L’artigianato dello stile
di Roland Barthes
Da: Il grado zero della scrittura, Parte seconda
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«La forma costa cara» diceva Valéry quando gli si domandava perché non pubblicasse le sue lezioni al Collegio di Francia. Pure c’è stato tutto un periodo, quello della scrittura borghese trionfante, in cui la forma costava quasi quanto il pensiero; si vigilava certo alla sua economia, alla sua eufemia, ma la forma meno costava quanto più lo scrittore utilizzava uno strumento preformato, i cui meccanismi si trasmettevano infatti senza alcuna ricerca ossessiva di novità; la forma non era l’oggetto di una proprietà; l’universalità del linguaggio classico proveniva dal fatto che il linguaggio era un bene comune, e solo il pensiero era improntato di personalità. Si potrebbe dire che in tutto questo tempo la forma aveva valore d’uso.
Ora, si è visto che verso il 1850 un problema di giustificazione comincia a porsi alla Letteratura: la scrittura si cerca degli alibi; e proprio perché un’ombra di dubbio comincia a levarsi a proposito dell’uso, tutta una classe di scrittori che si faceva scrupolo di assumere fino in fondo la responsabilità della tradizione si accinge a sostituire al valore d’uso della scrittura un valore di elaborazione.
La scrittura si salverà non in virtù della sua destinazione, ma grazie al lavoro che sarà costata. Comincia allora a formarsi un’immagine dello scrittore-artigiano che si chiude in un mondo inesistente, come un operaio nella sua stanza, e sgrossa, taglia, leviga e incastona la sua forma, proprio come un orafo fa nascere l’arte dalla materia, passando a questo lavoro ore regolari di solitudine e di applicazione: scrittori come Gautier (maestro impeccabile di bella letteratura), Flaubert (che lima le sue frasi a Croisset), Valéry (nella sua camera, la mattina presto) o Gide (davanti al suo scrittoio come davanti a un banco di lavoro), formano una specie di consorteria delle Lettere francesi, dove il lavoro della forma costituisce il segno e la proprietà di una corporazione.
Questo valore-lavoro sostituisce in parte il lavoro-genio; con una sorta di civetteria si dice che si lavora molto e a lungo la propria forma; talvolta si crea anche una preziosità della concisione (lavorare una materia in generale corrisponde a ridurla), del tutto diversa dalla grande preziosità barocca (quella di Corneille per esempio); l’una esprime una conoscenza della natura che provoca un allargamento del linguaggio; l’altra, cercando di produrre uno stile letterario aristocratico, pone le condizioni di una crisi storica, che scoppierà il giorno in cui una finalità estetica non basterà più a giustificare la convenzione di questo linguaggio anacronistico, cioè il giorno in cui la Storia avrà portato a una discrepanza evidente tra la vocazione sociale dello scrittore e lo strumento affidatogli dalla tradizione.
Flaubert, con più ordine degli altri, ha fondato questa scrittura artigianale. Prima di lui, il fatto borghese si inseriva nell’ordine del pittoresco, o dell’esotico; l’ideologia borghese dava la misura dell’universale e, presupponendo l’esistenza di un uomo puro, poteva considerare con euforia il borghese come uno spettacolo incommensurabile con se stessa.
Per Flaubert lo stato borghese è un male incurabile che impegola lo scrittore e che egli può trattare solo assumendolo con lucidità, il che è proprio di un sentimento tragico.
Questa Necessità borghese, di Frederic Moreau, come di Emma Bovary, di Bouvart e di Pécuchet, esige, dacché la si affronta, un’arte ugualmente portatrice di una necessità, armata di una Legge.
Flaubert ha fondato una scrittura normativa che contiene, paradossalmente, le leggi tecniche di un pathos. Da un lato egli costruisce il suo racconto per successioni di essenze, ma secondo un ordine fenomenologico (come farà Proust), fissa i tempi verbali in un sistema convenzionale, in modo che agiscano come i segni della Letteratura, come un’arte che voglia avvertire della sua artificiosità; elabora un ritmo scritto, creatore di una specie di incantesimo, che fuori dalle norme dell’eloquenza parlata, arriva al sesto senso, puramente letterario, intimo, dei produttori e dei consumatori di Letteratura.
E, d’altro lato, questo codice del lavoro letterario, questa somma di esercizi relativi alla fatica della scrittura, alimenta una saggezza, se si vuole, e anche una fatica, una franchezza, perché l’arte flaubertiana procede additando la propria maschera.
Questa codificazione quotidiana del linguaggio letterario mirava, se non a riconciliare lo scrittore con una condizione universale, a dargli almeno la responsabilità della sua forma, a fare della scrittura offertagli dalla Storia, un’arte, cioè una convenzione chiara, un patto sincero che permetta all’uomo di trovare una posizione familiare in una natura ancora disperata. Lo scrittore dà alla società un’arte dichiarata, visibile a tutti nelle sue norme, e in cambio la società può accettare lo scrittore.
In tal modo Baudelaire teneva a riportare l’ammirabile prosasticità della sua poesia a Gautier, come a un feticcio della forma elaborata, situata certo fuori dal pragmatismo dell’attività borghese e tuttavia inserita in un ordine di lavori familiari, controllata da una società che riconosceva in essa non i propri sogni ma i propri metodi.
Poiché non si poteva sconfiggere la Letteratura partendo da essa, non era forse preferibile accettarla apertamente, e, condannati a questo carcere letterario, compiervi «un buon lavoro»?
Cosi la flaubertizzazione della scrittura è il riscatto generale degli scrittori, sia che i meno esigenti vi si lascino andare senza problemi, sia che i più puri ne riconoscano ancora una volta la condizione fatale.
Fonte: Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Milano, Lerici editore, 1960, pp. 75–80.