secondo la legge del taglione; l’Iliade l’ha formulata molto prima del Vangelo e quasi negli stessi termini:

Ares è imparziale, e uccide coloro che uccidono.

Che tutti siano destinati per nascita a patire violenza, è una verità preclusa alle menti degli uomini dall’imperio delle circostanze. Il forte non è mai forte in assoluto, né il debole è debole in assoluto, l’uno e l’altro però lo ignorano. Non si ritengono della stessa specie: né il debole si vede simile al forte, né viene visto tale.

Chi possiede la forza procede in un ambiente privo di resistenze, senza che nulla, nella materia umana che lo circonda, possa suscitare tra l’impulso e l’atto, quel breve intervallo in cui abita il pensiero. Dove il pensiero non ha posto, nemmeno la giustizia o la prudenza ne hanno. Ecco perché questi uomini armati agiscono con durezza e da folli.

La loro arma affonda in un nemico inerme, prostrato ai loro piedi; trionfano su un moribondo descrivendogli le offese che subirà il suo corpo; Achille sgozza dodici adolescenti troiani sulla pira di Patroclo, con la stessa naturalezza con cui noi recidiamo dei fiori per una tomba.

Forti del loro potere, non dubitano mai che le conseguenze dei loro atti li obbligheranno a loro volta a piegarsi. Quando, con una parola, possono mettere a tacere, far tremare e ridurre all’obbedienza un vecchio, riflettono essi forse che le maledizioni di un sacerdote sono importanti agli occhi degli indovini? Si rinuncia forse a rapire la donna amata da Achille sapendo poi che tanto lui quanto lei potranno solo obbedire?

Achille, quando gioisce vedendo fuggire i miserabili Greci, può forse pensare che questa fuga, che durerà e finirà secondo la sua volontà, farà perdere la vita al suo amico e a lui stesso? Così, coloro ai quali la forza è prestata dalla sorte, periscono perché vi si affidano troppo.

Non può accadere che non periscano. Infatti non considerano la loro stessa forza una quantità limitata, né i loro rapporti con gli altri un equilibrio tra forze diseguali. Gli uomini che non impongono ai loro atti quel tempo di sospensione da cui solamente procede il rispetto verso i nostri simili, concludono che il destino ha dato loro ogni licenza e ai loro inferiori nessuna.

Da quel momento vanno al di là della forza di cui dispongono: inevitabilmente eccedono, ignorando che essa è limitata. Vengono allora consegnati senza scampo al caso, le cose non obbediscono più. Talvolta il caso li avvantaggia, talvolta li danneggia; eccoli nudi dinanzi alla sventura, senza l’armatura di potenza che proteggeva la loro anima, senza più nulla ormai che li separi dalle lacrime.

Questo castigo, di un rigore geometrico, che punisce automaticamente l’abuso della forza, fu per eccellenza oggetto di meditazione presso i Greci. Costituisce l’anima dell’epopea; con il nome di Nemesi mette in moto le tragedie di Eschilo; per i Pitagorici, per Socrate e per Platone fu il punto di partenza per pensare l’uomo e l’universo. Tale nozione è diventata familiare ovunque sia penetrato l’ellenismo.

Forse è questa nozione greca a sussistere, con il nome di kharma, in alcuni paesi orientali impregnati di buddismo; ma l’occidente l’ha smarrita e nessuna delle sue lingue ha una parola per esprimerla; le idee di limite, misura, equilibrio, che dovrebbero determinare il comportamento della vita, hanno solo un uso strumentale nella tecnica. Siamo geometri solo dinanzi alla materia, i Greci furono innanzi tutto geometri nell’apprendere la virtù.

L’andamento della guerra, nell’Iliade, consiste in questo gioco altalenante. Il vincitore del momento si sente imbattibile, anche se qualche ora prima aveva sperimentato la disfatta; si dimentica di godere della vittoria come di un bene transitorio.

Al termine della prima giornata di combattimento raccontata nell’Iliade, i Greci vittoriosi potrebbero probabilmente conseguire l’oggetto dei loro sforzi, cioè Elena e le sue ricchezze; almeno se si pensa, come fa Omero, che l’esercito greco aveva ragione di credere che Elena fosse a Troia. I sacerdoti egizi, che dovevano saperlo, dissero più tardi a Erodoto che ella si trovava in Egitto. Ad ogni modo, quella sera i Greci non ne vogliono più sapere:

“Ora non accetteremo né i beni di Paride,
Né Elena; ognuno vede, anche il più ignorante,
Che Troia è ora sull’orlo della sconfitta.”
Egli disse; tutti lo acclamarono tra gli Achei.

Ciò che vogliono è niente meno di tutto. Tutte le ricchezze di Troia come bottino, tutti i palazzi, i templi e le case in cenere, tutte le donne e i bambini schiavi, tutti gli uomini cadaveri. Dimenticano un particolare: che non tutto è in loro potere; essi non sono entrati in Troia. Forse lo saranno domani, forse no.

Ettore, lo stesso giorno, si abbandona al medesimo oblio:

Lo so bene infatti, nelle viscere e nel cuore;
Verrà un giorno in cui perirà la santa Ilio,
E Priamo, e la nazione di Priamo dall’abile lancia.
Ma penso meno al dolore che si prepara per i Troiani,
E a Ecuba stessa e al re Priamo,
E ai miei fratelli che, così numerosi e coraggiosi,
Cadranno nella polvere sotto i colpi dei nemici,
Che a te, quando un Greco dalla bronzea corazza
Ti trascinerà in lacrime, privandoti della libertà.
Ma io, che possa morire e che la terra mi ricopra
Prima che ti senta gridare, che ti veda trascinata via!

Che cosa non darebbe in quel momento per allontanare gli orrori che crede inevitabili? Ma ogni offerta è vana. Due giorni più tardi i Greci fuggono miseramente e Agamennone stesso vorrebbe riprendere il mare. Ettore, non facendo che minime concessioni, avrebbe ottenuto facilmente la partenza del nemico, ma ora non vuole nemmeno più permettergli di partire a mani vuote:

Ardiamo ovunque fuochi e che il fulgore salga al cielo
Per paura che nella notte i Greci dalle lunghe chiome
Per fuggire non si lancino sull’ampio dorso dei mari…
Che più d’uno abbia in corpo una freccia da smaltire, …affinché tutti temano
Di portare ai Troiani domatori di cavalli la guerra che suscita pianti.

Il suo desiderio è esaudito: i Greci restano e l’indomani, a mezzogiorno, fanno di lui e dei suoi un oggetto degno di pietà:

Essi, attraverso la pianura fuggivano come vacche
Che un leone caccia dinanzi a sé, venuto nel cuore della notte…
Così li inseguiva il potente Atride Agamennone,
Uccidendo senza posa l’ultimo; essi fuggivano.

Nel corso del pomeriggio Ettore riprende il sopravvento, indietreggia ancora, poi mette in rotta i Greci, in seguito viene respinto da Patroclo e dalle sue truppe fresche. Patroclo, inseguendo il vantaggio oltre le sue forze, finisce per ritrovarsi esposto alla spada di Ettore, senza armatura e ferito, e la sera, Ettore vittorioso accoglie con duri rimproveri il parere prudente di Polidamante:

Ora che ho ricevuto dal figlio di Cronos l’astuto
La gloria presso i vascelli, costringendo in mare i Greci,
Imbecille! non proporre tali consigli davanti al popolo.
Nessun troiano ti ascolterà; io, non lo permetterò.

Così parlò Ettore, e i Troiani lo acclamarono…

L’indomani Ettore è perduto. Achille lo ha fatto retrocedere attraverso tutta la pianura e sta per ucciderlo. Egli è sempre stato il più forte dei due nel combattimento, tanto più ora dopo parecchie settimane di riposo, trascinato dalla vendetta e dalla vittoria, contro un nemico esausto! Ecco Ettore davanti alle mura di Troia: è solo, completamente solo, ad aspettare la morte cercando di preparare la sua anima ad affrontarla.

Ahimè! Se passassi dietro la porta e il bastione
Polidamante prima di tutto mi farebbe vergognare…
Ora che ho perduto i miei a causa della mia follia,
Temo i Troiani e le Troiane dai veli indolenti
E che non senta dire dai meno valorosi di me:
“Ettore, confidando troppo nella sua forza, ha perduto il paese.”
Eppure, se posassi il mio scudo curvato,
Il mio buon elmo e, appoggiando la lancia al bastione,
Andassi verso l’illustre Achille, incontro a lui?…
Ma perché dunque il mio cuore mi dà questi con sigli?
Non mi avvicinerò a lui; non avrebbe pietà di me,
Nessun riguardo; mi ucciderebbe, se fossi così nudo,
Come una donna…

Ettore non sfugge ad alcuno dei dolori e delle umiliazioni propri agli sventurati. Solo, spogliato da ogni prestigio di forza, il coraggio che lo ha tenuto fuori dalle mura non lo preserva dalla fuga:

Ettore, vedendolo, fu preso da tremore. Non poté risolversi a restare…
…Non è per una pecora o per una pelle di bue
Che essi si sforzano, ricompense ordinarie della corsa;
Corrono per una vita, quella di Ettore domatore di cavalli.

Ferito a morte, accresce il trionfo del vincitore con vane suppliche:

Ti imploro sulla tua vita, sulle tue ginocchia, sui tuoi genitori…

Ma chi ascoltava l’Iliade sapeva che la morte di Ettore doveva dare una breve gioia ad Achille, la morte di Achille una breve gioia ai Troiani e l’annientamento di Troia una breve gioia agli Achei.

In questo modo la violenza schiaccia chi la tocca e alla fine appare estranea a chi la usa e a chi la subisce. Nasce allora l’idea di un destino per il quale i carnefici sono altrettanto innocenti delle vittime, i vincitori e i vinti si ritrovano fratelli nella stessa miseria. Il vinto è causa di sventura per il vincitore come il vincitore lo è per il vinto.

Un unico figlio gli è nato, per una vita breve; e persino
Invecchia senza le mie cure, poiché ben lontano dalla patria
Resto davanti a Troia a fare del male a te e ai tuoi figli.

Un uso moderato della forza, che da solo consentirebbe di sottrarsi a tale meccanismo, richiederebbe una virtù sovrumana, rara quanto una costante dignità nella debolezza. Del resto, neppure la moderazione è esente da rischi; infatti il prestigio, che costituisce per più di tre quarti la forza, è dato innanzi tutto dalla superba indifferenza del forte per i deboli, un’indifferenza così contagiosa che si comunica a quelli che ne sono l’oggetto.

Ma di norma non è il pensiero politico a consigliare l’eccesso. La tentazione dell’eccesso è quasi irresistibile. Talvolta nell’Iliade vengono pronunciate parole ragionevoli; quelle di Tersite lo sono al più alto grado. Anche quelle di Achille, irritato, lo sono:

Nulla vale la mia vita, nemmeno tutti i beni che si dice
Contenga Ilio, città così prospera …
Infatti si possono conquistare buoi, grassi montoni…
Una vita umana, una volta andata, non si riconquista più.

Ma la parole ragionevoli cadono nel vuoto. Se pronunciate da un inferiore, questi viene punito e tace; se è un capo, non vi adegua i suoi atti. Si trova inoltre sempre un dio che all’occorrenza consiglia l’irragionevolezza. Alla fine scompare dalla mente l’idea stessa che si possa voler sfuggire all’occupazione toccata in sorte, quella di uccidere e di morire:

…noi a cui Zeus
Già dalla giovinezza ha destinato fino alla vecchiaia, di soffrire
In dolorose guerre, finché periamo fino all’ultimo.

Questi soldati, come molto più tardi quelli di Craonne[1], si sentivano già “tutti condannati”.

Sono rimasti intrappolati in questa situazione nel più semplice dei modi. All’inizio il loro cuore è lieve come sempre quando una forza è dalla nostra parte e contro di noi c’è il vuoto. Le armi sono nelle loro mani; il nemico è assente. Tranne quando si ha l’anima prostrata dalla reputazione del nemico, si è sempre molto più forti di chi è assente, poiché questi non impone il giogo della necessità. Nessuna necessità viene ancora in mente a coloro per i quali è così, ed è per questo che se ne vanno come a giocare, come a trascorrere una vacanza fuori dagli obblighi della quotidianità.

Dove sono finite le nostre vanterie, quando ci affermavamo così coraggiosi,
Quelle che a Lemno declamavate vanitosamente,
Ingozzandovi di carne di bue dalle corna diritte,
Bevendo nelle coppe straripanti di vino?
Che a cento o a duecento di questi Troiani ognuno
Avrebbe tenuto testa al combattimento; ed ecco che uno solo è troppo per noi!

Anche una volta provata, la guerra non smette subito di sembrare un gioco. La necessità propria della guerra è terribile, completamente diversa da quella connessa alle attività della pace; l’anima vi sottostà solo quando non può più sfuggirvi e finché la evita trascorre giorni privi di necessità, giorni di gioco, di sogno, arbitrari e irreali.

Il pericolo è allora un’astrazione, le vite distrutte risultano indifferenti al pari di giocattoli rotti da un bambino; l’eroismo è una posa di teatro insudiciata di vanteria. Se inoltre, per un attimo, un afflusso di vita moltiplica la potenza dell’azione, ci crediamo irresistibili in virtù di un aiuto divino che garantisce contro la disfatta e la morte. La guerra allora è facile e viene amata in modo meschino.

Ma nella maggior parte dei casi questo stato non perdura. Arriva il giorno in cui la paura, la sconfitta, la morte dei compagni amati fa piegare l’anima del soldato alla necessità. La guerra smette allora di essere un gioco o un sogno; il guerriero capisce insomma che essa esiste realmente.

È una realtà dura, infinitamente troppo dura per poter essere sopportata in quanto racchiude la morte. Infatti, non appena sentiamo che la morte è possibile non riusciamo a sostenerne il pensiero se non a sprazzi. È vero che ogni uomo è destinato a morire e che un soldato può invecchiare tra i combattimenti; ma per coloro la cui anima è sottoposta al giogo della guerra, il rapporto tra la morte e il futuro non è lo stesso che per gli altri uomini.

Per gli altri la morte è un limite al futuro imposto in anticipo; per loro, essa è il futuro stesso, il futuro assegnato dalla loro professione. Che per degli uomini il futuro sia la morte è contro natura. Non appena la pratica della guerra rende sensibile la possibilità della morte racchiusa in ogni minuto, il pensiero è incapace di trascorrere i giorni senza attraversarne l’immagine.

Lo spirito allora è in tensione e può tollerare questa condizione solo per breve tempo; ogni nuova alba ripropone la stessa necessità e, un giorno dopo l’altro, trascorrono gli anni. L’anima patisce violenza tutti i giorni.

Al mattino soffoca ogni aspirazione perché il pensiero non può viaggiare nel tempo senza passare per la morte. La guerra quindi cancella ogni idea di scopo, persino l’idea degli scopi della guerra. Essa cancella anche il pensiero di porre fine alla guerra. L’eventualità di una situazione così violenta è inconcepibile fintanto che non vi ci si trova coinvolti; e quando ci si trova coinvolti porvi fine è inconcepibile.

Così non facciamo nulla per uscirne, non possiamo smettere di imbracciare e usare la armi in presenza di un nemico armato; la mente dovrebbe predisporsi a trovare una via d’uscita, ma ne ha smarrito ogni capacità. È interamente occupata a farsi violenza. Che si tratti di schiavitù o di guerra, le sventure intollerabili, sempre presenti tra gli uomini, durano a causa del loro stesso peso e così dall’esterno sembrano facili da portare; durano perché sottraggono le risorse necessarie a uscirne.

Ciononostante, l’anima sottomessa alla guerra grida per essere liberata; ma la liberazione stessa le appare sotto una forma tragica, estrema, sotto la forma della distruzione. Una fine moderata, ragionevole, metterebbe a nudo una sventura così violenta per il pensiero da non poter essere sostenuta nemmeno come ricordo.

Non crediamo che il terrore, il dolore, lo sfinimento, i massacri e i compagni distrutti possano smettere di corrodere l’anima, a meno che tutto ciò non sia stato sommerso dall’ebbrezza della forza. L’idea di uno sforzo illimitato che apporti un beneficio nullo o solo parziale, risulta dolorosa.

Cosa? Lasciare Priamo, i Troiani vantarsi
Di Elena di Argo, ella per la quale tanti Greci
Davanti a Troia sono morti lontano dalla terra natia?…
Cosa? Desideri che la città di Troia dalle ampie strade
Lasciamo, per la quale abbiamo sofferto tante miserie?

Ad Ulisse, che importa di Elena? Che gli importa persino di Troia, le cui ricchezze non compenseranno la rovina di Itaca? Troia ed Elena importano solo in quanto cause del sangue e delle lacrime dei Greci; esercitando il dominio, anche i ricordi più terribili possono essere dominati. L’anima, obbligata dall’esistenza di un nemico a distruggere in sé quanto la natura le aveva dato, crede di poter guarire solo distruggendolo. Al tempo stesso, la morte degli amati compagni suscita un’oscura emulazione di morte.

Ah! Morire subito, se il mio amico ha dovuto
Soccombere senza il mio aiuto! Tanto lontano dalla patria
È perito, e non mi ha avuto per evitare la morte…
Ora parto per ritrovare l’omicida di una testa tanto cara,
Ettore; la morte, la riceverò nel momento in cui Zeus vorrà compierla, e tutti gli altri dei.
La stessa disperazione spinge allora a morire e a uccidere:
So bene che il mio destino è morire qui,
Lontano da mio padre e da mia madre amati; ma tuttavia
Non la smetterò finché i Troiani non saranno ubriachi di guerra.

L’uomo abitato da questo duplice bisogno di morte, finché non è diventato altro, appartiene a una razza diversa da quella dei viventi.

Quale eco può trovare in cuori siffatti la timida aspirazione della vita, come nel caso del vinto che supplica di vedere ancora il giorno? Sia l’essere armati che l’essere disarmati toglie quasi ogni importanza a una vita minacciata; colui che ha distrutto in sé il pensiero per cui vedere la luce gli è caro, come potrebbe rispettarlo in questo lamento umile e vano?

Sono ai tuoi ginocchi, Achille; abbi riguardo di me, abbi pietà;
Sono qui come supplice, o figlio di Zeus, degno di riguardo.
Infatti nella tua casa ho mangiato per primo il pane di Demetra,
Il giorno in cui mi hai preso nel mio orto ben coltivato.
E mi hai venduto, mandandomi lontano da mio padre e dai miei,
Alla santa Lemno; ti è stata donata per me un’ecatombe.
Fui riacquistato per tre volte tanto; questa aurora è per me
Oggi la dodicesima, da quando sono tornato da Ilio,
Dopo tanti dolori. Eccomi ancora nelle tue mani Per un destino funesto. Devo essere odioso a Zeus, padre,
Che di nuovo mi consegna a te; per una vita breve mia madre
Mi ha partorito, Laotoe, figlia del vecchio Alte…

Che risposta accoglie questa debole speranza!

Dai, amico mio, muori anche tu! Perché ti lamenti tanto?
È morto anche Patroclo, e valeva molto più di te. Ed io, non vedi come sono bello e alto? Sono di nobile stirpe, una dea è mia madre; Ma anche su di me sono la morte e il duro destino. Sarà l’alba, o la sera, o il mezzo del giorno, quando anche a me con le armi verrà strappata la vita…

Quando si è dovuto recidere in se stessi ogni aspirazione alla vita, occorre uno sforzo di generosità sovrumano per rispettare la vita altrui. Nessuno dei guerrieri di Omero sembra capace di un tale sforzo, se non forse Patroclo che, in un certo modo, si trova al centro del poema, il quale “seppe essere mite verso tutti” e nell’Iliade non commette atti brutali o crudeli.

Nell’arco di una storia millenaria, quanti uomini simili incontriamo che abbiano dato prova di una generosità così divina? Forse se ne possono nominare due o tre. In mancanza di tale generosità il soldato vincitore è come un flagello della natura; posseduto dalla guerra, come lo schiavo, è diventato una cosa, anche se in modo completamente diverso; le parole non hanno alcun potere su di lui come non ne hanno sulla materia. Sia l’uno che l’altro, a contatto con la forza, ne subiscono l’effetto infallibile che è di rendere quelli che tocca o muti o sordi.

Tale è la natura della forza. Il suo potere di trasformare gli uomini in cose è duplice e si esercita su due versanti: essa pietrifica in modo diverso, ma in egual misura, le anime sia di chi la subisce, sia di chi la usa. Questa proprietà raggiunge il più alto grado sul campo di battaglia, dal momento in cui essa volge alla sua conclusione.

Le battaglie non si decidono tra uomini che fanno calcoli, progetti, che prendono una risoluzione e la eseguono, bensì tra uomini spogliati di tali facoltà, trasformati, caduti o al livello della materia inerte, pura passività, o delle forze cieche che sono puro slancio.

È questo l’ultimo segreto della guerra, e l’Iliade lo esprime con i suoi paragoni: i guerrieri appaiono simili tanto all’incendio, all’inondazione, al vento o alle bestie feroci o a qualsiasi causa cieca di disastro, quanto ad animali impauriti, alberi, acqua, sabbia e a tutto ciò che è mosso dalla violenza delle forze esterne. Da un giorno all’altro, talvolta da un’ora all’altra, Greci e Troiani a turno subiscono l’una e l’altra trasmutazione:

Come da un leone che vuole uccidere delle vacche sono assalite
Che in un prato paludoso e vasto pascolano
A migliaia…; tutte tremano; così allora gli Achei
Con panico furono messi in fuga da Ettore e da Zeus padre, Tutti…

Come quando il fuoco devastatore cade sul bosco fitto;
Ovunque il vento lo porta turbinando; allora i fusti,
Strappati, cadono pressati dal fuoco violento;
Così l’Atride Agamennone faceva cadere le teste Dei Troiani in fuga…

L’arte della guerra non è che l’arte di provocare tali trasformazioni e il materiale, i procedimenti, la morte stessa inflitta al nemico, sono solo dei mezzi a tale scopo; il vero oggetto è l’anima dei guerrieri. Ma queste trasformazioni costituiscono sempre un mistero di cui gli dei, che toccano l’immaginazione umana, sono gli autori. Comunque sia, questa duplice proprietà di pietrificare è essenziale alla forza, e un’anima in contatto con essa può sottrarvisi solo per una specie di miracolo. Tali miracoli sono rari e brevi.

La leggerezza di chi usa senza rispetto gli uomini e le cose che ha o crede di avere alla sua mercé, la disperazione che obbliga il soldato a distruggere, l’annientamento dello schiavo e del vinto, i massacri, tutto contribuisce a creare un uniforme quadro di orrore. La forza ne è l’unico eroe.

Ne deriverebbe una cupa monotonia se, disseminati qua e là, non vi fossero momenti luminosi, momenti brevi e divini in cui gli uomini hanno un’anima. L’anima che si risveglia così, per un istante e subito dopo si perde sotto l’imperio della forza, si risveglia pura e intatta; non vi compare alcun sentimento ambiguo, complicato o torbido; solo il coraggio e l’amore vi trovano posto.

Talvolta l’uomo, come Ettore davanti a Troia, trova la propria anima deliberando in se stesso, quando cerca di affrontare il destino da solo, senza l’aiuto degli dei e degli uomini. Altre volte gli uomini trovano la loro anima quando amano; nell’Iliade sono rappresentate quasi tutte le forme pure dell’amore tra gli uomini.

La tradizione dell’ospitalità, anche dopo parecchie generazioni, ha la meglio sull’accecamento del combattimento:

Così sono per te un ospite amato in seno ad Argo…
Evitiamo le lance l’un l’altro, anche nella mischia.

L’amore del figlio per i genitori, quello del padre e della madre per il figlio è sempre tratteggiato in modo tanto breve quanto toccante:

Ella rispose, Teti, versando lacrime:
“Mi sei nato per una breve vita, figliolo mio, come tu dici…”

Lo stesso vale per l’amore fraterno:

I miei tre fratelli, che aveva per me partorito una sola madre,
Così cari…

L’amore coniugale, condannato alla sventura, è di una purezza sorprendente. Lo sposo, evocando le umiliazioni della schiavitù che attendono la donna amata, omette quella il cui solo pensiero insudicerebbe in anticipo la loro tenerezza. Non vi è nulla di così semplice quanto le parole rivolte dalla sposa a colui che sta per morire:

…Sarebbe meglio per me
Se ti perdessi, stare sotto terra; non avrò più
Altro rimedio, quando avrai incontrato il tuo destino,
Null’altro che male…

Non meno toccanti sono le parole rivolte allo sposo morto:

Mio sposo, sei morto anzitempo, così giovane; e me, tua vedova,
Lasci sola nella mia casa; il nostro bambino ancora piccolo
Che avevamo avuto tu ed io, sventurati. E non penso
Che un giorno diventerà grande…
Poiché dal tuo letto morendo non mi hai teso le mani,
Non hai detto una sola buona parola, affinché io sempre
La pensi giorno e notte versando lacrime.

L’amicizia più bella, quella tra compagni d’armi, è il tema degli ultimi canti:

…Ma Achille
Piangeva, pensando al compagno benamato; il sonno
Non lo colse, che tutto domina; si rigirava di qua e di là…

Ma il trionfo più puro dell’amore, la grazia suprema delle guerre, è l’amicizia che sgorga dal cuore dei nemici mortali. Sopprime la fame di vendetta per il figlio ucciso, per l’amico ucciso, cancella con un miracolo ancora più grande la distanza tra benefattore e supplice, tra vincitore e vinto:

Ma quando il desiderio di bere e mangiare fu placato,
Allora Priamo, il Dardanide, si mise ad ammirare Achille,
Quant’era alto e bello; aveva il volto di un dio.
E a sua volta il Dardanide Priamo fu ammirato da Achille
Che guardava il suo bel volto e ascoltava le sue parole.
E quando furono sazi di essersi contemplati l’un l’altro…

Questi momenti di grazia sono rari nell’Iliade, ma bastano a far sentire con estremo rammarico ciò che la violenza fa e farà perire.

Tuttavia, un tale accumulo di violenze sarebbe freddo senza un accento di inguaribile amarezza che si fa continuamente sentire, anche se spesso è indicato da una sola parola, spesso solo da una cesura nel verso, da un a capo. In questo l’Iliade è unica, in virtù dell’amarezza che procede dalla tenerezza e che si riversa su tutti gli uomini, uguale alla luce del sole.

Il tono non smette mai di essere impregnato di amarezza, ma non si abbassa nemmeno mai al lamento. La giustizia e l’amore, che non possono occupare alcuno spazio in questo quadro di violenze estreme e ingiuste, lo inondano della loro luce con accenni appena percepibili.

Nulla di prezioso, destinato o meno a perire, viene trascurato; viene esposta la miseria di tutti senza dissimulazione né disdegno, nessun uomo è posto al di sopra o al di sotto della condizione comune a tutti gli altri, tutto ciò che è distrutto viene rimpianto.

Vincitori e vinti sono ugualmente prossimi, allo stesso titolo simili al poeta e all’ascoltatore. La differenza è che la sventura dei nemici è forse sentita più dolorosamente.

Così cadde, addormentato da un bronzeo sonno,
Lo sventurato, lontano dalla sua sposa, difendendo i suoi…

Quale accento per evocare la sorte dell’adolescente venduto da Achille a Lemno!

Per undici giorni rallegrò il suo cuore tra coloro che amava,
Ritornando da Lemno; il dodicesimo di nuovo
Nelle mani di Achille Dio l’ha consegnato, lui che doveva
Mandarlo da Ade, benché non volesse partire.

E la sorte di Euforbio, colui che ha visto un solo giorno di guerra:

Il sangue gli intride i capelli, simili a quelli delle Grazie …

Quando viene pianto Ettore:

…guardiano delle caste spose e dei bambini piccoli

bastano queste parole a far apparire la castità insudiciata a forza e i bambini consegnati alle armi. La fontana alle porte di Troia diventa oggetto di rimpianti strazianti, quando Ettore la supera di corsa per salvare la sua vita condannata:

Là si trovavano degli ampi lavatoi, nei pressi,
Belli, in pietra, dove gli abiti splendenti
Erano lavati dalle donne di Troia e dalle figlie così belle,
Una volta, in tempo di pace, prima dell’arrivo degli Achei.
Di là corsero, fuggendo, e l’altro dietro inseguendo…

Tutta l’Iliade sta sotto l’ombra della sventura più grande che ci sia tra gli uomini: la distruzione di una città. Tale sventura però non apparirebbe più lacerante se il poeta fosse di Troia; il tono non è diverso quando si tratta degli Achei che muoiono lontani dalla patria.

Le brevi evocazioni del mondo della pace sono dolorose quanto l’altra vita, quella dei viventi, appare calma e piena:

Finché venne l’alba e si fece giorno,
Dai due lati le frecce colpirono, gli uomini caddero.
Ma alla stessa ora in cui il boscaiolo sta per preparare il suo pasto
Nelle valli di montagna, quando le braccia sono stanche
Di tagliare i grandi alberi, e un vuoto lo prende allo stomaco,
E il desiderio di un buon cibo lo afferra alle viscere,
Proprio a quell’ora, coraggiosi, i Danai ruppero il fronte.

Tutto ciò che è assente dalla guerra, tutto ciò che la guerra distrugge o minaccia, nell’Iliade è avvolto di poesia; i fatti di guerra non lo sono mai. Il passaggio dalla vita alla morte non è velato da alcuna reticenza:

Allora gli saltarono i denti; salì da due lati
Il sangue agli occhi; il sangue che da labbra e narici
Egli rendeva, a bocca aperta; la morte con la sua nube nera lo avvolse.

La fredda brutalità dei fatti di guerra non è affatto mascherata: vincitori e vinti non sono né ammirati, né disprezzati, né odiati. Il destino e gli dei decidono quasi sempre della mutevole sorte dei combattimenti. Nei limiti assegnati dal destino, gli dei sovrani dispongono della vittoria e della disfatta; sono sempre loro a provocare le follie e i tradimenti che ogni volta impediscono la pace; la guerra è il loro affare personale e il capriccio e la malizia sono i loro unici moventi.

Quanto ai guerrieri, i paragoni che li fanno apparire vincitori o vinti, bestie o cose, non possono suscitare né ammirazione né disprezzo, ma solo il rimpianto che gli uomini possano essere così trasformati.

La straordinaria equità ispirata dall’Iliade ha forse degli esempi a noi sconosciuti, ma non ha avuto imitatori. A stento si sente che il poeta è greco e non troiano. Il tono del poema sembra testimoniare direttamente l’origine delle parti più antiche; la storia forse non ci darà mai chiarezza in proposito.

Se crediamo con Tucidide che gli Achei, ottant’anni dopo la distruzione di Troia, subirono a loro volta una conquista, possiamo chiederci se i canti in cui la battaglia è nominata raramente non siano i canti di quei vinti che in parte forse cercarono l’esilio.

Costretti a vivere e a morire “ben lontani dalla patria”, come i Greci caduti davanti a Troia, avendo perduto le loro città come i Troiani, si ritrovavano essi stessi sia tra i vincitori, loro padri, che tra i vinti, la cui miseria assomigliava alla loro.

La verità di questa guerra ancora vicina poteva apparire loro col trascorrere degli anni, poiché non era più velata né dall’ebbrezza dell’orgoglio né dall’umiliazione. Potevano rappresentarsela al tempo stesso da vinti e da vincitori e conoscere così ciò che mai né vincitori né vinti hanno conosciuto, gli uni e gli altri essendo accecati. Questo però è un sogno, possiamo solo vagheggiare di tempi così lontani.

Comunque sia, questo poema è una cosa miracolosa. L’amarezza verte sull’unica giusta causa di amarezza: la subordinazione dell’anima umana alla forza, cioè, in fin dei conti, alla materia. Questa subordinazione è la stessa per tutti i mortali, benché l’anima la porti diversamente a seconda del grado di virtù.

Nell’Iliade, come pure sulla terra, nessuno vi si può sottrarre. Nessuno di coloro che vi soccombe è visto per questo come un essere spregevole. Tutto ciò che, all’interno dell’anima e nelle relazioni umane, sfugge all’imperio della forza è amato, ma amato dolorosamente a causa del pericolo di distruzione che continuamente incombe.

È questo lo spirito dell’unica vera e propria epopea dell’Occidente. L’Odissea sembra essere solo un’ottima imitazione, ora dell’Iliade ora dei poemi orientali; l’Eneide, per quanto brillante, è un’imitazione rovinata dalla freddezza, dalla declamazione e dal cattivo gusto. Le chansons de geste non hanno saputo raggiungere la grandezza per mancanza di equità: nella Chanson de Roland, la morte di un nemico non è sentita dall’autore e dal lettore allo stesso modo della morte di Rolando.

La tragedia attica, almeno quella di Eschilo e Sofocle, è la vera continuazione dell’epopea. Il pensiero della giustizia la rischiara senza intervenire mai. La forza vi appare nella sua fredda durezza, accompagnata sempre da effetti funesti ai quali non sfugge né chi la usa né chi la patisce; l’umiliazione dell’anima sotto costrizione non viene mascherata, né avvolta da facile pietà, né esposta al disprezzo; più di un essere ferito dal degrado della sventura diviene oggetto di ammirazione.

Il Vangelo è l’ultima e meravigliosa espressione del genio greco, come l’Iliade ne è la prima. In esso traspare lo spirito della Grecia non solo per il precetto di cercare, con l’esclusione di ogni altro bene, “il regno e la giustizia del nostro Padre celeste”, ma anche per il fatto che la miseria umana viene messa in mostra, e questo in un essere divino e umano allo stesso tempo.

I racconti della Passione mostrano che uno spirito divino, congiunto alla carne, viene alterato dalla sventura, trema dinanzi alla sofferenza e alla morte e, al fondo della disperazione, si sente separato dagli uomini e da Dio. Il sentimento della miseria umana dà a questi racconti un accento di semplicità, segno distintivo del genio greco, su cui si fonda tutto il valore della tragedia attica e dell’Iliade.

Certe parole restituiscono un suono stranamente vicino a quello dell’epopea: l’episodio del Cristo che dice a Pietro: “Un altro ti cingerà e ti condurrà dove tu non vuoi andare”, richiama alla memoria l’adolescente troiano mandato nell’Ade contro il suo volere. Tale accento non è separabile dal pensiero che ispira il Vangelo; infatti il sentimento della miseria umana è una condizione della giustizia e dell’amore.

Chi ignora a che punto l’alterna fortuna e la necessità tengono sotto la loro dipendenza ogni anima umana, non può considerare suoi simili, né amare come se stesso, quelli che il caso ha separato da sé con un abisso. La diversità delle costrizioni che pesano sugli uomini fa scaturire l’illusione che tra loro vi sono delle specie distinte che non possono comunicare. Possiamo amare ed essere giusti solo se conosciamo l’imperio della forza e siamo capaci di non rispettarlo.

I rapporti dell’anima umana e del destino, la misura in cui ogni anima plasma la propria sorte, le trasformazioni che una necessità impietosa imprime in qualsiasi anima in balìa del caso mutevole, ciò che per effetto della virtù e della grazia può restare intatto, tutto questo è un terreno su cui la menzogna è facile e seducente.

L’orgoglio, l’umiliazione, l’odio, il disprezzo, l’indifferenza, il desiderio di dimenticare o di ignorare, tutto contribuisce a quella tentazione. In particolare, non vi è nulla di più raro che una giusta espressione della sventura: dipingendola, fingiamo quasi sempre di credere o che la caduta sia una vocazione innata nello sventurato, o che un’anima possa sopportare la sventura senza rimanerne segnata; fingiamo di credere che egli muti tutti i suoi pensieri per volontà propria.

I Greci, molto spesso, ebbero la forza d’animo che consente di non mentire a se stessi; ne furono ricompensati e seppero raggiungere in ogni campo il più alto grado di lucidità, purezza e semplicità. Ma lo spirito che si è trasmesso dall’Iliade al Vangelo, passando per i pensatori e i poeti tragici, non ha affatto superato i limiti della civiltà greca e, dopo la distruzione della Grecia, ne restano solo dei riflessi.

Romani ed Ebrei si sono creduti entrambi preservati dalla comune miseria umana, i primi in quanto nazione prescelta dal destino per dominare il mondo, i secondi per il favore del loro Dio nella misura esatta in cui gli obbedivano.

I Romani disprezzavano gli stranieri, i nemici e i vinti a loro assoggettati e resi schiavi; non vi sono quindi state né epopee né tragedie. Sostituivano le tragedie con i giochi di gladiatori.

Gli Ebrei vedevano nella sventura il segno del peccato e di conseguenza un motivo legittimo di disprezzo; guardavano ai loro nemici vinti come esseri in odio a Dio stesso e condannati ad espiare i loro crimini, permettendo così di fatto la crudeltà e rendendola perfino indispensabile.

Nessun testo dell’Antico Testamento perciò restituisce un suono confrontabile a quello dell’epopea greca, se non forse certe parti del poema di Giobbe. Romani ed Ebrei sono stati ammirati, letti, citati e imitati negli atti e nelle parole, ogni qualvolta era necessario giustificare un crimine, durante venti secoli di cristianesimo.

Inoltre lo spirito del Vangelo non si è trasmesso puro alle successive generazioni di cristiani. Fin dai primi tempi si è creduto di vedere un segno della grazia nei martiri che subivano con gioia le sofferenze e la morte, come se gli effetti della grazia potessero essere più profondi negli uomini che nel Cristo.

Chi pensa che Dio stesso, divenuto uomo, non ha potuto sostenere lo sguardo dinanzi al rigore del destino senza tremare di angoscia, avrebbe dovuto intendere che possono elevarsi in apparenza al disopra della miseria umana, solo gli uomini che mascherano ai propri occhi tale rigore, con l’aiuto dell’illusione, dell’ebbrezza o del fanatismo. L’uomo che non è protetto dall’armatura di una menzogna non può patire la forza senza esserne toccato fino nell’anima.

La grazia può impedire che questo colpo lo corrompa, ma non può impedirne la ferita. Per averlo troppo spesso dimenticato, la tradizione cristiana ha saputo ritrovare solo molto di rado la semplicità che rende straziante ogni frase dei racconti della Passione.

D’altra parte la consuetudine di costringere alla conversione ha offuscato gli effetti della forza sull’anima di coloro che la usano.

Nonostante la breve ebbrezza causata dalla scoperta della letteratura greca durante il Rinascimento, il genio della Grecia non è rinato nel corso di venti secoli. Ne troviamo degli accenni in Villon, Shakespeare, Cervantes, Molière e una volta sola in Racine. La miseria umana viene messa a nudo, a proposito dell’amore, ne L’école des Femmes e in Phèdre; secolo strano del resto: al contrario dell’età epica, era permesso scorgere la miseria dell’uomo solo nell’amore, mentre gli effetti della forza nella guerra e nella politica dovevano sempre essere ammantati di gloria.

Si potrebbero forse citare ancora altri nomi. Ma nulla di ciò che hanno prodotto i popoli europei vale quanto il primo poema conosciuto, apparso presso uno di essi. Ritroveranno forse il genio epico quando sapranno credere che nulla è al riparo dalla sorte, quando sapranno non ammirare mai la forza, non odiare i nemici e non disprezzare gli sventurati. È dubbio che tutto ciò sia imminente.

Note

[1] . La battaglia di Craonne ebbe luogo il 7 marzo 1814 e terminò con una vittoria dell’esercito francese comandato da Napoleone Bonaparte contro gli eserciti russo e prussiano.

Traduzione di Francesca Rubini

Tratto da: Simone Weil, L’Iliade o il poema della forza, Asterior, Trieste, 2012, pp. 39–86

Titolo originale dell’opera: L’Iliade ou le poème de la force, “Cahiers du Sud”, 1943

Simone Weil (1909–1943) Filosofa e scrittrice di origini ebraiche, si formò all’École Normale Supérieure di Parigi e, dopo la laurea in Filosofia, insegnò in alcuni licei francesi, avvicinandosi ai movimenti dell’estrema sinistra e al sindacalismo rivoluzionario. Animata da un profondo desiderio di rinnovamento sociale, appoggiò le rivendicazioni degli operai e nel 1934, per dimostrare la sua partecipazione, scelse di abbandonare l’insegnamento e lavorare in fabbrica. Nel 1936, durante la guerra civile spagnola, si arruolò nelle file delle brigate rivoluzionarie contro le milizie di Franco. Dopo l’esperienza bellica si aprì per lei un periodo di crisi spirituale, che la portò ad avvicinarsi al cristianesimo. Durante il secondo conflitto mondiale si rifugiò prima negli Stati Uniti e poi in Inghilterra, dove militò a fianco delle autorità in esilio della Resistenza francese e dove morì di tubercolosi.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.