L’archeologia della psiche
La conservazione del primitivo accanto al trasformato
di Sigmund Freud
Questo passo tratto da Il disagio della civiltà introduce una delle più importanti scoperte della psicoanalisi. Questa: nella vita psichica il passato non viene distrutto, ma conservato. Il primitivo continua ad esistere accanto al trasformato che ne è derivato durante la evoluzione della psiche. Una scoperta che ha avuto ricadute importanti nella stessa pratica terapeutica, oltreché nella teoria.
In questo scritto emerge anche la enorme cultura classica di Freud che qui si esprime nella descrizione della fasi evolutive dell’urbanistica dell’antica Roma che Freud utilizza per mostrare la differente strutturazione della psiche rispetto a qualsiasi un organismo creato dall’uomo.
Buona lettura!
Il senso dell’Io
Possiamo quindi disporre della seguente linea di pensiero: Normalmente nulla è per noi più sicuro del senso di noi stessi, del nostro proprio Io. Questo Io ci appare autonomo, unitario, ben contrapposto ad ogni altra cosa. Che tale apparenza sia fallace, che invece l’Io abbia verso l’interno, senza alcuna delimitazione netta, la propria continuazione in una entità psichica inconscia, che noi designiamo come Es, e per la quale esso funge per così dire da facciata, lo abbiamo appreso per la prima volta dalla ricerca psicoanalitica, da cui ci attendiamo molte altre informazioni circa il rapporto tra Io ed Es.
Ma verso l’esterno, almeno, l’Io sembra mantenere linee di demarcazione chiare e nette. Solo in uno stato, in uno stato in verità eccezionale, ma non tale da poter essere stigmatizzato come patologico, le cose vanno diversamente. Al culmine dell’innamoramento, il confine tra Io e oggetto minaccia di dissolversi. Contro ogni attestato dei sensi, l’innamorato afferma che Io e Tu sono una cosa sola, ed è pronto a comportarsi come se fosse davvero così.
Ciò che può temporaneamente esser revocato ad opera di una funzione fisiologica [cioè: normale], deve naturalmente poter subire un turbamento ad opera di processi morbosi. La patologia ci fa conoscere un gran numero di stati in cui la delimitazione dell’Io nei confronti del mondo esterno diventa incerta o in cui i confini sono effettivamente tracciati in modo scorretto; ci sono casi in cui parti del proprio corpo, perfino porzioni della propria vita psichica, percezioni, pensieri, sentimenti, appaiono come estranei e non appartenenti all’Io; ci sono altri casi in cui al mondo esterno viene attribuito ciò che manifestamente ha avuto origine nell’Io e che da esso dovrebbe essere riconosciuto. Così perfino il senso dell’Io è soggetto a disturbi e i confini dell’Io non sono stabili.
L’Io e il fuori
Un’ulteriore riflessione ci dice: Questo senso dell’Io, presente nell’adulto, non può essere stato tale fin dall’inizio. Deve aver subito uno sviluppo di cui ovviamente non si possono dare prove sicure; tuttavia esso può essere costruito con sufficiente verosimiglianza. Il lattante non distingue ancora il proprio Io dal mondo esterno in quanto fonte delle sensazioni che lo subissano. Apprende a farlo gradualmente, reagendo a sollecitazioni diverse.
Certamente suscita in lui la massima impressione il fatto che alcune delle fonti di eccitamento, nelle quali più tardi riconoscerà i propri organi corporei, possano trasmettergli sensazioni in qualsiasi momento, laddove altre — fra cui quella maggiormente agognata, il seno materno — temporaneamente gli si sottraggono e gli vengono riportate solo come risultato del suo strillare in cerca di aiuto. In questo modo si contrappone per la prima volta all’Io un “oggetto” come qualcosa che si trova “fuori” e che viene costretto ad apparire soltanto in seguito a un’azione particolare.
Un ulteriore incentivo al distacco dell’Io dalla massa delle sensazioni, e dunque al riconoscimento di un “fuori”, di un mondo esterno, è fornito dalle abbondanti, molteplici, inevitabili sensazioni di dolore e dispiacere, che, nell’esercizio del proprio illimitato dominio, il “principio di piacere” ordina di neutralizzare ed evitare.
Sorge la tendenza a tenere distaccato dall’Io tutto ciò che può divenire fonte di simile dispiacere, a respingerlo all’esterno e a formare un puro Io-piacere, al quale si contrappone, minaccioso ed estraneo, il “fuori”. Le frontiere di questo primitivo Io-piacere non possono però eludere le rettifiche derivanti dall’esperienza. Parte di ciò cui non si vorrebbe rinunciare in quanto dispensa piacere è non Io, è oggetto; e parte della pena che si vuole espellere si dimostra invero inseparabile dall’Io in quanto di origine interna.
Viene appreso un procedimento in virtù del quale, attraverso un consapevole orientamento delle proprie attività sensoriali e un’opportuna azione muscolare, diventa possibile distinguere fra ciò che è interno, ossia che appartiene all’Io, e ciò che è esterno, ossia che scaturisce da un mondo esterno, e in tal modo viene compiuto il primo passo verso l’insediamento del principio di realtà, al quale spetta negli sviluppi futuri la parte dominante.
Questa differenziazione è ovviamente finalizzata all’intento pratico di difendersi dalle sensazioni spiacevoli già sperimentate e da quelle incombenti. Che, al fine di difendersi da taluni eccitamenti spiacevoli che sorgono dal suo interno, l’Io non applichi metodi diversi da quelli che usa contro il dispiacere proveniente dall’esterno, diventa poi l’elemento scatenante di alcuni rilevanti disturbi patologici. In tal modo, dunque, l’Io si distacca dal mondo esterno, anzi, per essere più esatti, in origine l’Io include tutto, e in seguito separa da sé un mondo esterno.
Il nostro presente senso dell’Io è perciò soltanto un avvizzito residuo di un sentimento assai più inclusivo, anzi di un sentimento onnicomprensivo che corrispondeva a una comunione quanto mai intima dell’Io con l’ambiente. Se possiamo ammettere che — in misura più o meno notevole — tale senso primario dell’Io si sia conservato nella vita psichica di molte persone, esso si collocherebbe, come una sorta di controparte, accanto al più angusto e più nettamente delimitato senso dell’Io della maturità, e i contenuti rappresentativi ad esso conformi sarebbero precisamente quelli dell’illimitatezza e della comunione con il tutto, ossia quelli con cui il mio amico spiega il sentimento “oceanico”.
La sopravvivenza dell’originario
Ma abbiamo il diritto di postulare la sopravvivenza di qualcosa di originario accanto a ciò che in seguito ne è scaturito? Indubbiamente sì; un evento siffatto non è sorprendente né nel campo psichico né in altri campi. Riguardo al regno animale ci atteniamo all’ipotesi che le specie più evolute siano derivate da quelle inferiori. Eppure troviamo ancor oggi tra i viventi tutte le forme semplici di vita.
Il genere dei grandi sauri è estinto e ha ceduto il posto ai mammiferi, ma un autentico rappresentante di tale genere, il coccodrillo, vive tuttora tra noi. L’analogia può essere troppo remota; risulta inoltre viziata dalla circostanza che le specie inferiori che sopravvivono non sono perlopiù i veri antenati delle specie attuali maggiormente sviluppate. Gli anelli intermedi si sono di regola estinti e ci sono noti solo per ricostruzione.
Nell’ambito della psiche la conservazione del primitivo accanto al trasformato derivatone è invece talmente frequente che è superfluo esemplificarla. Questo evento è generalmente conseguenza di una scissione nello sviluppo. Una parte (quantitativamente intesa) di un atteggiamento, di un moto pulsionale si è mantenuta inalterata, laddove un’altra parte ha subito l’ulteriore sviluppo.
Giungiamo in tal modo al problema più generale della conservazione entro lo psichico, problema a tutt’oggi scarsamente trattato, ma stimolante e importante al punto che, pur essendone il pretesto insufficiente, possiamo per un po’ permetterci di volgere ad esso la nostra attenzione.
Dal momento in cui abbiamo superato l’errore di supporre che il dimenticare cui siamo abituati significhi distruggere la traccia mnestica, sia cioè un annullamento, propendiamo per l’ipotesi opposta, ossia che nella vita psichica nulla può perire una volta formatosi, che tutto in qualche modo si conserva e che, in circostanze opportune, attraverso ad esempio una regressione che si spinga abbastanza lontano, ogni cosa può essere riportata alla luce.
L’archeologia di Roma antica
Cerchiamo di chiarire il contenuto di tale ipotesi ricorrendo a un paragone desunto da un altro campo.
Prendiamo come esempio l’evoluzione della Città Eterna. Gli storici ci insegnano che la Roma più antica fu la Roma quadrata, un insediamento cintato sul Palatino. Seguì la fase del Septimontium, una federazione degli insediamenti sui diversi colli, poi la città delimitata dalle mura serviane e, più tardi ancora, dopo tutte le trasformazioni del periodo repubblicano e del primo periodo imperiale, la città che l’imperatore Aureliano recinse con le sue mura.
Non vogliamo considerare ulteriormente le trasformazioni dell’Urbe; domandiamoci che cosa possa ancora trovare nella Roma odierna, di tali stadi precedenti, un visitatore che supponiamo dotato di vastissime conoscenze storiche e topografiche. Salvo poche interruzioni, vedrà quasi immutate le mura aureliane. In alcuni luoghi potrà trovare tratti delle mura serviane portate alla luce dagli scavi.
Se ne saprà abbastanza — più che l’archeologia contemporanea — potrà forse tracciare sulla pianta della città l’intero percorso di tali mura e il perimetro della Roma quadrata. Degli edifici inclusi un tempo in quest’antica cornice non troverà nulla, o soltanto scarsi resti; non esistono più, infatti. Il massimo che un’ottima conoscenza della Roma repubblicana potrebbe consentirgli sarebbe di sapere indicare i luoghi dove sorgevano i templi e gli edifici pubblici di quel periodo.
Ciò che oggi occupa questi luoghi sono rovine; non si tratta tuttavia delle rovine di tali edifici medesimi, bensì di quelle di loro rifacimenti posteriori dopo incendi e distruzioni. Non c’è bisogno di ricordare che tutti questi resti dell’antica Roma sono disseminati nell’intrico di una grande città sorta negli ultimi secoli, dal Rinascimento in poi. Qualcosa di antico è senza dubbio tuttora sepolto nel suolo della città o sotto i suoi fabbricati moderni. Questo è il modo in cui la conservazione del passato ci si presenta in luoghi storici come Roma.
L’archeologia di un organismo pischico
Facciamo ora l’ipotesi fantastica che Roma non sia un abitato umano, ma un’entità psichica dal passato similmente lungo e ricco, un’entità, dunque, in cui nulla di ciò che un tempo ha acquistato esistenza è scomparso, in cui accanto alla più recente fase di sviluppo continuano a sussistere tutte le fasi precedenti.
Nel caso di Roma ciò significherebbe quindi che sul Palatino i palazzi dei Cesari e il Septizonium di Settimio Severo si ergerebbero ancora nella loro antica imponenza, che Castel Sant’Angelo porterebbe ancora sulla sua sommità le belle statue di cui fu adorno fino all’assedio dei Goti, e così via. Ma non basta: nel posto occupato dal Palazzo Caffarelli sorgerebbe di nuovo, senza che tale edificio dovesse esser demolito, il tempio di Giove Capitolino, e non soltanto nel suo aspetto più recente, quale lo videro i romani dell’epoca imperiale, ma anche in quello originario, quando ancora presentava forme etrusche ed era ornato di antefisse fittili.
Dove ora sorge il Colosseo potremmo del pari ammirare la scomparsa Domus aurea di Nerone; sulla piazza del Pantheon troveremmo non solo il Pantheon odierno, quale ci venne lasciato da Adriano, ma, sul medesimo suolo, anche l’edificio originario di Marco Agrippa; sì, lo stesso terreno risulterebbe occupato dalla chiesa di Santa Maria sopra Minerva e dall’antico tempio su cui fu costruita. E, a evocare l’una o l’altra veduta, basterebbe forse soltanto un cambiamento della direzione dello sguardo o del punto di vista da parte dell’osservatore.
Non ha evidentemente senso sviluppare ulteriormente questa fantasia; conduce all’inimmaginabile, anzi all’assurdo. Se vogliamo raffigurare il succedersi storico in termini spaziali, la cosa è possibile solo tramite una giustapposizione nello spazio; il medesimo spazio non può venir riempito in due modi diversi. Il nostro tentativo sembra un gioco ozioso; ha un’unica giustificazione: ci mostra quanto siamo lontani dal padroneggiare le peculiarità della vita psichica attraverso una raffigurazione intuitiva. Dobbiamo ancora pronunciarci in merito a un’obiezione.
Ci può venir domandato perché abbiamo scelto proprio il passato di una città per paragonarlo con il passato psichico. L’ipotesi della conservazione di tutto il passato vale per la vita psichica soltanto a condizione che l’organo della psiche sia rimasto intatto, che il suo tessuto non sia stato danneggiato da un trauma o da un’infiammazione. Ma influssi distruttivi paragonabili a queste cause di malattia non mancano nella storia di nessuna città, neppure di città con un passato meno movimentato di quello di Roma, anche se, come Londra, non sono mai state funestate da un nemico.
Lo sviluppo di una città, per pacifico che sia, include demolizioni e sostituzioni di edifici; una città è quindi fin dall’inizio inadatta per un tale confronto con un organismo psichico. Accettiamo pure questa obiezione.
Nella psiche il passato è conservato non distrutto
Rinunciando a un vivace effetto di contrasto, volgiamoci a un oggetto di confronto più consono, com’è il corpo di un animale o di un essere umano. Ma anche qui troviamo la stessa cosa. Le fasi anteriori dello sviluppo non sono più conservate in nessun senso, si sono dissolte in quelle posteriori, cui hanno fornito il materiale.
L’embrione non è individuabile nell’adulto, la ghiandola del timo posseduta dal bambino dopo la pubertà viene sostituita da tessuto connettivo, ma, di per sé, non esiste più; nelle ossa lunghe dell’uomo maturo posso certo tracciare il contorno dell’osso del bambino, ma, come tale, questo è scomparso: si è allungato e ispessito fino a raggiungere la sua forma definitiva.
Resta quindi assodato che soltanto nello psichico è possibile tale conservazione di tutti gli stadi anteriori accanto alla strutturazione finale, e che non siamo in grado di raffigurare questo fenomeno in termini visivi. Forse portiamo questa ipotesi troppo innanzi. Forse dovremmo accontentarci di asserire che nella vita psichica il passato può essere conservato e non necessariamente va distrutto.
È pur possibile che — di norma o eccezionalmente — anche nell’ambito psichico qualcosa di ciò che è antico venga cancellato o assorbito al punto da non poter più con alcun mezzo essere restaurato o richiamato in vita, o che, in generale, la conservazione dipenda da certe condizioni favorevoli. È possibile, ma non ne sappiamo nulla. Possiamo soltanto ribadire che nella vita psichica la conservazione del passato è regola più che sorprendente eccezione.
Tratto da: Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino, 1971.