L’animalismo di Voltaire

Dialogo del cappone e della pollastra (Dialogue du chapon et de la poularde)

Mario Mancini
13 min readFeb 21, 2022

Vai agli altri articoli della serie “Grandi pensatori”

I riferimenti alla questione animale e al vegetarismo si presentano nell’opera di Voltaire in un fase piuttosto avanzata della sua vita. Il pensatore parigino si appresta ai 70 anni.

Incontriamo annotazioni breve e sparse in varie opere, ma indubitabilmente esplicite nel collocare Voltaire tra i pensatori moderni che hanno sollevato la questione animalista in modo importante.

Nel Trattato sulla tolleranza (1763) ci sono espliciti riferimenti al tema della dolore degli animali e alle sofferenze inflitte dagli uomini a questi esseri, verso i quali Voltaire ha le parole di compassione trascritte nella copertina del post.

La questione della crudeltà verso gli animali e del vegetarismo è affrontata da Voltaire in modo frammentario anche in altre opere come gli Elementi della filosofia di Newton, il Saggio sui costumi (nel capitolo sull’India), Zadig, il Dizionario filosofico (alla voce “bestie”) e ne La principessa di Babilonia.

Indubbiamente il testo più decisamente animalista è scritto nello stesso anno del Trattato, il 1763, in forma dialogica. È il Dialogue du Chapon et de la Poularde (Dialogo del cappone e della pollastra).

Ve lo offriamo in traduzione italiana e nella versione francese originale.

Buona lettura! Evitate di nutrirvi di polli! Qui saprete che cosa pensano della loro triste e ingiusta sorte.

Dialogo del cappone e della pollastra

Il cappone — Oh, mio Dio! Gallina mia, sei proprio triste, che cos’hai?

La pollastra — Mio caro amico, chiedimi piuttosto cosa non ho più. Una maledetta serva m’ha preso sulle sue ginocchia, m’ha ficcato un lungo ago nel culo, ha afferrato il mio utero, l’ha arrotolato intorno all’ago, l’ha strappato e dato a mangiare al suo gatto. Ed eccomi inabile a ricevere i favori del cantore del giorno e a deporre.

Il cappone — Ahimè! Bella mia, io ho perduto più di te; m’hanno fatto un’operazione doppiamente crudele: né tu né io avremo più consolazione in questo mondo; loro ti hanno fatto pollastra, e me cappone. La sola idea che addolcisce il mio deplorevole stato è che ho sentito in questi giorni trascorsi, vicino al mio pollaio, parlare due abati italiani ai quali è stato fatto lo stesso oltraggio affinché potessero cantare davanti al papa con una voce più chiara. Dicevano che gli uomini avevano cominciato a circoncidere i loro simili, e che hanno finito per castrarli: maledicevano il destino e il genere umano.

La pollastra — Che cosa? Allora è perché avessimo una voce più chiara che ci hanno privato della nostra parte più bella?

Il cappone — Ahimè! Mia povera pollastra, è per farci ingrassare e rendere la nostra carne più delicata.

La pollastra — Oh bella! Forse saremo più grassi, lo saranno anche loro?

Il cappone — Sì, perché loro hanno intenzione di mangiarci.

La pollastra — Mangiarci! Ah, che mostri!

Il cappone — È la loro usanza; ci mettono in prigione per qualche giorno, ci fanno ingoiare un parone di cui hanno il segreto, ci cavano gli occhi per non farci avere alcuna distrazione; alla fine, una volta giunto il giorno della festa, ci strappano le penne, ci tagliano la gola, e ci fanno arrosto. Ci portano davanti a loro in un grande piatto d’argento; ognuno dice di noi quello che pensa; si fa la nostra orazione funebre: uno dice che abbiamo il sapor di nocciola; l’altro vanta la nostra carne succulenta; si lodano le nostre cosce, le nostre ali, il nostro codrione; ed ecco finita per sempre la nostra storia in questo mondo.

La pollastra — Che abominevoli furfanti! Mi viene quasi da svenire. Cosa? Mi caveranno gli occhi! Mi taglieranno il collo! Sarò arrostita e mangiata! Questi scellerati non hanno proprio alcun rimorso?

Il cappone — No, amica mia; i due abati di cui t’ho parlato dicevano che gli uomini non hanno mai rimorso delle cose che hanno l’abitudine di fare.

La pollastra — Che genia detestabile! Scommetto che mentre ci divorano si mettono anche a ridere e a raccontare barzellette come se nulla fosse successo.

Il cappone — L’hai indovinato; ma sappi per tua consolazione (se ce n’è una) che questi animali, che sono bipedi come noi, e che sono molto al di sotto di noi, poiché non hanno penne, si sono comportati spesso così con i loro simili. Ho sentito dire dai due abati che gli imperatori cristiani e greci non mancavano mai di cavare gli occhi ai loro cugini e ai loro fratelli; che anche nel paese dove ci troviamo, c’è stato un certo Débonnaire che ha fatto strappare gli occhi al suo nipote Bernard. Ma per quanto riguarda l’arrostire gli uomini, niente è stato più comune in questa specie. I miei due abati dicevano che ne sono stati arrostiti più di ventimila per certe opinioni che sarebbe difficile da spiegare per un cappone, e che non mi importano affatto.

La pollastra — A quanto pare li arrostivano per mangiarli.

Il cappone — Non oserei assicurarlo; ma mi ricordo bene d’aver sentito chiaramente che ci sono dei paesi, e tra gli altri quello degli ebrei, dove gli uomini qualche volta si sono mangiati gli un con gli altri

La pollastra — Passi pure questo. È giusto che una specie così perversa si divori da sola, e che la terra sia ripulita da questa razza. Ma io che sono così mite, che non ho mai fatto del male, che ho anche nutrito questi mostri dandogli le mie uova, essere castrata, accecata, decapitata e arrostita! Ci trattano così nel resto del mondo?

Il cappone — I due abati dicono di no. Assicurano che in un paese chiamato India, molto più grande, più bello, più fertile del nostro, gli uomini possiedono una legge santa che da migliaia di secoli gli proibisce di mangiarci; che anche un tale di nome Pitagora, dopo avere viaggiato presso questi popoli giusti, aveva portato in Europa questa legge umana, che fu seguita da tutti i suoi discepoli. Questi buoni abati leggevano Porfirio il Pitagorico, che ha scritto un bel libro contro gli spiedi.
Oh, che grand’uomo! Che uomo divino era questo Porfirio! Con quale saggezza, forza, tenero rispetto per la Divinità egli prova che noi siamo alleati e parenti degli uomini; che Dio ci ha dato gli stessi organi, gli stessi sentimenti, la stessa memoria, lo stesso ignoto germe dell’intelligenza che si sviluppa in noi fino a un determinato punto attraverso leggi eterne, e che né negli uomini né noi oltrepasseremo mai! In effetti, mia cara pollastra, non sarebbe un oltraggio alla Divinità dire che abbiamo dei sensi per non sentire affatto, un cervello per non pensare affatto? Questa degna immaginazione, a detta loro, di un pazzo di nome Descartes, non sarebbe il colmo del ridicolo e la vano pretesto della barbarie?
Nemmeno i più grandi filosofi dell’antichità ci hanno mai messo allo spiedo. S’occupavano di provare ad apprendere il nostro linguaggio e di scoprire le nostre proprietà così superiori a quelle della specie umana. Noi eravamo al sicuro con loro come nell’età dell’oro. I saggi non uccidono affatto gli animali, dice Porfirio; sono solo i barbari e i preti che li uccidono e li mangiano. Egli scrisse questo meraviglioso libro per convertire uno dei suoi discepoli che si era fatto cristiano per golosità.

La pollastra — Bene! Hanno innalzato altari a questo grand’uomo che insegnava la virtù al genere umano, e che salvava la vita al genere animale?

Il cappone — No, fu esecrato dai cristiani che ci mangiano e che detestano ancora oggi la sua memoria; dicono che era empio, e che le sue virtù erano false, dato che era pagano.

La pollastra — Ma che orribili pregiudizi ha la golosità! Ho sentito l’altro giorno, in quella specie di fienile vicino al nostro pollaio, un uomo che parlava da solo davanti ad altri uomini che non parlavano affatto; esclamò che Dio aveva fatto un patto con noi e con questi altri animali chiamati uomini; che Dio aveva proibito agli uomini di nutrirsi del nostro sangue e della nostra carne. Come possono affiancare a questa difesa positiva il permesso di divorare le nostre membra bollite o arrosto? È impossibile, quando ci decapitano, che resti molto sangue nelle nostre vene; quel sangue si mescola necessariamente alla nostra carne; quindi disobbediscono ovviamente a Dio mangiandoci. Inoltre, non è un sacrilegio uccidere e divorare persone con cui Dio ha fatto un patto? Sarebbe uno strano accordo quello in cui la sola clausola sarebbe di consegnarci alla morte. O il nostro creatore non ha fatto alcun patto con noi, o è un crimine ucciderci e farci cuocere, non c’è una via di mezzo.

Il cappone — Questa non è la sola contraddizione che regna in quei mostri, i nostri eterni nemici. È da tanto tempo che li si accusa di non essere d’accordo in niente. Fanno delle leggi solo per violarle; e, quel che è peggio, è che le violano coscientemente. Si sono inventati cento sotterfugi, cento sofismi per giustificare le loro trasgressioni.
Si servono del pensiero solo per autorizzare le loro ingiustizie, e usano le parole solo per mascherare i propri pensieri. Figurati che, nel piccolo paese dove viviamo, è proibito mangiarci due giorni della settimana: sebbene trovino il mezzo per eludere la legge; d’altronde questa legge, che ti sembrerebbe favorevole, è assai barbara; la legge ordina che in quei giorni si mangino gli abitanti delle acque che andranno a cercare come vittime in fondo al mare o al fiume. Divorano delle creature di cui una sola spesso costa più del valore di cento capponi: lo chiamano digiunare, fare penitenza.
Infine, non credo sia possibile immaginare una specie più ridicola e insieme più abominevole, più stravagante e più sanguinaria.

La pollastra — Eh, mio Dio! Quel che vedo arrivare non è quel brutto sguattero di cucina con il suo grande coltello?

Il cappone — È fatta, amica mia, la nostra ultima ora è giunta; raccomandiamo la nostra anima a Dio.

La pollastra — Che possa dare allo scellerato che mi mangerà una indigestione che lo faccia crepare! Ma i piccoli si vendicano dei potenti con desideri vani, e i potenti se la ridono.

Il cappone — Ahi! mi prendono per il collo. Perdoniamo i nostri nemici.

La pollastra — Non posso; mi stringe, mi prende. Addio, mio caro cappone.

Il cappone — Addio, per tutta l’eternità, mia cara pollastra.

Dialogue du chapon et de la poularde

Le chapon — Eh, mon Dieu! ma poule, te voilà bien triste, qu’as-tu?

La poularde — Mon cher ami, demande-moi plutôt ce que je n’ai plus. Une maudite servante m’a prise sur ses genoux, m’a plongé une longue aiguille dans le cul, a saisi ma matrice, l’a roulée autour de l’aiguille, l’a arrachée et l’a donnée à manger à son chat. Me voilà incapable de recevoir les faveurs du chantre du jour, et de pondre.

Le chapon — Hélas! ma bonne, j’ai perdu plus que vous; ils m’ont fait une opération doublement cruelle: ni vous ni moi n’aurons plus de consolation dans ce monde; ils vous ont fait poularde, et moi chapon. La seule idée qui adoucit mon état déplorable, c’est que j’entendis ces jours passés, près de mon poulailler, raisonner deux abbés italiens à qui on avait fait le même outrage afin qu’ils pussent chanter devant le pape avec une voix plus claire. Ils disaient que les hommes avaient commencé par circoncire leurs semblables, et qu’ils finissaient par les châtrer: ils maudissaient la destinée et le genre humain.

La poularde — Quoi! c’est donc pour que nous ayons une voix plus claire qu’on nous a privés de la plus belle partie de nous-mêmes?

Le chapon — Hélas! ma pauvre poularde, C’est pour nous engraisser, et pour nous rendre la chair plus délicate.

La poularde — Eh bien! quand nous serons plus gras, le seront-ils davantage?

Le chapon — Oui, car ils prétendent nous manger.

La poularde — Nous manger! ah, les monstres!

Le chapon — C’est leur coutume; ils nous mettent en prison pendant quelques jours, nous font avaler une pâtée dont ils ont le secret, nous crèvent les yeux pour que nous n’ayons point de distraction; enfin, le jour de la fête étant venu, ils nous arrachent les plumes, nous coupent la gorge, et nous font rôtir. On nous apporte devant eux dans une large pièce d’argent; chacun dit de nous ce qu’il pense; on fait notre oraison funèbre: l’un dit que nous sentons la noisette; l’autre vante notre chair succulente; on loue nos cuisses, nos bras, notre croupion; et voilà notre histoire dans ce bas monde finie pour jamais.

La poularde — Quels abominables coquins! je suis prête à m’évanouir. Quoi! on m’arrachera les yeux! on me coupera le cou! je serai rôtie et mangée! Ces scélérats n’ont donc point de remords?

Le chapon — Non, m’amie; les deux abbés dont je vous ai parlé disaient que les hommes n’ont jamais de remords des choses qu’ils sont dans l’usage de faire.

La poularde — La détestable engeance! Je parie qu’en nous dévorant ils se mettent encore à rire et à faire des contes plaisants, comme si de rien n’était.

Le chapon — Vous l’avez deviné; mais sachez pour votre consolation (si c’en est une) que ces animaux, qui sont bipèdes comme nous, et qui sont fort au-dessous de nous, puisqu’ils n’ont point de plumes, en ont usé ainsi fort souvent avec leurs semblables. J’ai entendu dire à mes deux abbés que tous les empereurs chrétiens et grecs ne manquaient jamais de crever les deux yeux à leurs cousins et à leurs frères; que même, dans le pays où nous sommes, il y avait eu un nommé Débonnaire qui fit arracher les yeux à son neveu Bernard. Mais pour ce qui est de rôtir des hommes, rien n’a été plus commun parmi cette espèce. Mes deux abbés disaient qu’on en avait rôti plus de vingt mille pour de certaines opinions qu’il serait difficile à un chapon d’expliquer, et qui ne m’importent guère.

La poularde — C’était apparemment pour les manger qu’on les rôtissait.

Le chapon — Je n’oserais pas l’assurer; mais je me souviens bien d’avoir entendu clairement qu’il y a bien des pays, et entre autres celui des Juifs, où les hommes se sont quelquefois mangés les uns les autres.

La poularde — Passe pour cela. Il est juste qu’une espèce si perverse se dévore elle-même, et que la terre soit purgée de cette race. Mais moi qui suis paisible, moi qui n’ai jamais fait de mal, moi qui ai même nourri ces monstres en leur donnant mes oeufs, être châtrée, aveuglée, décollée, et rôtie! Nous traite-t-on ainsi dans le reste du monde?

Le chapon — Les deux abbés disent que non. Ils assurent que dans un pays nommé l’Inde, beaucoup plus grand, plus beau, plus fertile que le nôtre, les hommes ont une loi sainte qui depuis des milliers de siècles leur défend de nous manger; que même un nommé Pythagore, ayant voyagé chez ces peuples justes, avait rapporté en Europe cette loi humaine, qui fut suivie par tous ses disciples. Ces bons abbés lisaient Porphyre le Pythagoricien, qui a écrit un beau livre contre les broches.
O le grand homme! le divin homme que ce Porphyre! Avec quelle sagesse, quelle force, quel respect tendre pour la Divinité il prouve que nous sommes les alliés et les parents des hommes; que Dieu nous donna les mêmes organes, les mêmes sentiments, la même mémoire, le même germe inconnu d’entendement qui se développe dans nous jusqu’au point déterminé par les lois éternelles, et que ni les hommes ni nous ne passons jamais! En effet, ma chère poularde, ne serait-ce pas un outrage à la Divinité de dire que nous avons des sens pour ne point sentir, une cervelle pour ne point penser? Cette imagination digne, à ce qu’ils disaient, d’un fou nommé Descartes, ne serait-elle pas le comble du ridicule et la vaine excuse de la barbarie?
Aussi les plus grands philosophes de l’antiquité ne nous mettaient jamais à la broche. Ils s’occupaient à tâcher d’apprendre notre langage, et de découvrir nos propriétés si supérieures à celles de l’espèce humaine. Nous étions en sûreté avec eux comme dans l’âge d’or. Les sages ne tuent point les animaux, dit Porphyre; il n’y a que les barbares et les prêtres qui les tuent et les mangent. Il fit cet admirable livre pour convertir un de ses disciples qui s’était fait chrétien par gourmandise.

La poularde — Eh bien! dressa-t-on des autels à ce grand homme qui enseignait la vertu au genre humain, et qui sauvait la vie au genre animal?

Le chapon — Non, il fut en horreur aux chrétiens qui nous mangent, et qui détestent encore aujourd’hui sa mémoire; ils disent qu’il était impie, et que ses vertus étaient fausses, attendu qu’il était païen.

La poularde — Que la gourmandise a d’affreux préjugés! J’entendais l’autre jour, dans cette espèce de grange qui est près de notre poulailler, un homme qui parlait seul devant d’autres hommes qui ne parlaient point; Il s’écriait que « Dieu avait fait un pacte avec nous et avec ces autres animaux appelés hommes; que Dieu leur avait défendu de se nourrir de notre sang et de notre chair ». Comment peuvent-ils ajouter à cette défense positive la permission de dévorer nos membres bouillis ou rôtis? Il est impossible, quand ils nous ont coupé le cou, qu’il ne reste beaucoup de sang dans nos veines; ce sang se mêle nécessairement à notre chair; ils désobéissent donc visiblement à Dieu en nous mangeant. De plus, n’est-ce pas un sacrilège de tuer et de dévorer des gens avec qui Dieu a fait un pacte? Ce serait un étrange traité que celui dont la seule clause serait de nous livrer à la mort. Ou notre créateur n’a point fait de pacte avec nous, ou c’est un crime de nous tuer et de nous faire cuire il n’y a pas de milieu.

Le chapon — Ce n’est pas la seule contradiction qui règne chez ces monstres, nos éternels ennemis. Il y a longtemps qu’on leur reproche qu’ils ne sont d’accord en rien. Ils ne font des lois que pour les violer; et, ce qu’il y a de pis, c’est qu’ils les violent en conscience. Ils ont inventé cent subterfuges, cent sophismes pour justifier leurs transgressions. Ils ne se servent de la pensée que pour autoriser leurs injustices, et n’emploient les paroles que pour déguiser leurs pensées. Figure-toi que, dans le petit pays où nous vivons, il est défendu de nous manger deux jours de la semaine: ils trouvent bien moyen d’éluder la loi; d’ailleurs cette loi, qui te paraît favorable, est très barbare; elle ordonne que ces jours-là on mangera les habitants des eaux ils vont chercher des victimes au fond des mers et des rivières. Ils dévorent des créatures dont une seule coûte souvent plus de la valeur de cent chapons: ils appellent cela jeûner, se mortifier. Enfin je ne crois pas qu’il soit possible d’imaginer une espèce plus ridicule à la fois et plus abominable, plus extravagante et plus sanguinaire.

La poularde — Eh, mon Dieu! ne vois-je pas venir ce vilain marmiton de cuisine avec son grand couteau?

Le chapon — C’en est fait, m’amie, notre dernière heure est venue; recommandons notre âme à Dieu.

La poularde — Que ne puis-je donner au scélérat qui me mangera une indigestion qui le fasse crever! Mais les petits se vengent des puissants par de vains souhaits, et les puissants s’en moquent.

Le chapon — Aïe! on me prend par le cou. Pardonnons à nos ennemis.

La poularde — Je ne puis; on me serre, on m’emporte. Adieu, mon cher chapon.

Le chapon — Adieu, pour toute l’éternité, ma chère poularde.

--

--

Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

No responses yet