L’Atlante Mnemosyne di Aby Warburg
Le immagini della memoria e la magia di collegarle
di Brian Dillon
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Abbattere le frontiere delle discipline
Negli anni immediatamente successivi alla prima guerra mondiale, dopo una ricerca in Italia e aver ottenuto la cattedra all’Università di Amburgo, Aby Warburg subì un crollo mentale. Cadde in una profonda depressione della quale incolpò i suoi colleghi accademici.
Si era già rivoltato contro gli storici dell’arte suoi contemoranei. La pubblicazione del saggio del 1912 sugli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, fu l’occasione per Warburg di incolpare i colleghi di essere guidati da “pregiudizio da polizia di frontiera” nei confronti del suo metodo interdisciplinare di analisi delle opere d’arte.
Fu ricoverato nel manicomio privato di Kreuzlingen sotto la supervisione degli psichiatri Ludwig Binswanger e Emil Kraepelin che diagnosticarono a Warburg una sindrome maniaco-depressiva.
Tra le manifestazioni più strane della malattia di Warburg c’era l’abitudine di parlare di notte con gli insetti che volteggiavano nella sua stanza. Parlava per ore con falene e farfalle. Eecondo il rapporto clinico di Binswanger, le chiamava i suoi “animali dell’anima” e gli narrava il principio della sua agonia e le forme della sua sofferenza.
Si tratta di un’istantanea appropriata e commovente della vita interiore e del pensiero di Warburg, che ruotava intorno al rapporto tra le forme statiche e le forze, reali o immaginarie, che le mettono in movimento.
L’Atlante Mnemosyne
L’interesse principale di Warburg e tutto il suo metodo d’indagine delle opera d’arte, era una sorta di moto continuo e “sfarfallante”, una vibrazione silenziosa che ridava vita a immagini storiche. L’Atlante Mnemosyne (1924–29), che Warburg iniziò a sviluppare qualche anno dopo la sua guarigione dall’esaurimento, è la espressione più compiuta (anche se definitivamente incompiuta) di questo suo modo di pensare le cose continuamente in movimento.
Concepito originariamente come un libro illustrato — un Bilderatlas (“atlante delle immagini”) come i divulgatori scientifici avevano concepito tale pubblicazioni nel XIX secolo — poteva esistere realmente solo come una carta celeste dinamica di motivi e immagini, un mare piatto pullulante di immagini senza profondità, il film di un secolo che si sbobinava sulle pareti e i pannelli nelle stanze del Warburg Institute di Amburgo, prima del trasferimento dell’archivio nella nuova sede dell’Istituto a Londra nel 1933.
L’arte come il cinema: imagine in movimento
Ci sono molte varietà di movimento, imponenti o veloci, riscontrabili nelle immagini che Warburg ha apposto su quei pannelli. Ecco la rappresentazione di Albrecht Dürer, del 1518 circa, del grande carro trionfale dell’imperatore del Sacro Romano Impero Massimiliano I, trainata da sei coppie di cavalli e incoronato da una Vittoria alata.
Poi, corpi salgono e corpi che cadono ne Il grande Giudizio Universale di Peter Paul Rubens (1614–17), quindi il Martirio di San Filippo di Filippino Lippi (1502), e poi ancora La caduta di Fetonte — che tentò invano di guidare il Carro del sole — disegnato be tre volte da Michelangelo nel 1533 per soddisfare il gusto dell’amato Tommaso de’ Cavalieri.
E ancora a una serie di diagrammi del sistema solare, con Marte e i suoi “figli” al centro, è giustapposta a un’elegante ondata di dirigibili Zeppelin: tutti corpi celesti in movimento.
Ma l’interesse più vivo di Warburg, prima e durante l’Atlante Mnemosyne, è nel modo in cui corpi e volti apparentemente immobili esprimono o (meglio) incarnano il movimento, sia dell’anima che nelle membra.
In questa ottica, la storia dell’arte rivela essere sempre stata una sorta di cinema.
La “Primavera” del Botticelli
L’intuizione dell’Atlante è già presente in alcune note che Warburg stilò nel 1890. A proposito dei volti nell’arte rinascimentale, scrive:
La domanda non è più «Cosa significa questa espressione?», ma «Dove si muove»”.
Sandro Botticelli è un artista chiave a questo proposito: nella sua Primavera (1480 circa), la figura della primavera è affiancata a sinistra dalle Tre Grazie e, a destra, dalla ninfa Clori, che fugge e volge la testa indietro verso Zefiro, il vento dell’Ovest.
Estraete la figura di Cloris, ingranditela per vedere più da vicino il suo volto sconvolto, come fa Warburg nell’Atlante di Mnemosyne, e avrete una figura solo per metà umana, il cui movimento può essere corporeo oppure emotivo. La sua ambiguità è il punto di tutto: lei è allo stesso tempo irascibile e congelata, un’immagine che brilla piuttosto che limitarsi a significare.
Ed è nell’immagine di un volto spaventato e di un corpo sofferente che Warburg intravede, di volta in volta, un movimento che collega le innovazioni del Rinascimento con i ritratti fotografici del XIX secolo e le espressioni melodrammatiche delle prime star del cinema muto.
Il gruppo del Laocoonte
I pannelli che Warburg ha dedicato al gruppo scultoreo di Laocoonte e i suoi figli (27 a.C.–68 d.C.) sono le sue più ambiziose esplorazioni del rapporto tra arte e movimento.
Il gruppo statuario, ritrovato nel 1506 sul colle Esquilino e subito esposto in Vaticano, mostra il sacerdote troiano e i suoi figli aggrediti da serpenti inviati dagli dei Atena e Poseidone.
Warburg non fu il primo a vedere nella forma avvinghiata della scultura un’immagine che racchiudeva la stasi solida e il movimento libero. Nel suo saggio Sul Laocoonte (1798) Goethe paragonò l’opera a “un fulmine imprigionato” o “un’onda pietrificata nell’istante stesso in cui sta per infrangersi sulla riva”.
Warburg aveva persino immaginato il gruppo scultoreo come l’occasione per una sorta di esperimento proto-cinematografico di visione:
Per catturare bene l’attenzione del Laocoonte, mettiamoci davanti al gruppo con gli occhi chiusi e alla distanza necessaria; apriamoli e chiudiamoli alternativamente e vedremo tutto il marmo in movimento.
Dolore e agonia in movimento
Goethe vedeva nel Laocoonte una realtà vibrante e terribile che uno grande conoscitore come Winckelmann, stranamente, non aveva rilevato: in Pensieri sull’imitazione delle opere greche nella pittura e nella scultura (1755), lo storico dell’arte e archeologo si esprimeva così sulla sofferenza della figura principale:
Questo dolore, comunque, si esprime senza alcun segno di rabbia nel volto o in tutto il portamento.
Nell’Atlante di Mnemosyne, Laocoonte è tutto dolore, perennemente dolore. Il pathos è al centro della visione di Warburg dell’arte come stasi e movimento ed egli circonda le immagini del gruppo del Laocoonte con immagini correlate e alternative di volti in agonia e dolore.
C’è la testa di un uomo barbuto, attribuita a Pisanello e datata intorno al 1435, cioè molto prima della scoperta delle sculture romane. Con la bocca aperta e gli occhi buttati all’indietro, la figura fa pendant con la testa di Adamo in un affresco quattrocentesco di Filippo Lippi.
Nel loro insieme i volti e corpi del gruppo scultoreo danno vita a un fregio mobile di espressioni irretite.
La varietà delle espressioni emotive
In questo senso, l’Atlante di Mnemosyne fa parte di una lunga storia di sforzi per tabulare le varietà dell’espressione emotiva umana. La Conférence sur l’expression générale et particulière des passions (L’espressione delle passioni) di Charles Le Brun, pubblicata otto anni dopo la morte del pittore nel 1698, è un atlante o dizionario delle manifestazioni facciali di affetti: tranquillità, ammirazione, violenza, stupore.
Nel 1872, Charles Darwin pubblicò The Expression of the Emotions in Man and Animals, che riproduceva fotografie di soggetti sorridenti e smorfiosi scattate dal neurologo francese Guillaume-Benjamin-Amand Duchenne de Boulogne.
Le costellazioni di Warburg di corpi e volti in movimento sono state paragonate agli studi fotografici dei cosiddetti “isterici” che Jean-Martin Charcot produsse sotto l’influenza di Duchenne de Boulogne.
Ma la verità è che l’Atlante Mnemosyne diagnostica qualcosa di molto più fugace ed enigmatico. C’è dolore e sofferenza in queste immagini, ma anche un qualcosa di pura possibilità, come se lo spazio tra le immagini, o tra i pannelli, contenesse solo vento o battito di ali.
Da: Brian Dillon on the Disquieting Life and Times of Aby Warburg, in Frieze 211, May-June 2020