La Vienna di Freud
Non è un caso che la psicoanalisi sia nata a Vienna
di Bruno Bettelheim
Non è un caso che la psicoanalisi sia nata a Vienna e a Vienna sia giunta alla maggiore età. Al tempo di Freud, il clima culturale di Vienna era tale da favorire, in un modo che non trova riscontro nel resto del mondo occidentale, una sorta di fascinazione nei confronti sia della malattia mentale sia delle problematiche sessuali, una fascinazione che investiva tutti gli strati della società, fino alla corte imperiale, che era il centro propulsore della vita sociale viennese.
Le origini di questo caratteristico ed esclusivo interesse di tutta una cultura possono essere fatte risalire alla storia stessa della città, ma in special modo alle attività e agli atteggiamenti prevalenti presso le élite culturali viennesi negli anni che precedono di poco e che accompagnano la nascita delle rivoluzionarie teorie di Freud sulla nostra vita emotiva.
Freud, infatti, non fu l’unico innovatore che a Vienna operò un cambiamento delle nostre idee sulla sessualità in genere e sulle perversioni sessuali in particolare, nonché sul trattamento della follia.
Per esempio, fu il barone Richard von Krafft-Ebing, professore di psichiatria all’Università di Vienna, a dare alla paranoia questo nome e a introdurla nel linguaggio comune. Già diversi anni prima che Freud intraprendesse i suoi studi sulla sessualità, le vivaci descrizioni cliniche della patologia sessuale da parte di Krafft-Ebing misero in luce le molte forme che la pulsione sessuale può assumere. La sua opera più importante, Psychopathia sexualis, pubblicata nel 1886, rivoluzionò le idee correnti sulle perversioni sessuali, un tema fino a quel momento totalmente ignorato negli ambienti scientifici, e, con grande anticipo su tutte le altre nazioni, portò l’Austria alla depenalizzazione di tali comportamenti sessuali.
Krafft-Ebing fu l’antesignano di un’era di mutati atteggiamenti nei confronti della sessualità, e preparò in un certo senso il clima culturale che rese possibile il lavoro di Freud.
Oltre alla psicoanalisi, altri metodi moderni per il trattamento dei disturbi mentali furono inventati e messi a punto a opera di medici viennesi. J. Wagner von Jauregg, che succedette a Krafft-Ebing nella direzione della facoltà di psichiatria dell’Università di Vienna e che in tale qualità fu il diretto superiore di Freud negli anni in cui questi vi insegnò, scoperse la terapia della demenza paralitica mediante inoculazione della malaria e gli effetti delle malattie febbrili su quella e altre psicosi; scoperte che gli valsero nel 1927 il premio Nobel per la medicina, il primo a essere assegnato per il lavoro svolto in campo psichiatrico.
La sua opera può a ragione essere considerata il punto d’inizio del trattamento farmacologico delle malattie mentali. Nella medesima direzione, un altro medico viennese, Manfred Sakel, mise a punto nel 1933 il trattamento della schizofrenia mediante shock insulinico. È quanto meno sorprendente che tutti i metodi moderni per il trattamento dei disturbi mentali (psicoanalisi, terapia farmacologica, terapie di shock) vedessero la luce nell’arco di pochi decenni in un’unica e medesima città.
Per comprendere l’unicità della cultura viennese sul finire del diciannovesimo secolo e al principio del ventesimo occorre tenere presente che Vienna era die alte Kaiserstadt, l’antica città imperiale, come veniva chiamata con un certo affetto.
Oggi il nome degli Asburgo non possiede più l’aura e il fascino di cui godette un tempo, ma per molti secoli l’impero asburgico, di cui Vienna era la capitale, fu il più vasto che il mondo avesse mai conosciuto, superiore per estensione all’impero romano, di cui si considerava legittimo erede: quello degli Asburgo era chiamato infatti “Sacro romano impero della nazione tedesca”.
Nel sedicesimo secolo un imperatore asburgico, Carlo V (Carlo I, come re di Spagna), poteva vantarsi (vanto poi ripreso dagli inglesi) che sul suo impero, che si estendeva da un capo all’altro del globo, non tramontasse mai il sole. Alla sua morte, tuttavia, iniziò il graduale ma progressivo declino della potenza asburgica. Durante le guerre napoleoniche l’impero stesso fu vicino a crollare, ma, terminato l’interludio napoleonico, proprio Vienna fu scelta come sede del Congresso del 1814–15, che disegnò la geografia e il futuro dell’Europa.
Da quel momento, i viennesi poterono guardare alla loro città come alla più grande d’Europa, perché di nuovo, grazie soprattutto all’abilità del cancelliere d’Austria, il principe di Metternich, l’imperatore asburgico dominava il continente.
La situazione tuttavia mutò definitivamente con le rivoluzioni del 1848, quando Metternich, ormai vecchio, fu costretto a rassegnare le dimissioni ed ebbe inizio il lungo regno di Francesco Giuseppe (1848–1916). Ma, sia pure in dimensioni ridotte a seguito delle guerre napoleoniche e privato del titolo di “Sacro romano impero”, il regno degli Asburgo continuò a rappresentare la più importante presenza imperiale d’Europa; nei suoi domini rientravano tutta una serie di principati tedeschi (prima della formazione della Germania moderna), tutta l’Europa centrale e gran parte dell’Italia e dell’Europa orientale.
L’impero austro-ungarico era dunque uno stato multinazionale, abitato da numerosi gruppi etnici e linguistici diversi, di cui i più importanti erano i tedeschi, gli italiani, i polacchi, i cechi, gli ungheresi, gli slovacchi, i croati, gli sloveni e i ruteni.
A partire dal 1848, con la marea crescente dei movimenti nazionalistici, le varie etnie che formavano l’impero incominciarono a esigere il diritto di autodeterminazione e di lì a poco la totale indipendenza, minacciando di gettare l’impero, così allora sembrava, nel caos più totale.
Queste forze centrifughe, tanto potenti nell’animo della gente comune, erano però controbilanciate e tenute a freno da un lato dalla presenza dell’esercito imperiale, in cui erano rappresentate tutte le nazionalità, e dall’altro dalla devozione ispirata dalla persona dell’imperatore, che egli si dedicava costantemente a mantenere viva.
Oltre a ciò, c’era la crescente influenza culturale esercitata dalla capitale, Vienna, sui ceti intellettuali di tutto l’impero nonché sul resto dell’Europa, per esempio negli stati tedeschi e nei Balcani. Si potrebbe dire che, nell’Europa centrale e orientale, tutte le strade portavano a Vienna; Vienna era non solo la sede dell’impero e delle più importanti istituzioni culturali entro la sua sfera d’influenza, era anche la città di gran lunga più popolosa di questa immensa area geografica.
Anzi, nell’Europa continentale era seconda soltanto a Parigi e costituiva perciò il naturale polo di attrazione per tutti coloro che desideravano lasciare la periferia per trovarsi nel centro degli avvenimenti. +Nel corso del diciannovesimo secolo Vienna continuò ad ampliarsi, offrendo sempre maggiori opportunità culturali e vedendo crescere la sua rinomanza scientifica e la sua importanza economica. E per tutto questo tempo l’imperatore rimase al suo posto, fatto segno, con l’avanzare dell’età, di una devozione crescente.
Per la maggior parte, coloro che in quegli anni contribuirono alla grandezza culturale di Vienna non erano viennesi di nascita ma vi erano arrivati dalle province vicine o distanti dell’impero. Approdavano a Vienna come immigranti, attratti dalla sua vita culturale, o vi tornavano perché là avevano compiuto i loro studi.
Molti vi erano stati portati bambini dai genitori che volevano offrire il meglio ai loro figli. Sigmund Freud fu uno di questi, come pure Theodor Herzl, il fondatore del sionismo. Altri giunsero a Vienna da adulti, come i musicisti Gustav Mahler e Johannes Brahms, il pittore Oskar Kokoschka, l’architetto modernista Josef Hoffmann e il pedagogista Franz Cizek, che fu il primo a riconoscere e a coltivare l’istinto artistico dei bambini.
Una cultura ha il potere di attrarre verso il suo centro uomini di talento, e un esempio della forza di attrazione di Vienna nel nostro secolo è quello del premio Nobel per la letteratura, Elias Canetti. In un volume della sua autobiografia, intitolato II frutto del fuoco, Canetti racconta come giunse a Vienna dai Balcani e fu influenzato dal clima culturale della città. Canetti cita in particolare il critico e scrittore politico Karl Kraus, le cui idee, espresse sulla rivista “Die Fackel” (“La fiaccola”), svolsero un ruolo decisivo nel suo sviluppo personale.
Ma ciò che conferì alla cultura viennese la sua autentica unicità fu quello che potremmo chiamare un capriccio della storia, il fatto che la sua massima fioritura si trovò a coincidere con la disgregazione dell’impero che aveva reso grande Vienna, e del quale essa era ancora la capitale, oltre che la sede del governo, e, fatto ancora più importante, residenza dell’imperatore.
L’imperatore Francesco Giuseppe era non solo il supremo simbolo dell’impero, ma anche, come persona, colui che di fatto lo manteneva unito. Mai le cose erano andate meglio, e, al tempo stesso, mai erano andate peggio: questa strana simultaneità spiega, a mio avviso, come mai la psicoanalisi, che si fonda sulla comprensione dell’ambivalenza, dell’isteria e della nevrosi, nacque a Vienna e non sarebbe potuta nascere altro che a Vienna.
E la psicoanalisi non fu che uno dei grandi sviluppi intellettuali verificatisi a Vienna in un momento storico in cui la diffusa consapevolezza del declino dell’impero induceva le élite culturali viennesi a voltare le spalle a qualunque impegno politico e a disinteressarsi del mondo esterno per rivolgere l’attenzione al mondo interiore.
Il declino politico divenne evidente a tutti a partire dal 1859 (tre soli anni dopo la nascita di Freud), quando l’impero subì il primo di una serie di attentati alla sua preminenza e alla sua immagine di potenza mondiale. In quell’anno l’Austria perdette le sue province più ricche e più evolute: gran parte dell’Italia settentrionale, compresa la Lombardia, con l’importantissima Milano, la Toscana con Firenze, Parma, Modena. Solo Venezia e il Veneto rimanevano austriaci, ma lo sarebbero stati per pochi anni ancora.
Sette anni dopo, nel 1866, in seguito alla guerra con la nascente Prussia, ci fu la disastrosa sconfitta di Königgrätz: furono perduti gli ultimi territori italiani e la Prussia divenne la potenza dominante tra gli stati tedeschi, privando l’Austria dell’egemonia di cui aveva goduto per qualcosa come seicento anni.
Quattro anni più tardi, quando la Prussia sconfisse la Francia nel 1870, la Germania si unificò sotto la guida della Prussia, e Berlino incominciò a prendere il posto di Vienna come punto di riferimento del mondo di lingua tedesca; Berlino, tra l’altro, poteva vantare un giovane imperatore dotato di una presenza più aggressiva e dinamica di quella del sempre più sbiadito Francesco Giuseppe.
Un modo per far fronte a queste perdite, che presagivano la fine, fu il ricorso al meccanismo di difesa della negazione. Era come se gli intellettuali viennesi dicessero: “Finché la situazione è disperata, non è grave.” In questa disposizione di spirito, molto diffusa per anni a Vienna, la realtà esterna perde di importanza, e tutte le energie mentali sono rivolte all’interno: solo alla vita interiore dell’individuo viene dato valore. In un momento in cui la nuova Germania unita (con la sua capitale, Berlino) stava rivolgendo le sue immani energie alla costruzione di un impero, le élite culturali viennesi si concentravano sulla scoperta e la conquista del mondo interiore dell’uomo. Questo ripiegarsi su se stessi era favorito e reso inevitabile da sempre nuove delusioni e frustrazioni.
Da parte delle autorità furono compiuti diversi tentativi per combattere questo senso del declino, senza peraltro raggiungere i risultati auspicati. Per controbilanciare gli effetti della sconfitta militare del 1866, ad esempio, il governo cercò con ogni mezzo di riaffermare l’importanza culturale ed economica di Vienna.
Fu progettata per il 1873 un’Esposizione universale, con l’intento di riproporre la città all’ammirazione del mondo. L’aspettativa della prosperità che sarebbe derivata a Vienna dall’Esposizione produsse un vero e proprio boom edilizio; e molte grandiose costruzioni, sia pubbliche sia private, sorsero ai due lati della nuova Ringstrasse, il viale che circondava il centro storico della città e che avrebbe dovuto mettere in ombra i famosi boulevard parigini voluti da Haussmann, perché gli edifici della Ringstrasse sarebbero stati ancora più splendidi di quelli che adornavano i viali di Parigi.
Storicamente, Vienna era una città barocca; erano stati le grandiose chiese e i palazzi barocchi a conferirle il suo carattere. Ora gli edifici moderni della Ringstrasse davano a Vienna il carattere duplice e contraddittorio di una vecchia capitale imperiale che, al tempo stesso, era anche un moderno centro culturale. Era come se la città stessa non riuscisse a decidere da che parte stare: con il glorioso (seppure declinante) passato, o con un nuovo e moderno futuro.
Le grandi aspettative circa l’Esposizione universale condussero anche a incontrollate speculazioni in Borsa. Nove giorni dopo l’inaugurazione dell’Esposizione, il mercato azionario crollò. Quel “venerdì nero”, a Vienna centoventicinque banche fallirono e con esse molte altre imprese, con contraccolpi sempre più estesi, che provocarono alla fine una profonda depressione. La crisi economica di Vienna si diffuse in tutta Europa, e i suoi effetti si fecero sentire persino negli Stati Uniti.
Come si è accennato, le élite culturali viennesi negavano l’importanza degli avvenimenti che avevano luogo intorno a loro, e rivolgevano l’attenzione all’interno, agli aspetti fino allora nascosti e misconosciuti dell’uomo. Ma questo modo di risolvere le incalzanti contraddizioni della vita viennese era riservato a pochi.
La stragrande maggioranza della popolazione dovette cercare un’altra via per sfuggire al disagio che attanagliava tutti i viennesi in quel momento storico in cui il mondo sicuro e tradizionale che essi stessi e i loro avi avevano conosciuto stava sgretolandosi. E la soluzione fu: divertirsi, divertirsi spensieratamente.
Certo, l’Esposizione universale del 1873 aveva fallito i suoi scopi, ma con la prima dell’opera Il pipistrello, nel 1874, ecco che Vienna era nuovamente la dominatrice del mondo: del mondo dell’operetta. Un tempo centro della cultura alta, dell’opera lirica e del teatro serio, il più grande in lingua tedesca, Vienna ascese ora al primo posto per l’operetta e, soprattutto, per la musica da ballo.
In poche brevi stagioni, il valzer viennese aveva conquistato il mondo; e accanto ai valzer cerano le operette di Strauss, Lehàr, Suppé e altri. Riguardando a quegli anni, parrebbe che i viennesi dell’epoca non facessero altro che ballare: balli in maschera, il carnevale (il Fasching, a cui partecipava quasi tutta Vienna), splendidi saloni da ballo aperti ovunque nella città.
Certe occasioni, come i grandi balli di corte, erano riservate alle classi superiori; ma più ancora se ne offrivano alle classi inferiori, e ve ne erano molte altre in cui le classi si mescolavano liberamente. Inoltre, Vienna era famosa per le parate in costume, con carri e sfilate, che tutti potevano ammirare, organizzate per celebrare festività di corte, matrimoni reali e i compleanni dell’imperatore.
Erano occasioni che davano modo agli artisti di mettere in mostra il loro talento e la loro fantasia, e alla popolazione di divertirsi. Così, tra incessanti festeggiamenti, al declino dell’impero veniva negata qualunque importanza.
Nella sfera della politica e degli avvenimenti internazionali, non mancavano calamità e disastri che fecero tremare l’impero fino alle fondamenta, affrettandone la disgregazione. Non solo: altrettanto terribili erano le sciagure che colpivano il cuore stesso della città: la corte, la famiglia imperiale, che era il vero centro della vita cittadina, la sua ragion d’essere.
L’imperatore Francesco Giuseppe aveva sposato per amore una giovanissima e bellissima principessa bavarese, Elisabetta, e il suo amore e la sua devozione per lei non vennero mai meno. Ma, nonostante i suoi sforzi per compiacerla e renderla felice, Elisabetta si estraniò sempre più dal consorte e dalla corte, tanto che alla fine non compariva quasi più a Vienna e al suo fianco.
Adesso possiamo riconoscere come sintomi isterici, narcisistici e anoressici certi comportamenti dell’imperatrice. Allora, tuttavia, essa era giustamente acclamata come la più bella donna d’Europa. Per conservare la sua straordinaria bellezza, a cui doveva l’ascesa al trono, l’imperatrice seguiva le più drastiche diete, come bere sei bicchieri di latte e nient’altro per giorni di seguito. Inoltre, quando, come d’abitudine, faceva escursioni a piedi, marciava a passo così sostenuto da lasciare indietro, esausti, i membri del seguito, mentre lei proseguiva imperterrita per sette, otto, a volte dieci ore.
Un altro tratto comune a molte donne isteriche (lo troviamo, per esempio, nella protagonista del più tardo racconto di Schnitzler, Signorina Else) era l’abitudine, presa da ultimo dall’imperatrice (che, pure, quando viaggiava portava con sé abbastanza bauli da riempire parecchi vagoni ferroviari, in modo da avere sempre a disposizione una vasta scelta dei più costosi e splendidi abiti), di uscire con indosso, sul corpo nudo, solo una veste leggera: niente biancheria e, cosa che soprattutto scandalizzava le dame del seguito, niente calze. In compenso, per proteggere le bellissime mani, spesso indossava anche tre paia di guanti.
Ma uno dei sintomi forse più chiari della sua nevrosi era l’incessante viaggiare senza meta da un capo all’altro d’Europa. Come ebbe a dire lo scrittore francese Maurice Barrés: “I suoi viaggi non avevano la tranquilla e preordinata regolarità degli uccelli migratori; assomigliavano piuttosto al futile svolazzare di uno spirito senza radici, che batte le ali senza concedersi né riposo né meta.”
Nel 1871, quando l’imperatore le scrisse (perché, come al solito, non era a Vienna) per chiederle quale regalo le sarebbe piaciuto ricevere per il suo onomastico, l’imperatrice rispose, in tono evidentemente di amara autoironia: “Ciò che veramente mi piacerebbe è un bel manicomio, completo di tutti gli accessori.”
La follia esercitava un particolare fascino su Elisabetta forse anche perché discendeva dai Wittelsbach, signori della Baviera, nella cui famiglia essa non era rara. L’imperatrice si recava spesso a visitare istituti per malati di mente a Vienna, a Monaco, a Londra. Le piaceva esaltare la morte e la follia, come quando diceva che “l’idea di morte è purificatrice”, o che “la follia è più vera della vita”; tutte prove di una disposizione alla melanconia già radicata molto tempo prima che accadesse la tragedia di Mayerling, quando diventò ancora più acuta. Alla fine, nel 1898, durante uno dei suo viaggi a Ginevra, fu assassinata da un anarchico: una morte non meno insensata della sua vita.
Nella stessa corte imperiale, che dominava la vita di Vienna, si potevano trovare, dunque, l’interesse per la follia ed esempi degli effetti devastanti e distruttivi della nevrosi e dell’isteria; e questo molto prima che Freud decidesse di dedicare la vita all’esplorazione delle forze, fino allora sconosciute, che si celano nell’interiorità dell’uomo e che di quei disturbi sono la causa.
Nel 1889, Francesco Giuseppe era sul trono da oltre quarant’anni; la continuità dipendeva dal suo unico figlio ed erede, Rodolfo. L’arciduca Rodolfo aveva sempre condotto un’esistenza solitaria; la madre era distante e perlopiù irraggiungibile; col padre non sentiva affinità, e con la moglie, una principessa belga, non c’era amore.
A trent’anni aveva avuto molte storie amorose, ma tutte senza importanza. Sentendosi depresso e solo e completamente inutile nonostante la giovane età, strinse e portò a compimento un patto suicida con una delle sue amanti, la baronessina Vetsera: Rodolfo la uccise e poi si suicidò nel suo padiglione di caccia di Mayerling, nel cuore dei boschi viennesi, a quindici miglia dalla città.
I conflitti edipici tra un re e i suoi figli non erano cosa nuova nella storia dell’umanità, e tantomeno nella casa degli Asburgo. Il conflitto tra il re Filippo II di Spagna e Don Carlos non solo determinò il corso della storia, ma ispirò uno dei più grandi drammi della letteratura mondiale e poi una grande opera lirica.
Ma il gesto dell’arciduca Rodolfo sembra presentare caratteristiche uniche: qui è l’erede di un grande impero che commette un omicidio e poi il suicidio subito dopo aver fatto l’amore con la donna prescelta, la quale, chiaramente, aveva anch’essa scelto insieme l’amore sessuale e la morte.
Il clima psicologico di Vienna durante il declino dell’impero e i sentimenti morbosi che di conseguenza pervadevano la città in quegli anni, costituivano lo sfondo più adatto, addirittura necessario, per un esempio così estremo di intenso conflitto edipico con il padre: nevrosi, sesso, omicidio, suicidio. Quale più sconvolgente e vivida dimostrazione delle tendenze distruttive insite nell’uomo, che Freud avrebbe in anni successivi scandagliato e descritto?
Quell’episodio rifletteva, inoltre, l’intimo rapporto esistente tra pulsione sessuale e pulsione di morte; un nesso che Freud si sforzò di chiarire nelle sue esplorazioni degli aspetti più oscuri della psiche umana.
Per parte sua, l’imperatore cercava di far fronte a queste tragedie personali e familiari con la dedizione nevrotica al lavoro; rimaneva immerso nei suoi documenti burocratici per qualcosa come sedici ore al giorno, come se fosse un semplice funzionario subalterno dell’impero, e non il suo capo supremo.
Altrettanto ossessivamente esigeva il rispetto dell’etichetta di corte, dove aveva introdotto il famoso (o meglio famigerato, perché negava qualunque posto alle emozioni e alla spontaneità nei rapporti umani) cerimoniale di corte spagnolo, che non consentiva il benché minimo contatto personale.
È interessante notare, tuttavia, come, quando il distacco dell’imperatrice divenne definitivo e ancor più dopo la sua morte, egli cercasse consolazione nella compagnia di una giovane e bella attrice, che era stata la sua lettrice. In seguito al suicidio di Rodolfo divenne erede al trono l’arciduca Francesco Ferdinando, con il quale l’imperatore si trovava in profondo contrasto.
Si dice che, quando Ferdinando fu a sua volta assassinato nel 1914 (fatto che portò alla Prima guerra mondiale), Francesco Giuseppe esprimesse sollievo, dicendo che quell’assassinio correggeva una situazione che aveva molto bisogno di essere corretta.
Durante quegli anni di lenta morte dell’impero, dunque, sessualità e distruzione coesistevano in sinistro accostamento in molti aspetti della cultura viennese. L’idea della morte era presente in modo ossessivo anche nella mente di importanti uomini politici, come lascia intuire la dichiarazione fatta dal ministro degli Esteri ungherese intorno al 1912: “Dobbiamo ammazzarci prima che lo facciano gli altri.”
L’interconnessione tra sesso e morte costituì il filo conduttore di gran parte dell’arte e della letteratura viennesi, e infine della psicoanalisi. Essa permeava l’opera di molti protagonisti della cultura, come il giovane e brillante filosofo Otto Weininger, che si suicidò nel 1903, all’età di ventitré anni, nel luogo dove era morto Beethoven. Il suo libro, Sesso e carattere, con la sua visione profondamente pessimistica della vita sessuale, esercitò un’enorme influenza su tutti gli intellettuali di Vienna.
Sigmund Freud stesso, già negli anni giovanili, fece una scelta che sembrava presagire il riconoscimento dell’importanza della pulsione di morte reso poi esplicito dal suo pensiero maturo.
Nel dicembre del 1881, un incendio aveva distrutto il Ring Theater, mietendo un grande numero di vittime: un’altra tragedia che lasciò molto scossa la città. L’imperatore, cercando come sempre di fare buon viso alle sventure, decretò che sul luogo del teatro distrutto sorgesse un nuovo edificio residenziale e commerciale, che si sarebbe chiamato Sühnhaus (“Casa della Riparazione”).
L’opera sarebbe stata affidata all’architetto considerato allora il più grande di Vienna, F. V. Schmidt; parte dei proventi degli affitti, che data l’ottima posizione dell’edificio sulla Ringstrasse sarebbero stati molto elevati, era destinata al mantenimento dei bambini resi orfani dall’incendio.
All’inizio, tuttavia, fu difficile trovare da affittare gli splendidi appartamenti della Sühnhaus, perché la gente era restia a trasferirsi in un posto dove tante persone avevano perduto la vita.
Eppure fu proprio in questa “Casa della Riparazione” che Freud, benché l’affitto superasse di gran lunga le sue possibilità, andò ad abitare appena sposato, e lì iniziò la sua pratica. Altro dato ancora più significativo, a Freud non venne in mente che i suoi pazienti, persone affette da disturbi nervosi, potessero essere restii a recarsi, per farsi curare, in un luogo così carico di associazioni luttuose.
Per motivi a noi ignoti, Freud non solo non dava peso a queste associazioni, ma evidentemente le aveva cercate. Forse già allora si andava formando nel suo inconscio l’intuizione della morbosità delle nevrosi, inducendolo a scegliere come luogo dove vivere e lavorare proprio quell’edificio.
I Freud furono anzi tra i primissimi locatari della Sühnhaus, tant’è vero che la loro prima figlia fu anche il primo bambino a nascere in quella casa. Per l’occasione Freud ricevette una lettera in cui l’imperatore si congratulava con lui per il lieto evento, che riportava la vita in un luogo dove tante vite erano state distrutte.
Quella lettera è l’unico collegamento diretto tra Freud e Francesco Giuseppe di cui abbiamo notizia. Ma l’imperatore, e ciò che egli simboleggiava, era ben presente nella mente di Freud. In diverse occasioni egli disse che l’imperatore è un simbolo del padre e del Super-io e che perciò la sua figura svolge un ruolo importante nella coscienza e nell’inconscio di ciascuno di noi.
Gli eventi, tuttavia, avevano ampiamente dimostrato come neppure l’imperatore di Vienna fosse padrone in casa propria; e forse fu questo a suggerire a Freud l’idea che neppure l’Io è padrone in casa sua, una scoperta che egli definisce una grave ferita al nostro narcisismo (come dovette essere per il narcisismo dell’imperatore il sentirsi rifiutato da moglie e figlio).
Probabilmente neppure la dedizione nevrotica al lavoro usata da Francesco Giuseppe come difesa contro i molteplici colpi inferti alla sua autostima, sfuggì all’attenzione di Freud quando, analizzando le nevrosi, si rese conto che esse rappresentavano una difesa contro la paura della sessualità e contro gli attacchi all’amore di sé.
Nella cultura viennese di quegli anni, che possiamo ben dire unica al mondo, le forze interiori più potenti erano dunque thànatos ed eros, la morte e la sessualità. La formulazione può sembrare semplicistica, ma il gioco reciproco di queste forze è tutt’altro che semplice; al contrario, è estremamente complesso e crea problemi psicologici ramificati e di vasta portata.
La cultura viennese amava esplorare queste complessità psicologiche e dare loro forma nelle sue rappresentazioni. Districare il significato di questi fenomeni altamente complessi, oscuri e nascosti, e fino allora ignoti, così da poterli comprendere e forse addirittura dominare, costituiva l’interesse centrale della cultura viennese e Freud non era il solo a dedicare la vita a dibattere tali ardui ed elusivi problemi.
Un altro viennese, Arthur Schnitzler, che Freud definì il suo alter ego, aveva, come Freud, studiato medicina e, sempre come Freud, esercitato la professione per un periodo relativamente breve. Dopo di che si rivolse anch’egli allo studio della psiche umana, ma non come psichiatra, bensì come scrittore.
Schnitzler fu di gran lunga la figura più eminente del panorama letterario viennese, ruolo che peraltro gli veniva riconosciuto; i suoi romanzi erano letti e ammirati da un vasto pubblico e le sue commedie erano le più rappresentate sulle scene del mondo di lingua tedesca, e specialmente di Vienna, città dove il teatro era sempre stato apprezzato. Non è questa la sede per fare un’analisi particolareggiata della produzione di Schnitzler; almeno due, però, delle sue commedie più importanti meritano di essere citate per mostrare come, anche nella sua mente, sessualità e morte fossero inestricabilmente intrecciate.
In Amoretto, un giovane dell’alta borghesia ha una relazione con una ragazza di bassa estrazione sociale, che lo ama di un amore profondo. Per lui invece la relazione è di scarsa importanza, preso come a cercare di sedurre la moglie di un eminente cittadino.
Neppure di questa è veramente innamorato, ma la difficoltà di sedurla solletica la sua vanità. Il marito della signora si sente in obbligo di sfidare il rivale a duello, e lo uccide. Alla ragazza che lo ha amato così intensamente non viene neppure concesso di seguire il suo funerale, e questo le fa capire quanto poco essa abbia significato per l’amante; in preda alla disperazione si dà la morte.
L’altro lavoro è Das Weite Land (La terra lontana). L’immenso e inesplorato territorio è, naturalmente, la psiche umana. In questa commedia, una signora sposata dell’alta borghesia ha una storia, si presume per la prima volta nella sua vita, con un giovane ufficiale di marina in licenza.
Il marito della donna, benché a sua volta abbia avuto molte relazioni, tutte di scarsa importanza per lui, è tuttavia sconvolto dal tradimento della moglie, in quanto offende il suo orgoglio.
Sfida a duello l’ufficiale, e lo uccide, distruggendo così non solo la vita del rivale, ma anche la propria e quella della moglie, giacché a quel punto le loro esistenze hanno perduto qualunque senso. In entrambi i lavori, come in molte altre opere di Schnitzler, il coinvolgimento sessuale conduce alla distruzione. Questo è anche il tema di uno dei più noti racconti di Schnitzler, Signorina Else, nel quale una ragazza, chiaramente nevrotica e probabilmente isterica, per salvare la reputazione del padre accondiscende alla richiesta di un uomo in età di vederla nuda; e, nel momento stesso in cui gli si presenta davanti, si uccide.
In una conversazione con Martin Buber (un’altra figura straordinaria, la cui personalità si formò in quegli anni a Vienna, dove era nato e dove, in seguito all’incontro con Herzl, decise di dedicare la vita allo studio della tradizione chassidica), Schnitzler disse a proposito dei suoi personaggi, tutti così rappresentativi della Vienna del tempo, che essi sono permeati dal presentimento della fine del loro mondo, e aggiunse che la fine di quel mondo era vicina. E così fu.
Nel suo Canto di amore e morte dell’alfiere Cristoforo Rilke, Rilke proietta nel passato dell’Austria l’idea che la morte segue immediatamente all’esperienza sessuale; ma è chiaro che si trattava di un tema estremamente attuale, come mostrò con tanta evidenza la tragedia del principe ereditario.
Che eros e thànatos siano le più profonde e più potenti pulsioni dell’uomo è un’intuizione a cui anche altri, oltre a Freud e a Schnitzler, erano giunti. Una delle opere maggiori di Brahms, il Requiem tedesco, ha come tema centrale il versetto: “nel pieno della vita siamo circondati dalla morte”.
Mahler scrisse dei Lieder sulla morte di un bambino e una sinfonia sul tema della resurrezione, mentre nella sua composizione più sublime, l’Ottava sinfonia, i modi della liturgia medievale si fondono con richiami all’ultima parte del Faust — all’apoteosi di Faust, salvato nel momento della morte dall’amore di una donna, quasi a suggerire che nella morte soltanto è possibile per l’uomo il vero appagamento.
Nell’indagare le forze nascoste che sottendono alle azioni dell’uomo, Freud partì dallo studio dell’isteria, nel quale era ancora impegnato quando avvenne la tragedia di Mayerling. Fu attraverso quello studio che egli intuì quale forza profonda e pervasiva sia la pulsione sessuale e a quali strane forme di comportamento essa possa dare luogo quando è inibita o rimossa.
Gli Studi sull’isteria, scritti in collaborazione con Breuer, apparvero nel 1895, e furono seguiti l’anno successivo dal saggio di Freud sull’eziologia dell’isteria e da quello sulla sessualità nell’eziologia delle nevrosi. La profonda impressione suscitata da quegli scritti nel mondo letterario di Vienna può essere illustrata dall’ammissione di Hugo von Hoffmannsthal di avere a più riprese consultato i saggi di Freud durante la stesura del libretto per l’opera di Richard Strauss, Electra. Elettra vi viene infatti rappresentata come una donna isterica.
La pubblicazione nel 1900 de L’interpretazione dei sogni segna l’affermazione della psicoanalisi. Il carattere di questa che è la più grande tra le opere di Freud è esplicitamente introspettivo: tutto l’interesse è concentrato sulla sfera più intima dell’uomo, trascurando del tutto il mondo esterno, che impallidisce a confronto con il fascino del mondo interiore.
Che questo chef d’œuvre della Vienna a cavallo del secolo fosse in realtà il prodotto della disperazione per l’impossibilità di mutare il corso del mondo esterno e rappresentasse un tentativo di compensare questa carenza con l’interesse unilaterale per un mondo di tenebra è comprovato dalla citazione che Freud vi appose a epigrafe: il verso di Virgilio Flectere si nequeo superos, Acheronta movebo (“Se non mi è dato di piegare il cielo, smuoverò il mondo infero”).
Queste parole esprimono nel modo più succinto l’idea che il ripiegamento su se stessi, verso gli aspetti nascosti del Sé, era dovuto alla disperata sensazione che non rientrasse più nelle facoltà dell’individuo modificare il mondo esterno o impedirne la dissoluzione; e, dunque, il massimo che si poteva fare era di negare importanza al mondo in generale, concentrando tutto l’interesse sugli aspetti oscuri della psiche.
Il pensiero ossessivo della sessualità e della morte si ritrova in grado notevole anche nelle opere dei massimi artisti viennesi dell’epoca, specialmente in Gustav Klimt ed Egon Schiele.
Mentre i suoi lavori giovanili erano stati piuttosto convenzionali, giunto alla maturità al volgere del secolo, Klimt prese a dipingere e a disegnare nudi femminili in atteggiamenti chiaramente isterici.
Per esempio, alcuni dei suoi studi per i dipinti che dovevano decorare l’Università di Vienna mostrano donne nude nella tipica postura isterica dell’arc de cercle, un motivo che viene ripetuto più volte. Tant’è vero che, già nel 1902, un critico ostile definiva Klimt, non senza ragione, “il pittore dell’inconscio”.
Né può essere ignorato il ruolo di eros nell’arte di Klimt, tanto sono dominanti i temi erotici nella sua pittura, se si escludono i paesaggi. Da citare, al riguardo, Danae, Bisce d’acqua, Anelito alla felicità si placa nella poesia, diverse parti del Fregio di Beethoven, come Ostilità delle Forze avverse e, ancora, Leda e II bacio.
L’allievo più dotato di Klimt, Egon Schiele, esasperò ulteriormente questa tendenza. I dipinti e i disegni del periodo della maturità rappresentano essenzialmente il mondo interiore dell’uomo, soprattutto nei suoi aspetti nevrotici. Un importante precetto di Freud, che Schiele sembra aver accolto, è quello per cui l’autoanalisi deve sempre precedere l’analisi degli altri; in altre parole, per comprendere appieno l’inconscio, dobbiamo anzitutto studiare i nostri aspetti inconsci.
Nei suoi autoritratti, Schiele analizzò la propria personalità con la medesima forza di penetrazione e la medesima spietatezza con cui Freud aveva condotto la propria autoanalisi. I due dipinti del 1910 e del 1911, intitolati The Self Seers, sono rappresentativi della capacità di Schiele di comunicare direttamente la visione dell’inconscio individuale. Nel doppio ritratto L’ispettore Benesch e suo figlio, sono raffigurati non solo gli aspetti nascosti della psiche dei due soggetti, ma anche il conflitto edipico tra i due.
Siamo qui di fronte a un quadro che comunica l’essenza del conflitto edipico in modo altrettanto eloquente delle pagine stesse di Freud.
Quanto siamo venuti dicendo a proposito dei ritratti e degli autoritratti di Schiele può essere ripetuto per quelli di Oskar Kokoschka. E Arnold Schönberg, colui che a Vienna pose le fondamenta della musica moderna, era anche pittore; quadri come The Red Stare e Visione ci fanno cogliere, più ancora del loro aspetto esteriore, la vita interiore dei soggetti rappresentati. Ma, in ultima analisi, le opere pittoriche parlano direttamente a ciascuno di noi, e i messaggi che i dipinti citati trasmettono circa i segreti più intimi dell’uomo vanno ricercati nei dipinti stessi, nella risposta emotiva che suscitano in noi, e non in ciò che può essere detto o scritto intorno a essi.
Ce un’ultima eloquente postilla da aggiungere alla storia dell’imperatrice, riguardo al suo desiderio di avere “un bel manicomio, completo di tutti gli accessori”. Nei dieci anni che seguirono la sua morte, fu costruita a Vienna un’istituzione per il ricovero dei malati mentali. Alla creazione del più moderno e più splendido complesso di edifici ad uso esclusivo dei pazienti psichiatrici furono chiamati i più grandi talenti artistici viventi.
A uno dei più noti architetti di Vienna, Otto Wagner, fu chiesto di progettare un luogo che potesse soddisfare i bisogni spirituali di esseri umani affetti dai più gravi disturbi della sfera interiore, e il risultato fu la chiesa di San Leopoldo allo Steinhof.
Wagner concepì quella chiesa come opera d’arte totale, un Gesamtkunstwerk, e invitò a partecipare alla sua decorazione molti dei migliori giovani artisti di Vienna: Kolo Moser, Richard Luksch, Othmar Schimkovitz e altri. Una delle caratteristiche più splendide della chiesa, iniziata nel 1905 e completata nel 1907, è la cupola interamente rivestita di bronzo dorato, che manda bagliori di luce quando i raggi del sole vi si riflettono sopra. La chiesa domina non solo l’intero complesso manicomiale, ma anche i quartieri che la circondano, ed è diventata uno dei grandi punti di riferimento della città.
Ecco dunque che, negli ultimi anni del processo di disgregazione del grande impero asburgico, la sua capitale offre un tributo all’importanza della follia con un bellissimo e maestoso monumento. I suoi maggiori scrittori e artisti esplorano nelle loro opere la natura della follia, e i suoi più profondi pensatori dedicano le proprie energie alla scoperta e alla decifrazione dell’anima più intima e più segreta dell’uomo, quell’”immenso territorio” di cui parla Schnitzler, e alla ricognizione delle origini del comportamento isterico e nevrotico.
È stato in conseguenza di ciò che avveniva a Vienna in quegli anni straordinari che noi oggi abbiamo a disposizione gli strumenti per dominare, o quanto meno per comprendere, alcune delle forze più oscure della nostra psiche, e per riuscire così, anche quando tutto intorno a noi è disgregazione, a estrarre un senso dalla vita e a essere, come ci ha insegnato Freud, padroni nella nostra casa.
Da: Bruno Bettelheim, La Vienna di Freud e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 1990, pp. 15–29