L’Europa in guerra per la Cecoslovacchia?

di Simone Weil (1938)

Mario Mancini
9 min readMay 30, 2022

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“It is Peace for our time”.

Un modello di azione

Molti, rispetto al problema cecoslovacco, commettono errore di non guardarlo in faccia nei termini in cui rischia di porsi se si inasprirà maggiormente. Per non lasciarsi prendere dal panico, è necessario elaborare quanto più lucidamente è possibile un modello d azione che valga per il migliore come per il peggiore dei casi. Quello che segue fa riferimento al peggiore dei casi, vale a dire la possibilità che Hitler, per ragioni interne ed esterne, fosse deciso a ottenere un successo sorprendente e decisivo in Europa centrale.

Ogni questione internazionale può essere considerata sotto quattro aspetti, del resto spesso collegati tra loro: il diritto, assunto come tale; i rapporti di forza e il loro equilibrio; gli impegni presi dalla Francia; le possibilità di guerra e di pace. Da ognuno di questi punti di vista, il mantenimento dello Stato cecoslovacco così come attualmente esiste, non sembra avere l’importanza che gli si attribuisce.

Sul piano del diritto

Dal punto di vista del diritto, la Cecoslovacchia ha effettivamente ricevuto parti del territorio tedesco e non sembra contestabile il fatto che la popolazione tedesca sia, in una qualche

misura, oppressa. Si può discutere in che misura. È difficile fare di questi territori disseminati una provincia separata che goda di una piena autonomia nell’ambito dello Stato cecoslovacco; in compenso, poiché costituiscono una frangia ai confini della frontiera tedesca e dell’antica frontiera austriaca, sembra facile alla Germania, ingranditasi di recente, annetterli puramente e semplicemente con una ridefinizione delle frontiere.

Ci si può chiedere se la Germania voglia impadronirsi anche di territori cechi. È verosimile che una ridefinizione delle frontiere le sia sufficiente, soprattutto se un passo simultaneo ; fosse compiuto da parte della Francia e dell’Inghilterra, a Berlino e a Praga, volto ad accettare una tale modifica e a proibire ogni impresa più ambiziosa.

Hitler ha infatti, innanzitutto, sempre proclamato di volere in Europa i territori tedeschi e nient’altro. Inoltre i territori di popolazione tedesca includono da un lato buona parte delle risorse industriali della Cecoslovacchia e dall’altro i massicci montagnosi che la difendono.

L’annessione di questi territori da parte della Germania metterebbe la Cecoslovacchia a sua disposizione; di conseguenza la Germania non avrebbe alcun bisogno di minacciarne l’indipendenza per realizzare, per quanto la riguarda, tutti i suo obiettivi diplomatici, economici, militari.

Sul piano politico

Una sorta di protettorato risponderebbe molto meglio alla politica generale di Hitler dell’annessione del territorio ceco. È addirittura probabile che un semplice mutamento d’orientamento diplomatico da parte della Cecoslovacchia potrebbe essere sufficiente a eliminare ogni problema di minoranza. L’essenziale, per Hitler, è che la Cecoslovacchia, smembrata o no, divenga uno Stato satellite della Germania.

Quali sarebbero gli inconvenienti di questa situazione? Si può ritenere che la dipendenza in cui si troverebbe la Cecoslovacchia nei confronti della Germania sarebbe ingiusta. Certo; ma d’altra parte lo statu quo è un’ingiustizia inflitta ai Sudeti.

Ciò dimostra semplicemente che il diritto all’autodeterminazione dei popoli incontra un ostacolo nella natura delle cose, per il fatto che le tre carte dell’Europa — fisica, economica ed etnografica — non coincidono.

La Cecoslovacchia potrebbe benissimo — sia perché indebolita dalla perdita dei suoi territori tedeschi, sia per evitare una tale perdita — diventare uno stato satellite della Germania senza dover sacrificare la sua cultura, la sua lingua o le sue caratteristiche nazionali; e ciò limiterebbe l’ingiustizia. L’ideologia nazionalsocialista è puramente razzista; di universale ha solo l’anticomunismo e l’antisemitismo. I cechi potrebbero mettere fuori legge il partito comunista ed escludere gli ebrei da funzioni di qualche importanza, senza perdere nulla della propria vita nazionale. In breve, ingiustizia per ingiustizia, poiché ce ne deve essere comunque una, scegliamo quella che meno comporta il rischio di guerra.

Allontanare il pericolo di guerra

Del resto, anche se l’ingiustizia dovesse essere più grande, non c’è un’amara ironia nel fatto che la Francia rivesta la sua armatura in qualità di cavaliere difensore dei torti? Impedendo per vent’anni l’Anschluss essa stessa ha attentato, nel modo più flagrante, al famoso diritto all’autodeterminazione dei popoli. E Dio sa che, se i diritti dei popoli la interessano, non le mancano, in Africa e in Asia, popoli da emancipare, senza rischiare una guerra.

È vero che dare soddisfazione alle rivendicazioni della Germania in Cecoslovacchia farebbe cadere tutta l’Europa centrale sotto la sua influenza. Questo ci porta a un altro punto di vista, quello dei rapporti di forza. Non si tratta più di diritto.

È possibile che la volontà di Hitler sia rivolta a un obiettivo: stabilire un’egemonia tedesca in Europa, attraverso la guerra se necessario, senza guerra, se possibile. La Francia, per tradizione, non ammette egemonia in Europa, se non la propria, quando può stabilirla. Oggi, tra la Francia vittoriosa di vent’anni fa e la Germania, in piena convalescenza, se così si può dire, esiste una sorta di equilibrio instabile. Bisogna tendere a mantenere I questo equilibrio? A ristabilire l’egemonia francese?

Un’egemonia tedesca sull’Europa orientale

È evidente che il grande principio dell’“equilibrio europeo” è, se vi si riflette, un principio di guerra. In base a tale principio, un paese si sente privo di sicurezza, posto in una situazione intollerabile quando è il più debole rispetto a un possibile avversario. Ora, poiché non esiste una bilancia per misurare la forza degli Stati, un paese o un blocco di paesi ha un solo mezzo per non essere il più debole: essere il più forte. Quando due paesi o due blocchi sentono ognuno il bisogno imperioso di essere il più forte, si può predire la guerra, senza rischiare di ingannarsi.

Se ci dev’essere una egemonia al centro dell’Europa, è nella natura delle cose che sia un’egemonia tedesca. La forza è dalla parte della Germania. Nel 1918, è stata vinta solo di stretta misura da una coalizione formidabile. Del resto, perché un’egemonia tedesca è un’eventualità peggiore di un’egemonia francese? La Germania è “totalitaria”, è vero.

Ma i regimi politici sono instabili; fra trent’anni, tra la Francia e la Germania, chi può dire quale sarà una dittatura, quale una democrazia? In questo momento, un’egemonia tedesca sarebbe soffocante. Ma potrebbe esserlo di più, non dico addirittura di una guerra, ma della pace, con una spaventosa tensione nervosa, la sensazione di stato d’assedio, l’impoverimento materiale e morale che noi subiamo sempre di più?

Un’egemonia senza guerra

Ammettendo che la Francia possieda ancora una cultura, le tradizioni, uno spirito che le è proprio, un ideale generoso, il suo irraggiamento spirituale potrebbe essere assai più grande se abbandonasse l’Europa centrale all’influenza tedesca piuttosto di ostinarsi a lottare contro un’evoluzione difficilmente evitabile. Del resto, non si è mai verificato che l’egemonia non indebolisca in ultima analisi il paese che l’ha ottenuta. Solo che, finora, l’acquisizione dell’egemonia, e poi l’indebolimento che ne risulta, si sono sempre compiuti, salvo errori, attraverso le guerre. Se lo stesso processo potesse, questa volta, aver luogo senza guerra, non sarebbe il vero progresso?

Si discute molto degli impegni assunti dalla Francia nei confronti della Cecoslovacchia. Ma un impegno, anche formale, non costituisce tuttavia, nei rapporti internazionali, una ragione sufficiente per agire. Gli uomini di Stato di tutti i paesi lo sanno, benché non lo dicano. Se non lo sapessero, si potrebbe ammettere che una intera generazione muoia per un patto che non ha sottoscritto?

Il patto della SDN costituisce un impegno formale; e tuttavia, tanto vale dirlo, non ha mai determinato nessuna azione, e lo si è tacitamente considerato nullo tutte le volte che gli sono state aggiunte convenzioni particolari. Un po’ più di venticinque anni fa, la Francia ha rinnegato la sua firma quando si è impadronita del Marocco, rischiando di provocare così una guerra europea; [1] potrebbe fare altrettanto anche oggi, per evitare una guerra. È vero, il suo prestigio nei confronti delle piccole nazioni sarebbe rovinato; e, dopo Talleyrand, la tradizione della Francia è quella di appoggiarsi a loro.

Le conseguenze della politica dell’equilibrio delle forze

Questa politica è un’applicazione dell’equilibrio di forze in Europa; la Francia cerca, per mezzo delle piccole nazioni, di rimediare alla propria inferiorità; nello stesso tempo, si attribuisce un’aureola di idealismo, un aureola davvero immeritata, se si pensa quali atroci miserie ha creato la frammentazione dell’Europa centrale da vent’anni!

In ogni caso, mai una politica ha subito una sconfitta più sanguinosa di questa, poiché è stata proprio la “piccola Serbia” a gettare l’Europa nel massacro di cui subiamo le conseguenze. Quando vi si riflette, non sembra che si sia trattato allora di un caso, ma di una conseguenza necessaria. Le piccole nazioni sono una tentazione irresistibile per la volontà di potenza, sia che questa assuma la forma della conquista o, cosa che è preferibile da tutti i punti di vista, della creazione di zone d’influenza; tra due grandi nazioni, è naturale che cadano sotto il dominio più o meno mascherato di quella più forte; e se l’altra tenta di opporvisi, il ricorso alle armi è quasi inevitabile.

Scenari possibili

È qui il centro stesso del problema. Le possibilità di pace aumenterebbero se la Francia e l’Inghilterra — supponendo che siano d’accordo — garantissero di nuovo solennemente l’integrità della Cecoslovacchia, oppure se si rassegnassero, nelle forme opportune, ad abbandonarla al suo destino? Si dice che, nel primo caso, Hitler indietreggerebbe. Forse. Ma è un rischio terribile da correre. Nella sua azione, egli è trascinato da un duplice dinamismo: il proprio e quello che ha saputo comunicare al suo popolo e che deve mantenere alla temperatura del ferro incandescente per conservare il suo potere.

È vero che fino ad ora non si è mai esposto al rischio di una guerra; ma finora non ne ha mai avuto bisogno. Non se ne può affatto dedurre che sia deciso a evitarlo per sempre. Sarebbe una follia da parte sua — si dice — rischiare una guerra generale per attaccare la Cecoslovacchia; sì, ma sarebbe una follia altrettanto grande da parte dell’Inghilterra e della Francia correre lo stesso rischio per difenderla.

Se esse decidono di correrlo, perché non dovrebbe farlo Hitler? Appare sempre più chiaramente che un atteggiamento fermo sulla questione cecoslovacca, anche unito a proposte di negoziato generale, non allenterebbe attualmente la tensione in Europa. Materialmente, negoziati, compromessi, accordi economici sarebbero assai vantaggiosi per la Germania, persino necessari; ma moralmente — e le considerazioni morali prevalgono di gran lunga in una tale dittatura — ciò di cui Hitler ha bisogno non è nulla di tutto ciò, piuttosto ha necessità di affermazioni periodiche e brutali dell’esistenza e della forza del suo paese. Non è verosimile che lo si possa arrestare su questa strada altrimenti che con le armi.

In guerra per la Cecoslovacchia?

Se si trattasse solo di farlo indietreggiare con un bluff, chi non lo vorrebbe? Ma se si deve trattare, com’è possibile, di un’effettiva azione armata, mi chiedo quanti giovani da mobilitare si troverebbero e quanti loro padri, madri, donne, affinché si possa ritenere ragionevole e giusto che il sangue francese scorra per la Cecoslovacchia. Credo che ce ne sarebbero pochi, se pur ce ne sono.

Una guerra provocata dagli eventi dell’Europa centrale sarebbe una nuova verifica delle parole amare, ma forti scritte da Mussolini nella sua prefazione a Machiavelli:

«Anche nei paesi dove questi meccanismi [della democrazia] sono in più alto uso da secoli e secoli, giungono ore solenni in cui non si domanda più nulla al popolo, perché si sente che la risposta sarebbe fatale; gli si strappano le corone cartacee della sovranità — buone per i tempi normali — e gli si ordina senz’altro o di accettare una Rivoluzione o una pace o di marciare verso l’ignoto di una guerra. Al popolo non resta che un monosillabo per affermare e obbedire. Voi vedete che la sovranità elargita graziosamente al popolo gli viene sottratta nei momenti in cui potrebbe sentirne il bisogno… Vi immaginate voi una guerra proclamata per referendum? Il referendum va benissimo quando si tratta di scegliere il luogo più acconcio per collocare la fontana del villaggio, ma quando gli interessi supremi di un popolo sono in giuoco, anche i governi ultrademocratici si guardano bene dal rimetterli al giudizio del popolo stesso».[2]

Per ritornare alla Cecoslovacchia, non ci sono che due partiti chiari e difendibili: o la Francia e l’Inghilterra si dichiarano decise alla guerra per mantenerne l’integrità, oppure accettano pubblicamente una trasformazione dello Stato cecoslovacco atta a soddisfare le principali mire tedesche. Al di là di questi due partiti, non ci possono essere che umiliazioni terribili, o la guerra, o probabilmente entrambe le possibilità. Che il secondo partito sia infinitamente preferibile, è, secondo me, evidente. Tutta una parte dell’opinione pubblica inglese è pronta ad accogliere una tale soluzione, e non solo a destra.

Note

[1] Simone Weil si riferisce alla crisi franco-tedesca del 1911, provocata dall’incidente di Agadir.

[2] Prefazione di Mussolini al Principe di Machiavelli, pubblicata nell’aprile del 1924 sulla rivista Gerarchia.

Da: Simone Weil, Sulla guerra. Scritti 1933–1943, Edizioni del Corriere della Sera, 2022, pp. 86–97

Questo articolo fu pubblicato il 25 maggio 1938 su Feuilles libres de la Quinzaine, IV, n. 58. Attualmente in OC, lI, 3, pp. 81–86.
Feuilles libres de la Quinzaine era diretta da Léon Emery (1898–1981) e Michel Alexandre (1888–1952). Era fortemente ispirata al pensiero di Alain. L’annessione dell’Austria avvenne il 12 marzo.

Simone Weil

(1909–1943) Filosofa e scrittrice di origini ebraiche, si formò all’École Normale Supérieure di Parigi e, dopo la laurea in Filosofia, insegnò in alcuni licei francesi, avvicinandosi ai movimenti dell’estrema sinistra e al sindacalismo rivoluzionario. Animata da un profondo desiderio di rinnovamento sociale, appoggiò le rivendicazioni degli operai e nel 1934, per dimostrare la sua partecipazione, scelse di abbandonare l’insegnamento e lavorare in fabbrica. Nel 1936, durante la guerra civile spagnola, si arruolò nelle file delle brigate rivoluzionarie contro le milizie di Franco. Dopo l’esperienza bellica si aprì per lei un periodo di crisi spirituale, che la portò ad avvicinarsi al cristianesimo. Durante il secondo conflitto mondiale si rifugiò prima negli Stati Uniti e poi in Inghilterra, dove militò a fianco delle autorità in esilio della Resistenza francese e dove morì di tubercolosi.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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