L’artificio retorico del ragionamento di Voltaire
La tecnica del riflettore
di Eric Auerbach
✎ Think|Tank. Il saggio del mese [febbraio 2022]
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Commercio e religione: l’artificio retorico di Voltaire
Ben diverso è il livello stilistico de testi realistici che stanno al servizio della propaganda illuministica. Di tali testi ne troviamo fin dalla Reggenza, e nel corso del secolo diventano più frequenti e più aspri nella loro polemica. Il maestro di essi è Voltaire. Cominciamo con lo scegliere un passo tolto dalla sesta delle Lettere filosofiche, in cui sono raccolte le sue impressioni sull’Inghilterra.
Entrez dans la bourse de Londres, cette place plus respectable que bien des cours, vous y voyez rassemblés les députés de toutes les nations pour l’utilité des hommes. Là le juif, le mahométan, et le chrétien, traitent l’un avec l’autre comme s’ils étaient de la même religion, et ne donnent le nom d’infidèles qu’à ceux qui font banqueroute; là le presbytérien se fie à l’anabaptiste, et l’anglican reçoit la promesse du quaker. Au sortir de ces pacifiques et libres assemblées, les uns vont à la synagogue, les autres vont boire: celui-ci va se faire baptiser dans une grande cuve au nom du Père, par le Fils, au Saint-Esprit; celui-là fait couper le prépuce de son fils, et fait marmotter sur l’enfant des paroles hébraïques qu’il n’entend point; ces autres vont dans leur église attendre l’inspiration de Dieu leur chapeau sur la tête : et tous sont contents.[1]
Questo quadro della Borsa di Londra non è scritto proprio con un intento realistico; quello che vi accade l’apprendiamo soltanto in generale. L’intento è invece d’insinuare certi pensieri che nella loro forma più rude e più asciutta suonerebbero press’a poco cosi:
I traffici internazionali, liberi, dettati solo dall’egoismo dei singoli, sono utili alla società umana, riuniscono gli uomini in una comune e pacifica attività; le religioni al contrario sono assurde, la loro assurdità è già dimostrata dal loro gran numero, affermando ciascuna d’essere l’unica vera, come pure dalla stoltezza dei loro dogmi e delle loro cerimonie. In un paese in cui ve ne siano moltissime e diverse sicché si debbano reciprocamente sopportare, esse non portano mai nessun gravissimo danno, e si possono considerare come innocue pazzie. Il male accade soltanto quando esse si combattono e si perseguitano l’una l’altra.
Però in questo concetto espresso così nudamente si nasconde un artificio retorico, da cui non posso prescindere, formando già esso il contenuto della concezione di Voltaire: la contrapposizione fra religione e commercio, con cui si sorprende il lettore e con cui si pone il commercio praticamente e moralmente più in alto che la religione. Il semplice accostamento delle due cose, quasi giacessero sullo stesso piano e costituissero due aspetti dell’attività umana da giudicarsi dal medesimo punto di vista, costituisce non solo una bella disinvoltura, ma inoltre un’impostazione del problema o, se si vuole, una disposizione sperimentale, in cui la religione, per quanto costituisce il suo valore e la sua essenza, automaticamente risulta perdente.
Essa vien presentata in una condizione in cui a priori appare ridicola. È questa una tecnica adoperata con successo in tutti i tempi da sofisti e propagandisti, e in cui Voltaire è maestro. Appunto per questo in quel brano egli non ha scelto un podere o un magazzino o una fabbrica per mostrarci i benefici del lavoro produttivo, ma invece la Borsa, dove concorrono uomini d’ogni provenienza e d’ogni fede.
L’invito a entrar nella Borsa è fatto quasi solennemente: egli chiama la Borsa un luogo che merita più rispetto che le corti dei principi e definisce i suoi frequentatori come i deputati di tutte le nazioni, che si riuniscono per il bene dell’umanità. Passa poi a una più minuziosa descrizione di costoro, e li osserva dapprima nella loro attività entro la Borsa, poi nell’altra loro vita, quella privata, e in ambedue i casi egli pone in rilievo la diversità delle loro credenze. Finché essi stanno nella Borsa tale diversità è senza importanza e non ha nessuna influenza sugli affari, e con ciò diventa possibile il giuoco di parole con “infidèle”. Ma non appena essi hanno lasciato la Borsa — questa riunione pacifica e libera in contrapposto con le riunioni di sacerdoti contendenti — ecco apparire lo spezzettamento della loro convinzione religiosa e ciò che dianzi era un tutto, quasi un simbolo dell’ideale collaborazione di tutta la società umana, si sparpaglia ora in molte parti senza legame e senza possibilità d’intesa; resto del capoverso è dedicato alla spedita descrizione di parecchie di queste parti.
I mercanti, lasciata la Borsa, si disperdono; alcuni vanno alla sinagoga, altri a bere; la medesima disposizione sintattica mostra che ambedue le cose costituiscono un modo equivalente di passare il tempo. Indi vengono caratterizzati tre gruppi di fedeli che frequentano la Borsa: anabattisti, giudei e quaccheri; e qui Voltaire mette in risalto di ciascun gruppo ciò che è puramente esteriore, per ciascuno del tutto diverso dall’altro, senza una relazione che li unisca, e nello stesso tempo ciascuno con qualche cosa di assurdo e di comico.
Non appare il carattere particolare dei giudei o dei quaccheri, il fondamento o la speciale formazione delle loro convinzioni, bensì, e specialmente per i non iniziati, la ridicolaggine del loro cerimoniale religioso. Anche questo costituisce un esempio assai amato dalla tecnica propagandistica che spesso ne fa un uso ancor più rozzo e tendenzioso, così che potremmo chiamarla la tecnica del riflettore.
Essa consiste in ciò, che di tutto un ampio discorso s’illumina una piccola parte, ma tutto il resto, che servirebbe a spiegarlo e a dare a ciascuna cosa il suo posto, e verrebbe, per così dire, a formare un contrappeso a ciò che è stato messo in risalto, viene lasciato nel buio.
In questo modo vien detta apparentemente la verità, poiché quanto è detto è incontestabile, e tuttavia tutto è falsato, essendo che la verità è composta di tutta la verità e del giusto rapporto fra le singole parti. Specialmente nelle epoche agitate, il pubblico ricasca sempre in questo tranello, e tutti siamo in grado di trarre buon numero d’esempi dal passato più recente. Con ciò il trucco nella maggior parte dei casi è facile da scoprire, ma alla gente, nei momenti di grandi passioni, manca la volontà di farlo.
Quando una forma di vita o un gruppo sociale ha fatto il suo tempo o ha anche solamente perduto favore o sopportazione, ogni iniquità scagliatagli contro dalla propaganda è salutata con gioia sadica, anche se la coscienza pubblica la trova veramente per metà iniqua. Gottfried Keller descrive benissimo questo comportamento psicologico in una novella del Seldwila, La storia del riso perduto, dove si parla d’una campagna di calunnie nella Svizzera d’un tempo, ma i fatti di cui egli parla sono, al confronto di quelli a cui noi abbiamo assistito, come il leggero intorbidamento d’un ruscello al confronto d’un mare di fango e di sangue.
Il Keller, che descrive i fatti con la sua libera e tranquilla chiarezza, non nasconde nulla, non cerca affatto di coonestare l’iniquità, né parla d’un diritto superiore, e tuttavia sembra che veda in queste vicende qualche cosa di naturale e talvolta di benefico, poiché infatti «ben più d’una volta da un motivo ingiusto o da un pretesto menzognero è uscito un rivolgimento politico e un ampliamento della libertà». Quest’uomo felice non poteva concepire nessun importante mutamento politico che non fosse nello stesso tempo un’espansione della libertà.
Voltaire conchiude con una frase inaspettata: «et tous sont contents». Con la rapidità d’un prestigiatore ha fatto in tre frasi mordaci la parodia di tre confessioni o sètte, e con altrettanta rapidità balzano fuori allegre e sorprendenti le quattro parole della chiusa. E queste sono piene di contenuto. Perché tutti sono contenti? Perché tutti sono lasciati tranquilli ai loro affari, coi quali acquisteranno ricchezza, e perché sono altrettanto lasciati tranquilli alle loro follie religiose, sicché non saranno né persecutori né perseguitati. Evviva la tolleranza! Essa lascia ognuno ai suoi affari e ai suoi piaceri, consistano questi nel bere o in un modo qualsiasi di venerare Iddio.
Questo porre il problema fin dal principio in modo che nella sua impostazione sia già contenuta la soluzione, e la tecnica del riflettore che illumina questo concetto espresso così nudamente si nasconde un artificio retorico, assurdo o scostante, sono due metodi adoperati già molto tempo prima di Voltaire. Ma egli ha un modo d’impiegarli ben preciso e tutto suo particolare: innanzi tutto il ritmo; il riassunto veloce e acuto degli sviluppi, il rapido mutare delle immagini, l’improvviso e sorprendente accostamento di cose che non siamo soliti pensare accostate; in tutto questo Voltaire è quasi unico e incomparabile, ed è già questo ritmo a produrre una buona parte dell’effetto mordace e spiritoso.
La chiave de ritmo
Si legga uno dei suoi quadretti rococò, e la cosa apparirà chiarissima:
Comme il était assez près de Lutèce,
au coin d’un bois qui borde Charenton,
il aperçut la fringante Marton,
dont un ruban nouait la blonde tresse:
sa taille est leste, et son petit jupon
laisse entrevoir sa jambe blanche et fine.
Robert avance, il lui trouve une mine
qui tenterait les saints du paradis;
un beau bouquet de roses et de lis
est au milieu de deux pommes d’albâtre,
qu’on ne voit point sans en être idolâtre;
et de son teint la fleur et l’incarnat
de son bouquet auraient terni l’éclat.
Pour dire tout, cette jeune merveille
à son giron portait une corbeille,
et s’en allait avec tous ses attraits
vendre au marché du beurre et des oeufs frais.
Sire Robert, ému de convoitise,
descend d’un saut, l’accolle avec franchise;
– J’ai vingt écus, — dit-il, — dans ma valise;
c’est tout mon bien, prenez encor mon coeur,
tout est à vous. — C’est pour moi trop d’honneur,
lui dit Marton.[2]
Questo brano è tratto da una narrazione in versi alquanto tarda: Ce qui plait aux dames, ed è composto con molta cura, come si può capire dalle graduate impressioni prodotte dalla bellezza di Marton, che il cavaliere ammira prima da lontano e poi sempre più da vicino.
Gran parte del suo fascino sta nel ritmo; se questo fosse più disteso, la narrazione perderebbe la sua freschezza e diventerebbe triviale. E proprio nel ritmo sta anche la spiritosità del brano; la dichiarazione amorosa è comica solamente perché riunisce l’essenziale in una cosi sorprendente brevità.
E il ritmo costituisce in Voltaire, qui e dappertutto, anche una parte della sua filosofia; esso gli serve a buttar fuori in maniera tagliente i moventi essenziali delle azioni umane, quali egli li vede, cioè nel senso più materialistico, e quasi a denudarle, senza tuttavia diventar mai triviale. In questo quadretto erotico non si esprime nulla di alto o di spirituale, ma soltanto cupidità e libidine.
La dichiarazione amorosa incomincia con l’esposizione esplicita del lato economico della faccenda, ed essa è tuttavia amabile, elegante e briosa. Tutti sanno, e lo sanno benissimo anche Robert e Marton, che le parole: «Prenez encor mon coeur, tout est à vous» non sono altro che girigogoli per esprimere il desiderio d’arrivar subito al sodo.
E tuttavia esse hanno il fascino e lo smalto che Voltaire e la sua età hanno ereditato dall’età classica (in questo caso soprattutto da La Fontaine) e posto al servizio di un illuminismo materialistico. Il contenuto s’è fatto completamente diverso, ma è conservato «l’agréable et le fin» dei classici, che si cela in ogni parola, in ogni modo e in ogni movimento del ritmo linguistico.
Particolarmente volterriano è il ritmo rapido, che nonostante l’audacia e la mancanza di scrupoli morali e nonostante la tecnica sofistica a sorpresa, non perde mai la lindezza estetica. Voltaire è perfettamente libero da tutta quella sensibilità mezzo erotica, e perciò un poco torbida, che abbiamo cercato d’esaminare a proposito del brano citato di Manon Lescaut; le sue rivelazioni illuministiche non sono mai rozze e pesanti, ma leggere, briose e nello stesso tempo saporose, ed egli soprattutto è libero completamente da quel pathos nebuloso che cancella tutti i contorni e intorbida tanto la chiarezza del pensiero quanto la purezza dei sentimenti, pathos che, apparso negli illuministi della seconda metà del secolo e nella letteratura della Rivoluzione e cresciuto ancor più lussureggiante nel secolo xix per influenza del Romanticismo, e nei tempi a noi più prossimi ha dato i frutti più abominevoli.
Il grande semplificatore
Prossima parente di questa velocità del ritmo, e tuttavia assai più diffusa come metodo di propaganda, è la grande semplificazione di tutti i problemi. Voltaire ha posto questa velocità, potremmo dire questa sbrigatività, al servizio della semplificazione. Essa si ha quasi sempre col ridurre il problema a un’antitesi, presentandola in un racconto incalzante, allegro e rapido, in cui bianco e nero o teoria e pratica, e via discorrendo, vengono chiaramente e semplicemente contrapposti.
Ciò si può osservare nel nostro passo sulla Borsa di Londra, dove la contrapposizione di commercio e religione (l’uno utile e fonte di collaborazione fra gli uomini, l’altra assurda e ragione di divisione) viene presentata in un quadro vivace, venendo con ciò il problema tendenziosamente semplificato. Subito accanto troviamo non meno semplificata la contrapposizione di tolleranza e intolleranza.
Perfino nei racconti amorosi non il problema, ma la sostanza del fatto vien ricondotta a una semplice formula antitetica (piacere-affare). Osserviamo ancora un altro esempio. Il romanzo Candide contiene una polemica contro l’ottimismo metafisico del pensiero di Leibniz, esser questo il migliore dei mondi. Nel capitolo 8 di Candide, Cunegonda, ritrovata, incomincia a narrare l’avventura che ha vissuto dal momento della cacciata di Candido dal castello del padre di lei:
J’étais dans mon lit et je dormais profondément, quand il plut au Ciel d’envoyer les Bulgares dans notre beau château de Thunder-ten-tronckh; ils égorgèrent mon père et mon frère, et coupèrent ma mère par morceaux. Un grand Bulgare, haut de six pieds, voyant qu’à ce spectacle j’avais perdu connaissance, se mit à me violer, cela me fit revenir, je repris mes sens, je criai, je me débattis, je mordis, j’égratignai, je voulais arracher les yeux à ce grand Bulgare, ne sachant pas que tout ce qui arrivait dans le château de mon père était une chose d’usage : le brutal me donna un coup de couteau dans le flanc gauche dont je porte encore la marque. — Hélas ! J’espère bien la voir — dit le naïf Candide. — Vous la verrez, dit Cunégonde, mais continuons. — Continuez, — dit Candide[3].
Gli eventi orrendi appaiono comici, perché s’accavallano con una sbrigatività quasi clownesca, e perché sono presentati come voluti da Dio e consueti, in comico contrapposto con la loro crudeltà e la volontà delle vittime; e a ciò si aggiunge anche lo spunto erotico alla fine. Tutto il romanzo è dominato dall’antitetica semplificazione e dalla riduzione del problema ad aneddoti e dalla vertiginosa rapidità del ritmo; le disgrazie s’incalzano e sempre vengono interpretate come necessarie, ordinate, ragionevoli, degne del migliore di tutti i mondi possibili, con una contraddizione che salta agli occhi.
In tal modo la tranquilla meditazione vien soffocata nel riso, e il lettore divertito arriva difficilmente o non arriva affatto ad accorgersi che Voltaire non rende nessuna giustizia al pensiero di Leibniz e in genere al pensiero dell’armonia universale, tanto più che uno scritto dilettevole come il suo trova ben più lettori che non le trattazioni difficili e affaticanti dei suoi avversari filosofici.
La maggior parte dei lettori suoi contemporanei difficilmente si sarà perfino accorta che la presunta realtà sperimentale su cui costruisce Voltaire, non corrisponde affatto all’esperienza e che è aggiustata con artificio a scopo polemico, e anche qualora se ne fossero accorti difficilmente si saranno valsi della scoperta. Nella realtà concreta non si vedrà mai quel ritmo di eventi e di sorti che capitano a Candido e ai suoi compagni; la caduta dal cielo azzurro d’una tempesta cosi ininterrotta e gratuita di disgrazie sul capo di gente a cui riescono del tutto nuove e del tutto fuor di ragione e che vi si trova coinvolta fortuitamente, non è cosa che avvenga nella realtà, e ricorda invece le disgrazie di qualche personaggio burlesco o del Toni del circo.
Prescindendo dall’eccessivo cumulo di disgrazie e dal fatto che in troppi casi non stanno in nessuna intima relazione con le vittime, Voltaire falsifica la realtà anche semplificando oltre misura le cause degli avvenimenti. Le cause dei destini umani che appaiono nei suoi scritti illuministici e realistici sono o avvenimenti naturali o eventi fortuiti o, in quanto le azioni umane possano considerarsi come cause, gli appetiti, la cattiveria e soprattutto la stupidità.
La soppressione della storia
Egli non considera mai le ragioni storiche delle sorti umane, le convinzioni e le istituzioni umane; e cosi tanto per la storia degli individui quanto per quella degli Stati, delle religioni e della società umana in generale. Come nel nostro primo esempio della Borsa londinese sono assurdi, stolti, dipendenti dal caso l’anabattismo e il giudaismo e il quacquerismo, parimenti appaiono in Candide le spedizioni militari, le leve, le persecuzioni religiose, le opinioni dei nobili e degli ecclesiastici; ed egli insinua come cosa del tutto naturale che nessun uomo con la testa sul collo possa credere a un ordine intimo dei fatti o a una giustificazione intima delle opinioni.
Egli insinua pure come cosa naturale e dimostrata che a ognuno possa toccare qualunque sorte purché sia in accordo con le leggi naturali, senza riguardo alcuno alla possibile correlazione fra carattere e destino, e talvolta si compiace di fabbricare concatenazioni di cause che, comprensibili come avvenimenti naturali, sopprimono consapevolmente l’individuo morale e storico. Si legga ad esempio nel capitolo 4 di Candide l’esposizione che fa Pangloss dell’origine della sua sifilide:
…vous avez connu Paquette, cette jolie suivante de notre auguste baronne; j’ai goûté dans ses bras les délices du paradis, qui ont produit ces tourments d’enfer dont vous me voyez dévoré ; elle en était infectée, elle en est peut-être morte. Paquette tenait ce présent d’un cordelier très savant qui avait remonté à la source; car il l’avait eue d’une vieille comtesse, qui l’avait reçue d’un capitaine de cavalerie, qui la devait à une marquise, qui la tenait d’un page, qui l’avait reçue d’un jésuite qui, étant novice, l’avait eue en droite ligne d’un des compagnons de Christophe Colomb.[4]
Una simile esposizione che tien conto esclusivamente delle cause fisiche, e che riguardo al lato morale fa soltanto la satira dei costumi ecclesiastici (anche l’omosessualità!), ma che nello stesso tempo sopprime con allegria sbrigativa tutti i fattori individuali che nei singoli casi avevano originato i rapporti amorosi, insinua una visione precisa del concatenarsi degli avvenimenti, in cui è eliminata tanto la responsabilità dell’uomo singolo per le sue azioni che seguono l’impulso naturale, quanto tutto ciò che dalla sua disposizione particolare e dal suo particolare intimo sviluppo conduce ad azioni determinate.
Solo di rado Voltaire si spinge così oltre come in questo passo e in genere in Candide. In fondo è un moralista, e negli scritti storici si trovano anche ritratti dove il carattere individuale è posto in chiaro rilievo. Ma egli è sempre portato a semplificare, e la semplificazione avviene in modo che la ragione sana, pratica, illuministica, quale incominciava a formarsi al suo tempo anche col concorso della sua influenza, sia l’unica misura del giudizio e che, delle condizioni sotto le quali si svolge la vita umana, trovino seria considerazione soltanto quelle materiali e naturali.
Ciò s’accorda con quell’animo attivo e strenuo che si realizza nell’Illuminismo: la società umana doveva venir liberata dai fardelli che s’opponevano al progresso della religione; questi impacci erano evidentemente le condizioni religiose, politiche ed economiche che si erano costituite storicamente e irrazionalmente e avevano dato luogo a un groviglio intricatissimo. Non sembrava necessario comprenderle e giustificarle, bensì screditarle.
Voltaire costruisce la realtà in modo che si pieghi ai suoi fini. È innegabile che in molti suoi scritti si trova la realtà quotidiana, variopinta e vivace, ma essa è incompleta, volutamente semplificata, e perciò — nonostante il serio intento didattico — scherzosamente superficiale. Per quello che riguarda il livello stilistico è da dirsi che nel sentimento che pervade gli scritti illuministici, anche se non sono così insolenti e spiritosi come quelli di Voltaire, s’incontra tuttavia un abbassamento della persona umana; fin dagli inizi del secolo xviii sparisce la tragica grandezza degli eroi classici, la tragedia stessa diventa in Voltaire più colorita e spiritosa, e perde di peso. In compenso fioriscono le forme poetiche di livello medio come il romanzo e il racconto in versi, e fra la tragedia e la commedia s’incunea la commedia lacrimosa.
La tendenza del tempo non è più al sublime, ma al grazioso, all’elegante, allo spiritoso, al sentimentale, al ragionevole e all’utile, tutte cose che appartengono allo stile medio. Riguardo al livello stilistico, lo stile erotico-sentimentale di Manon Lescaut coincide con quello propagandistico di Voltaire. In ambedue i casi, i personaggi non sono eroi sublimi, sciolti dalla vita ordinaria, bensì individui chiusi in una vita per lo più mediocre, di cui sono esteriormente e perfino interiormente prigionieri.
Non potendosi negare un certo grado di serietà, neppure in Voltaire, il cui pensiero è certo perfettamente serio, si deve affermare che in contrapposto allo stile classico, si ha ora di nuovo uno stile misto. Ma tale mescolanza non va molto lontano né molto in profondo sia nella rappresentazione del quotidiano che del serio. Essa si collega alla tradizione del gusto classico in quanto il realismo vi rimane sempre grazioso, si evita di scavare profondamente nel tragico e nel creaturale e d’impigliarsi nella storia; il realistico, per quanto svariato e divertente, rimane spuma.
Il carattere artificioso del realismo di Voltaire
In Voltaire, la grazia e la leggerezza del suo realismo che son poste solo al servizio del pensiero illuministico, hanno raggiunto tal forza d’arte da metterlo in grado di fornire la rappresentazione creaturale perfino della propria decadenza e della propria fine, avvertite negli ultimi anni di vita, sotto forma di scherzose e amabili osservazioni di filosofia popolare. Darò un esempio che già è stato analizzato da L. Spitzer[5]. Si tratta d’una lettera che lo smunto patriarca settantaseienne, dalla maschera scarnificata che tutti conoscono, scriveva a madame Necker, quando lo scultore Pigalle era venuto a Ferney per modellare il suo busto. Essa dice:
À Madame Necker. Ferney, 19 juin 1770
Quand les gens de mon village ont vu Pigalle déployer quelques instruments de son art: — Tiens, tiens, — disaient-ils, — on va le disséquer; cela sera dróle –. C’est ainsi, madame, vous le savez, que tout spectacle amuse les hommes; on va également aux marionnettes, au feu de la Saint-Jean, à l’Opéra-Comique, à la grand’messe, à un enterrement. Ma statue fera sourire quelques philosophes, et renfrognera les sourcirls éprouvés de quelque coquin d’hypocrite ou de quelque polisson de folliculaire: vanité des vanités!
Mais tout n’est pas vanité; ma tendre reconnaissance pour mes amis et surtout pour vous, madame, n’est pas vanité.
Mille tendres obéissances à M. Necker.[6]
Rimando il lettore all’eccellente analisi dello Spitzer che segue e interpreta ogni sfumatura del testo, limitandomi a integrare o compendiare quello che è essenziale per il problema dello stile che qui discutiamo. L’aneddoto realistico che serve come spunto, o è inventato o per lo meno è stato trasformato a bella posta; non è verosimile che ai contadini attorno al 1770 la dissezione fosse più nota che la scultura; chi fosse Pigalle, era cosa di cui si doveva andar parlando, e che del loro famoso castellano, che da un decennio viveva fra di loro, fossero fatti ritratti, doveva apparire ad essi assai più naturale che non il pensiero che venisse sezionato ancor vivente.
Non è certo da escludersi che qualche burlone un po’ colto abbia potuto dire fra loro qualche cosa di simile, ma credo che a molti lettori, che si pongano questa questione, appaia molto più verosimile che il burlone fosse lo stesso Voltaire. Comunque, sia che, come io sospetto, sia stato lui stesso a macchinare questo aneddoto, sia che il caso glielo abbia offerto cosi, è un tratto di realtà straordinario, briosissimo, teatrale, ottimamente adatto solo per quello che egli vi annette: quella saggezza mondana e comune presentata in modo amabile e leggiadro, la girandola di esempi in cui il profano e il sacro si mescolano con illuministica arditezza, l’ironia sulla propria gloria, le allusioni polemiche ai nemici, e, a compendio di tutto, la citazione salomonica; infine l’attaccarsi alla parola vanité, per trovar la frase di chiusura della lettera, che illumina tutto l’incanto di questo vecchio ancor galante e vivace.
L’insieme, come dice lo Spitzer, dà luogo a una creazione straordinaria, a un biglietto rococò e illuministico! Ed è tanto più straordinario che in esso la saggezza mondana e la leggiadria spirituale si leghino a un aneddoto che evoca e sfida la «creaturalità» del vecchio corpo cadente e vicino alla tomba. Perfino su un tale argomento Voltaire rimane spiritoso e piacevole.
Quante cose si trovano riunite in questo testo! Il carattere artificioso del realismo, e il piacere perfetto dei rapporti da uomo a uomo, che con tutto il calore dell’espressione conservano una certa riservatezza; il porsi di fronte alla propria fralezza umana con una superficialità che nello stesso tempo è quell’alta forma di gentilezza che evita di far pesare sull’altro i propri turbamenti; quella passione istruttiva dei grandi illuministi che sarebbe pronta a spendere fin l’ultimo respiro per la formulazione spiritosa e divertente d’una verità.
Con gli esempi tratti da Prévost e da Voltaire spero d’aver offerto tutti i caratteri essenziali dell’incanto e della superficialità propri di quello stile medio attorno al quale, al principio del secolo xviii, cominciarono a riavvicinarsi il tono realistico e il serio, che al tempo di Luigi xiv erano cosi rigidamente separati; e parecchie altre cose appariranno più chiare mediante uno sguardo comparativo a testi posteriori.
Note
[1] Entrate nella la Borsa di Londra, questo luogo più rispettabile di tante Corti, vi vedrete riuniti i deputati di tutte le nazioni per l’utilità degli uomini. Là il giudeo, il maomettano e il cristiano trattano l’uno con l’altro come se fossero della medesima religione, e non danno l’appellativo d’infedeli se non a coloro che fanno bancarotta; là il presbiteriano si fida dell’anabattista e l’anglicano accetta la cambiale del quacchero. Uscendo da queste pacifiche e libere assemblee, gli uni si recano in sinagoga, gli altri vanno a bere; l’uno va a farsi battezzare in una grande tinozza nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo, l’altro fa tagliare il prepuzio a suo figlio e borbottare sul bambino parole ebraiche che non capisce; altri vanno nella loro chiesa, col cappello in testa, ad aspettare l’ispirazione divina; e tutti sono contenti..
[2] Quando fu assai vicino a Lutezia, all’angolo d’un bosco che fiancheggia Charenton, vide la vispa Marton dalle trecce bionde legate con un nastro; il corpo è snello, e la sua sottanella lascia intravedere la gamba bianca e fina. Robert si fa avanti; le trova una faccia che tenterebbe i santi del paradiso; un bel mazzo di rose e di gigli sta in mezzo a due mele d’alabastro, che non si guardano senza diventarne idolatri; e il fiore e l’incarnato del suo colorito avrebbero oscurato lo splendore di quel mazzo. Per dir tutto, questa giovane meraviglia portava una cesta attaccata alla cintola, e se ne andava con tutte le sue attrattive a vendere al mercato burro e uova fresche. Messer Robert, invaso da cupidigia, scende con un salto, l’abbraccia con disinvoltura; — Ho venti scudi, — dice, — nella mia valigia; è tutto quanto possiedo; prendetevi anche il mio cuore; tutto è vostro. — E Per me troppo grande onore, — gli dice Marton.
[3] Ero nel mio letto e dormivo profondamente, quando piacque al Cielo di mandare i Bulgari nel nostro bel castello di Thunder-ten-tronckh; sgozzarono mio padre e mio fratello, e tagliarono a pezzi mia madre. Un gran Bulgaro, alto sei piedi, vedendo che dinanzi a tal spettacolo avevo persa la conoscenza, si dette a violentarmi; questo mi fece rinvenire, ripresi i sensi, gridai, mi dibattei, morsicai, graffiai, volevo strappar gli occhi a quel gran Bulgaro, non sapendo che tutto quello che accadeva nel castello di mio padre era cosa consueta: quel bruto mi dette una coltellata nel fianco sinistro di cui porto ancora il segno. — Ohimè, spero di vederlo, disse l’ingenuo Candido. — Lo vedrete, — disse Cunegonda; — ma continuiamo. — Continuate, — disse Candido.
[4] Voi avete conosciuto Pasquina, la graziosa cameriera della nostra augusta baronessa; fra le sue braccia ho goduto le delizie del paradiso, che hanno prodotto questi tormenti d’inferno da cui mi vedete divorato; lei era infetta, e forse ne è morta. Pasquina aveva ricevuto questo regalo da un francescano dottissimo, che era risalito alla fonte; perché l’aveva avuta da una vecchia contessa, a cui l’aveva data un capitano di cavalleria, che la doveva a una marchesa, che l’aveva avuta da un paggio, che l’aveva ricevuta da un gesuita che, quando era novizio, l’aveva avuta in linea retta da uno dei compagni di Cristoforo Colombo…
[5] Romanische Stil-und Literaturstudien, Marburg 1931, 11, pp. 238 sgg.
[6] Alla signora Necker. Ferney, 19 giugno 1770, Quando gli abitanti del mio villaggio hanno visto Pigalle disporre gli arnesi della sua arte: — Guarda, guarda, — dicevano, — adesso lo dissezionano: sarà buffo –. Cosi dunque, signora, qualsiasi spettacolo diverte gli uomini; allo stesso modo si va alle marionette, ai fuochi di San Giovanni, all’opera comica, alla messa cantata, a un funerale. La mia statua farà sorridere qualche filosofo, e farà aggrottare le sopracciglia messe alla prova di qualche ipocrita canaglia o di qualche giornalista cialtrone: vanità delle vanità! Ma tutto non è soltanto vanità; la mia affettuosa gratitudine per i miei amici e soprattutto per voi, signora, non è vanità. Mille affettuosi ossequi al signor Necker.
Da: Erich Auerbach, Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, Einaudi, Torino 1977, pp. 163–175
Erich Auerbach (Berlino, 1892 — Wallingford (Connecticut, USA,1957), è stato professore di romanistica alla Yale University e uno dei fondatori della corrente critica conosciuta con il nome di stilistica. Studioso di Dante deve la sua notorietà internazionale a Mimesis del 1946, che raccoglie i suoi studi sul realismo letterario europeo dalle origini fino alla prima metà del Novecento. Un’altra opera importante è Introduzione alla filologia romanza pubblicata in lingua italiana da Einaudi. L’influenza di Auebarch è tutt’oggi forte nell’ambito degli studi di critica letteraria e soprattutto di letteratura comparata.