La storia della Biblioteca Warburg

(1886–1944)

Mario Mancini
24 min readSep 5, 2021

di Fritz Saxl

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Da destra verso sinistra: Ernst Cassirer, Max Warburg, Aby Warburg e Erwin Panofsky

Nel 1886, all’età di vent’anni, Warburg aveva cominciato a tenere un regolare computo dell’acquisto dei libri. Per quanto fossero modeste le sue disponibilità, il fatto che egli si preoccupasse di una sistematica registrazione dimostra che aveva già in mente l’idea della Biblioteca.

Più tardi parlò spesso agli amici dell’occasione in cui egli aveva potuto rendersi conto che i suoi acquisti andavano al di là delle esigenze del proprio lavoro e aveva potuto quindi iniziare a comprare intenzionalmente libri per gli allievi e i continuatori. Fu quando egli volle procurarsi due costose collane, e cioè le pubblicazioni della “Società calcografica” e il sontuoso ed erudito annuario delle “Raccolte imperiali” di Vienna.[1]

Chiese al padre il denaro occorrente spiegandogli che non si trattava semplicemente dell’acquisto di due grandi collane ma di porre le basi di una biblioteca per le future generazioni. La richiesta venne accolta e così, con l’appoggio finanziario della famiglia, Warburg cominciò a raccogliere libri in modo sistematico. Questo avveniva nel 1901–1902. [2]

Nel 1904 la biblioteca era già abbastanza ampia ed aveva già assunto una fisionomia sufficientemente precisa perché Warburg potesse disporre che, al momento della sua morte, essa passasse a un’istituzione culturale di prestigio, alla condizione però di mantenere la propria autonomia.

Doveva essere lasciata o alla Biblioteca statale di Amburgo o all’Istituto germanico di Firenze, due istituzioni alle quali Warburg era stato strettamente legato in quei primi anni e verso le quali si sentì poi riconoscente per tutta la vita.

L’idea di fondare una biblioteca gli era stata suggerita da un’esperienza risalente ai suoi fervidi anni di studio. Stava lavorando all’università di Strasburgo sul soggetto dei due capolavori mitologici di Botticelli, quando si rese conto che ogni tentativo di comprendere la mentalità di un pittore rinascimentale, limitandosi a un approccio puramente formale, sarebbe stato vano.

La sede del seminario di Strasburgo era divisa in diverse stanze separate, ciascuna delle quali conteneva una biblioteca specialistica, e lo studente era libero di usarle tutte.

Warburg, preso dal desiderio di decifrare quei dipinti, passava da una biblioteca all’altra inseguendo i suoi indizi, dall’arte alla religione, dalla religione alla letteratura, dalla letteratura alla filosofia.

Di qui prese spunto la sua risoluzione di offrire allo studioso una biblioteca che unificasse i vari ambiti della storia della cultura e in cui egli potesse vagare di scaffale in scaffale.

Secondo Warburg il governo non avrebbe mai dato vita a un simile strumento. L’iniziativa doveva venire dai privati e così egli persuase la famiglia ad assumersi la responsabilità finanziaria di questa nuova e costosa impresa. Un tale progetto era molto insolito per la Germania del tempo, dove normalmente era il governo a finanziare istituzioni scientifico-culturali. Non rientrava nello schema ufficiale che prevedeva solo due categorie: la piccola biblioteca specialistica e la grande biblioteca-deposito a carattere generale.

Warburg era stato in Inghilterra e negli Stati Uniti, dove vivevano due dei suoi fratelli, e aveva potuto vedere come agisse in questi paesi l’iniziativa privata nel settore culturale.

Ad Amburgo, dove c’era una forte influenza inglese, il suo insolito progetto poteva forse realizzarsi. Amburgo era una città mercantile senza università e quindi senza corpo docente, non priva però di un’antica tradizione culturale. Poteva essere il terreno adatto per una fondazione privata.

Certo, Amburgo era lontana dai maggiori centri culturali. Se infatti la distanza geografica da Berlino era breve, un intero mondo di storia, abitudini e pensiero divideva le due città. Inoltre, Amburgo era molto diversa da tutte le altre famose città universitarie più piccole quali Gottinga, Heidelberg o Jena.

Gli interessi di Amburgo erano oltremare, la sua amministrazione seguiva le direttive del governo locale anseatico. D’altra parte, all’inizio del secolo, le sue scuole erano progressiste, l’educazione degli adulti aveva raggiunto un livello elevato, le collezioni pubbliche erano fiorenti — e in tutto questo essa si distingueva dal resto della Germania.

Amburgo guardava avanti, ma il suo restava un progressismo isolato, così come era isolato il suo profondo tradizionalismo. Anche la fondazione di Warbürg era isolata, e così la giovane iniziativa poté crescere senza che i rumori di una fiorente università la disturbassero.

Quando visitai per la prima volta la Biblioteca, nel 1911, era chiaro che Warburg aveva vissuto per un certo numero di anni in Italia. Infatti, nonostante la sua ampia impostazione, essa sostanzialmente riguardava la Germania e l’Italia.

Constava allora di circa 15.000 volumi, ma ogni giovane studente, come me, entrandovi, non poteva che sentirsi disorientato. Da un lato trovava un’eccellente raccolta di bibliografie, la gran parte delle quali gli risultava ignota e che erano in grado di abbreviare le sue fatiche; dall’altro, collezioni molto specifiche, per esempio su argomenti come l’astrologia, che non gli potevano certo essere molto familiari.

Anche il modo in cui i libri erano ordinati era disorientante e forse la cosa che colpiva di più lo studente era il fatto che Warburg non si stancasse mai di modificarlo. A ogni avanzamento nella sua riflessione, a ogni nuova ipotesi sulla interrelazione dei fatti, corrispondeva ogni volta una riorganizzazione dei libri. La biblioteca mutava a ogni cambiamento del suo metodo di ricerca e a ogni variazione dei suoi interessi.

Così, per quanto piccola fosse la raccolta, nondimeno era straordinariamente vivace, e Warburg non cessò di modellarla in modo che esprimesse sempre meglio le proprie idee sulla storia dell’uomo.

In quei decenni molte biblioteche, grandi e piccole, si liberavano dei vecchi criteri sistematici che ormai non rispondevano più alle esigenze del tempo.

Adesso ci si orientava verso una classificazione più “pratica” dei volumi: si preferivano princìpi di uniformità, criteri di tipo alfabetico e aritmetico. I contenitori degli schedari del catalogo generale diventavano la guida principale per lo studente, mentre ormai si faceva molto rara la possibilità di accedere diretta- mente agli scaffali e ai libri stessi.

Molte biblioteche, comprese quelle che permettevano il libero accesso ai libri (come, per esempio, quella della Cambridge University), dovevano adeguarsi all’età delle macchine che di giorno in giorno incrementava la produzione editoriale, e dovevano abbandonare il criterio sistematico di classificazione. Il titolo nello schedario sostituiva ormai quasi completamente quella familiarità, molto più peculiare allo studioso, che si acquistava sfogliando le pagine dei libri.

Warburg avvertì questo pericolo. Egli parlò di “legge del buon vicino”. Infatti, nella maggior parte dei casi, il libro conosciuto non è quello di cui si ha bisogno.

Quello che gli sta vicino nello scaffale deve allora contenere l’informazione essenziale anche se il suo titolo non lo fa pensare.

L’idea decisiva era che i libri nel loro insieme — — ciascuno con la sua maggiore o minore quantità di informazione e ciascuno potenziato da quelli vicini — potessero guidare lo studente, attraverso i loro titoli, alla considerazione delle forze fondamentali dello spirito umano e della sua storia.

Per Warburg i libri non erano solo strumenti di ricerca. Riuniti e raggruppati, esprimevano il pensiero umano nelle sue permanenze e nelle sue variazioni.

Fino al 1908 Warburg non si era procurato né degli aiutanti né una casa abbastanza grande da poter ospitare un’ampia raccolta di volumi.

Nell’agosto del 1908 assunse il dott. P. Hübner come suo assistente, e nell’aprile del 1909 acquistò la casa al 114 della Heilwigstrasse dove visse fino alla fine dei suoi giorni.

Hübner era specializzato nello studio delle raccolte rinascimentali di scultura antica e dunque era ben qualificato per quella mansione. Ma era piuttosto un amministratore che uno studioso puro — più tardi ebbe incarichi nelle alte gerarchie dell’amministrazione dei musei tedeschi — e così dopo un anno i due si separarono.

In ogni caso l’assunzione di Hübner e la nuova sede indicavano chiaramente che ’ si era entrati in una fase nuova. Gli succedette il dott. Waetzoldt, uno studioso interessato sia all’estetica sia alle questioni storiche, ma al tempo stesso capace insegnante e amministratore. Quando nel 1911 Waetzoldt se ne andò per divenire intendente della Biblioteca del Museo di Berlino, Warburg si sentì completamente isolato. Un segno significativo della posizione raggiunta in quel tempo dalla Biblioteca Warburg fu il fatto che l’amministrazione statale considerò il periodo in cui Waetzoldt aveva lavorato ad Amburgo come anni di servizio pubblico.

Nel 1912 venne nominato assistente il dott. W. Printz, giovane orientalista e futuro bibliotecario della Deutsche Morgenlandische Gesellschaft, e assieme a Printz, nell’ottobre 1913, anche l’estensore della presente memoria.[3]

Ora Warburg aveva due assistenti, uno per la Biblioteca e uno per le ricerche; entrambi dovevano essere guidati. La notte, una volta terminato il lavoro della giornata, Warburg stava sveglio a leggere i cataloghi dei librai e quanto più si allargavano i suoi interessi tanto più diventava difficile decidere cosa bisognasse comprare.

Né lo spazio né le finanze permettevano acquisti illimitati. Warburg non possedeva una memoria eccezionale per i titoli — aveva poco di quegli studiosi la cui mente è un’enciclopedia bibliografica perfettamente organizzata — e anche per la stessa costruzione della Biblioteca si fece assai scarso uso degli elenchi bibliografici.

Quando iniziava una ricerca, egli annotava su una schedina i titoli che gli interessavano, e queste schedine venivano poi archiviate con una tecnica che, con il crescere dei contenitori, divenne sempre più complicata. I contenitori passarono da venti a quaranta, poi a sessanta, e alla sua morte erano più di ottanta.

Naturalmente, con gli anni, un gran numero di indicazioni invecchiavano, così che spesso era più facile procurarsi in pochi minuti i riferimenti aggiornati su un argomento servendosi di una moderna bibliografia piuttosto che attraverso le schedine di Warburg. Eppure, a parte il fatto che conteneva molte indicazioni di materiali insoliti che non comparivano in tali bibliografie, questo ampio schedario aveva una qualità: i titoli annotati erano quelli che avevano fatto nascere la sua curiosità scientifica mentre egli lavorava su una parte determinata della sua ricerca.

Erano tutti legati tra loro in modo da formare come una complessiva bibliografia personale della sua attività. Questi elenchi, quindi, costituivano anche il suo riferimento-guida come bibliotecario: non che li consultasse ogni volta che leggeva il catalogo di un libraio o di un editore.

Piuttosto, erano diventati parte del suo normale sistema di lavoro. Si capisce, allora, come sia potuto accadere che, pur acquistando i libri in modo così strettamente connesso agli interessi del momento, egli sia riuscito a mettere insieme una biblioteca nella quale, su un dato argomento, oltre ai libri fondamentali, figuravano anche, in numero davvero eccezionale, molte altre pubblicazioni, spesso rare e di grandissimo interesse.

Tante volte abbiamo visto Warburg stanco e preoccupato, curvo sui suoi contenitori, con un pacco di schedine in mano, mentre cercava di trovare per ciascuna di esse la collocazione migliore; ci sembrava uno spreco di energie e ci dispiaceva. Esistevano infatti elenchi bibliografici migliori di quanti lui, da solo, potesse mai sperare di realizzare.

Ci volle un po’ prima di accorgerci che il suo obiettivo non era questo: era piuttosto un metodo attraverso il quale poter stabilire i limiti e i contenuti del suo mondo scientifico, e l’esperienza che così egli acquistava diveniva poi decisiva nella scelta dei volumi per la Biblioteca. I suoi amici erano soliti apprezzare il suo istintivo “fiuto” per il libro valido e interessante, la sua rapidità nel cogliere l’essenziale e ciò che invece non aveva importanza.

Ma nel sistema di valori warburghiano l’istinto non era ai primi posti: ciò di cui egli teneva conto era soprattutto l’esperienza faticosamente accumulata attraverso un interminabile lavoro di riorganizzazione sistematica delle sue annotazioni.

A complicare la vita a Warburg fu soprattutto il suo disinteresse totale per gli aspetti tecnici della biblioteconomia. Usava scaffalature di legno all’antica; catalogava i libri senza attenersi a regole fisse; i suoi rapporti con i librai erano poco organici — tutto manteneva il carattere di una collezione privata: il padrone di casa controllava di persona che i conti venissero saldati a tempo, che il rilegatore scegliesse il materiale adatto, oppure, quando veniva consegnato un nuovo scaffale, che il prezzo non fosse iniquo né per lui stesso né per il falegname.

Non era un’impresa semplice conciliare la funzione di bibliotecario patriarcale con quella di studioso, come appunto Warburg faceva.

In un limpido mattino primaverile, a Firenze, nel 1914, dopo settimane di duro lavoro coronate da una brillante conferenza, Warburg e io andammo a visitare gli affreschi di Masaccio alla chiesa del Carmine. Lungo la strada, per la prima volta discutemmo su come si potesse trasformare la Biblioteca in un Istituto.

Fino ad allora Warburg aveva sempre dato eguale possibilità di accesso ai suoi libri e alle sue annotazioni, nonché alla raccolta di fotografie che stava formando, tanto agli specialisti quanto ai profani: si era sempre dedicato agli allievi e ai seguaci. Amburgo, però, non era un centro di cultura umanistica, e dunque non permetteva un normale ricambio di studenti.

Le autorità civiche avevano scartato l’idea di istituire un’università, e avevano invece fondato un Istituto per lo studio dei problemi coloniali. In quel mattino del 14 aprile 1914, ci trovammo d’accordo sul fatto che solo l’istituzione di borse di studio collegate alla Biblioteca avrebbe potuto richiamare dalla Germania e anche dall’estero una corrente di studenti, e che quindi bisognava cominciare a destinare una parte dei fondi a questo scopo.

La Biblioteca doveva diventare un centro in cui Warburg avrebbe formato al suo metodo i giovani studiosi, coordinando le loro ricerche.

Pochi mesi dopo scoppiò la guerra e il progetto dovette essere messo da parte: ma Warburg non si fermò, la sua ricerca andò avanti e insieme ad essa l’acquisto di nuovi libri.

Nel 1920 la situazione era cambiata. La fame culturale del dopoguerra e l’entusiasmo per le opere di pace, adesso, animavano le autorità cittadine, e così fu deciso di fondare l’Università di Amburgo.

Questo fatto nuovo automaticamente cambiò la posizione di Warburg e quella della Biblioteca. Ma proprio allora Warburg si ammalò gravemente: dovette lasciare la sua casa senza la certezza di poter tornare.

Egli continuò i suoi studi fino a poche ore prima della partenza, ma era convinto che non avrebbe più fatto ritorno e lasciò a me l’incarico di prendermi cura del suo lavoro.

La responsabilità era pesante. La Biblioteca era diventata quello che era grazie al genio di Warburg; lui aveva scelto i libri uno per uno; sua era la sistemazione e suoi i contatti con un’ampia cerchia di studiosi.

Si trattava di portare avanti l’eredità di un maestro ed amico assente, e di far sì che, mancando la sua guida, essa approdasse a qualcosa di nuovo in corrispondenza al nuovo assetto scolastico e culturale della città. Generosamente la famiglia finanziò tali iniziative.

Gli anni Venti furono dunque determinanti. Fino ad allora Warburg non aveva mai sentito il bisogno di definire gli scopi della Biblioteca per un pubblico più ampio, di modo che con il modificarsi dei suoi interessi e delle sue esigenze egli aveva potuto continuare a dar rilievo ora a un aspetto, ora a un altro. Ma quanto più durava la sua assenza, tanto più ci si rendeva conto che non bastava conservare quello che egli aveva fatto; occorreva trasformare la sua personalissima creazione in un’istituzione pubblica, anche se era chiaro fin dall’inizio quanto sarebbe andato perduto della sua impresa.

In ogni angolo della Biblioteca c’erano gruppi di libri ciascuno dei quali stava a indicare una particolare tendenza di pensiero — ed era proprio questa straordinaria ricchezza di idee a far da un lato la gioia dello studioso ma, d’altro lato, a rendergli difficile trovare un orientamento.

Quando il professor Ernst Cassirer venne a vedere per la prima volta la Biblioteca, fu preso da un duplice desiderio a un tempo: quello di fuggirsene via (cosa che infatti fece per un certo periodo), e quello di farsene catturare per anni (come infatti successivamente, per un certo periodo, fu lieto di fare).

Certo le nuove acquisizioni che Warburg via via aveva deciso mantenevano sempre una coerenza interna, ma in un’istituzione destinata a un largo pubblico molti dei suoi tentativi e dei suoi estri personali sarebbero risultati fuori luogo.

Dunque, per dare un assetto alla Biblioteca, la prima cosa e la più urgente da fare sembrava quella di “normalizzare” il metodo usato da Warburg fino al 1920, procedendo ora ad aggiunte, ora a dei tagli.

Nessun sistema di classificazione esistente poteva essere di aiuto, in quanto questa Biblioteca era stata pensata per lo studio della storia culturale vista da un determinato angolo prospettico. Doveva contenere i materiali fondamentali e al tempo stesso suddividerli in modo che lo studente fosse guidato verso libri e idee che non gli erano familiari.

Fritz Saxl con Gertrud Bing (che succederà a Saxl come direttore dell’Istituto nel 1958) in una foto di fine anni ’20, primi anni ’30.

Dare a ciò una struttura troppo rigida sembrava rischioso, e così, in collaborazione con Gertrud Bing, la nuova assistente, scegliemmo una forma abbastanza flessibile da permettere che in ogni momento il sistema potesse essere modificato — almeno per quel che riguardava certe sezioni — senza troppa difficoltà.

Di conseguenza trovare un libro nella Biblioteca Warburg non sarà mai tanto semplice quanto nelle biblioteche organizzate secondo criteri alfabetici e numerici: il prezzo che si deve pagare è alto, ma in compenso i libri restano un corpo di pensiero vivente, così come Warburg voleva.

In secondo luogo, si trattava di normalizzare i contenuti della Biblioteca.

La cultura e gli interessi di un singolo individuo — Warburg compreso — non potranno mai essere tanto ampi quanto quelli di un gruppo di anonimi utenti, i cui desideri hanno la loro legittimità.

Nel 1920, nella Biblioteca, c’erano forse 20.000 volumi: alcuni settori erano quasi completi, altri solo all’inizio. Grazie al fatto che i fondi erano stati in parte inviati dai membri della famiglia che vivevano negli USA e che in Germania c’era l’inflazione, fummo in grado di continuare ad acquistar libri e di occuparci delle lacune da riempire.

Un’istituzione pubblica non poteva non possedere certe opere e certi periodici standard che, invece, un singolo studioso poteva prendere facilmente a prestito.

E, dato che negli anni successivi, con lo sviluppo dell’Università di Amburgo, crebbe il numero di giovani studenti che venivano alla Biblioteca, anche le loro esigenze dovettero essere tenute in conto. Il che andava fatto con un certo tatto, per non distruggere l’originario carattere di strumento di ricerca che la collezione aveva.

Ma, ancor più della trasformazione della Biblioteca, fu spaventosamente difficile portare avanti l’attività scientifica di Warburg senza il suo diretto aiuto. La vecchia idea di convertire la Biblioteca in Istituto sembrava la soluzione più adeguata, e adesso che Amburgo aveva un’università non c’era più bisogno di istituire borse di studio.

Alcuni dei nuovi docenti erano naturalmente interessati a collaborare. Anche se si occupavano di argomenti molto diversi, essi potevano trovare nella Biblioteca contatti culturali e un terreno comune.

Ernst Cassirer (filosofia), Gustav Pauli ed Erwin Panofsky (storia dell’arte), Karl Reinhardt (filologia classica), Richard Salomon (storia bizantina), Hellmut Ritter (lingue orientali) e altri, si unirono al piccolo gruppo. Che poi fu presto allargato da altri studiosi tedeschi e anche belgi, italiani, olandesi e inglesi.

Qui, come per la Biblioteca, fu forse inevitabile semplificare le idee di Warburg per rendere meno complicata l’attività dell’Istituto — e di conseguenza si è perso molto di non meno importante e che sarà difficile ricuperare — , comunque lo scopo principale venne raggiunto.

La creazione di Warburg continuò a vivere con il contributo di persone più giovani di una generazione, le quali si ispirarono alla sua personalità e al suo lavoro, proprio mentre egli stesso era scomparso dalla scena.

Durante la sua malattia, infatti, da biblioteca privata essa si trasformò in un’istituzione pubblica. Due serie di pubblicazioni diedero corpo ai risultati dell’attività dell’Istituto: l’annuario delle Conferenze (Vorträge) e gli Studi (Studien) dedicati ad argomenti monografici.

La condizione era che non solo gli Studien ma anche i Vorträge contenessero i risultati di nuovi lavori di ricerca. Data l’atmosfera culturale della città durante gli anni Venti, non c’era comunque il rischio che esse non fossero ben curate. Grazie a queste conferenze, le idee di Warburg furono meglio conosciute e in tal modo cominciò a costituirsi una tradizione culturale.

Ben presto fu chiaro che le nuove attività non potevano essere portate avanti nella casa acquistata nel 1909. Non c’era un salone per le conferenze, né una sala di lettura per i frequentatori, il cui numero era aumentato, e neppure il falegname più ingegnoso avrebbe escogitato il modo per ricavare più spazio.

Dal pavimento sino al soffitto, le pareti erano ricoperte di libri, la dispensa era diventata un magazzino, gli scaffali appesi sopra le porte erano un pericolo, la sala da biliardo era stata trasformata in ufficio, stanza di ricevimento, una specie di luogo di sbarco, e insieme soggiorno di famiglia — da ogni parte libri, libri, e ancora libri, e tutti i giorni continuavano ad arrivarne di nuovi. Bisognava fare qualcosa.

Nelle vicinanze della sede universitaria a quel tempo era in vendita una sistemazione adeguata e si discusse a lungo sull’opportunità di spostare i libri lontano dalla zona residenziale della città: il carattere personale della Biblioteca sarebbe andato perduto e sarebbe aumentato il rischio di trasformarla in un’appendice dell’Università dove un gran numero di studenti sarebbero venuti a leggere per semplice comodo, senza essere interessati alla ricerca.

Per ragioni pedagogiche Warburg era sempre stato contrario a rendere le cose troppo facili allo studente: e quando, nel 1923, la sua salute cominciò a migliorare e poté occuparsi di questa questione, ribadì il suo totale disaccordo verso un cambiamento radicale.

In ogni caso, con il suo ritorno ad Amburgo, nel 1924, si arrivò a una decisione. Già nel 1909 era stato acquistato un vano adiacente alla casa, proprio in previsione di una crescita delle dimensioni della Biblioteca.

Sarebbe andato bene per ospitare i libri ma non era adatto per un Istituto in espansione, dato che era lungo e stretto. Ma Warburg non ebbe dubbi. Per adesso l’idea di una grande sede pubblica nel centro cittadino non lo attirava.

La Biblioteca doveva continuare ad avere il suo carattere privato e personale nonostante la sua funzione pubblica, e così subito ci si mise a studiare una soluzione affrontando le notevoli difficoltà tecniche. La principale era la sistemazione dei magazzini che doveva lasciare inalterato ed evidente il tipo di suddivisione dato ai libri.

Le due stanze esistenti potevano insieme contenere circa 120.000 volumi; la stanza di lettura con la sua piccola galleria poteva andar bene per i libri di consultazione e restava anche spazio per i vecchi e nuovi periodici. Occorreva anche una buona acustica per le conferenze serali.

Bisognava poi che ci fossero stanze per lo staff, spazio per le raccolte fotografiche, una stanza con bagno per gli ospiti, uno studio fotografico, e poi, nel seminterrato, l’abitazione vera e propria. Si era pensato inoltre a un terrazzo per la lettura con vista sui giardini e su un ruscello che passava tra i salici. Il 25 agosto 1925 si cominciarono i lavori e il 1° maggio 1926 l’edificio fu inaugurato.

Solo pochi tra coloro che conoscevano i vecchi scaffali avrebbero detto che si trattava della stessa biblioteca (Tav. 65 a, b). Gran parte di quello che prima sembrava isolato e incongruo appariva adesso al suo posto. Warburg aveva comprato libri per quarantanni e mai con la “mentalità” di un bibliotecario che fa acquisti per generici lettori.

L’aveva sempre fatto puntando ad acquistare cose nuove e importanti per il suo lavoro, e il suo pensiero fu così coerente che, alla fine della sua vita, poté lasciare al pubblico una Biblioteca compiutamente strutturata e articolata con chiarezza e precisione nelle sue sezioni. I libri erano sistemati su quattro piani.

Al primo c’erano quelli sui problemi generali dell’espressione e sulla natura dei simboli; poi si passava all’antropologia e alla religione, e quindi alla filosofia e alla storia della scienza. Il secondo piano conteneva i volumi sull’espressione artistica, sulla sua teoria e sulla sua storia. Il terzo era dedicato al linguaggio e alla letteratura, e infine il quarto alle forme sociali della vita umana — storia, diritto, folklore e così via.

L’incessante, spesso caotica e disperata lotta che Warburg aveva intrapreso per arrivare a capire le espressioni spirituali, la loro natura, storia e connessione reciproca, culminò con la creazione di una forma di biblioteca che sembrava tanto naturale come se fosse stata il punto d’inizio della sua attività, non già il risultato. Ma quello che la differenziava da tutti gli altri sistemi precostituiti era la ricchezza di idee nelle divisioni interne.

Solo con un lavoro di ricerca costante e approfondito si era potuto accumulare, e spesso riesumare, questa massa di volumi, tutti interessanti e talora da tempo dimenticati. In tale lavoro fu sempre lo studioso a guidare il bibliotecario, il quale poi restituì allo studioso quanto aveva ricevuto.

La nuova casa, nella quale lo spazio era stato economizzato come in una nave e che era stata equipaggiata con moderni dispositivi da biblioteca, si dimostrò una struttura soddisfacente e appropriata al rapido sviluppo dell’Istituto. L’esperimento, che era stato iniziato negli anni dell’assenza di Warburg, fu ora proseguito sotto la sua direzione e con il suo aiuto.

Due — e più tardi tre — dei membri dello staff erano anche docenti all’università. Furono tenuti dei seminari presso l’Istituto e gli studenti appresero come usare la Biblioteca; furono concesse borse di ricerca e contributi per missioni.

Lo staff — dirigenti e impiegati — fu allargato e organizzato opportunamente. Nei periodi di vacanza venivano a lavorare nella Biblioteca non pochi studiosi di rilievo.

Gli acquisti ora venivano fatti in quantità mai prima toccate, e fu ampliata la collezione fotografica — fino ad allora ai primi passi. I cicli di conferenze, che all’inizio avevano toccato argomenti disparati a seconda degli interessi del conferenziere, a partire dal 1927 furono dedicati, anno per anno, a uno dei principali ambiti di ricerca dell’Istituto.

Nel 1929 i volumi degli Studien erano già arrivati a dodici e numerosi altri erano in corso di stampa. Tra il ’28 e il ’29 Warburg soggiornò in Italia per circa un anno e istituì rapporti così stretti con studiosi italiani e studiosi tedeschi stabilitisi in Italia che si pensò seriamente all’ipotesi di trasferire a Roma l’Istituto.

Con la morte di Warburg, nel 1929, si chiuse anche il febbrile periodo che era iniziato nel ’24, con il suo ritorno. “Warburg redux”: così una volta aveva firmato una lettera.

Si sentiva — e diede anche agli altri quest’impressione — come un soldato che tornava a casa dopo una battaglia vittoriosa, una battaglia per la vita contro le forze delle tenebre e dell’inferno. Emanavano da lui energie che destavano come un timore reverenziale: egli viveva e operava nella convinzione che uno studioso non sceglie la propria professione e invece, in tutto ciò che fa, obbedisce a un imperativo superiore.

Nessuno di quanti gli furono accanto in quegli anni poté sottrarsi a questa atmosfera quasi magica. La quale influenzava anche quanti venivano all’Istituto, che avvertivano il fascino di quest’uomo per il quale la vita normale sembrava non più esistere, immerso com’era in un mondo di idee che, dai temi più elevati ai dettagli più minuti, abbracciavano l’intero arco della ricerca storica. Warburg insegnò ai suoi allievi e ai suoi continuatori un’assoluta e incondizionata sotto- missione alle istanze del sapere.

L’Istituto, dopo la morte di Warburg, proseguì la sua vita senza rilevanti cambiamenti esteriori. La famiglia, che per tanti anni lo aveva appoggiato finanziariamente, dichiarò ufficialmente di voler continuare a sostenere la sua opera.

Ma i segni funesti della tempesta futura non si fecero attendere. Arrivò, innanzi tutto, la crisi bancaria internazionale che portò a una considerevole riduzione dei fondi. La crisi economica investì anche le università tedesche: la disoccupazione aveva prodotto una popolazione studentesca davvero eccessiva, e in parte di scadente qualità. La sala di lettura dell’Istituto non fu mai tanto frequentata, ma gli studenti comuni erano assai più numerosi degli studiosi.

Ricordavamo con nostalgia i tempi in cui la nuova sede ancora non esisteva e nella Biblioteca c’era solo uno sparuto gruppo di persone al lavoro. In questi anni infecondi, gli ultimi della vecchia Germania, l’Istituto, senza la sapiente energia di Warburg, conobbe una crisi.

Ma un Istituto ha pur sempre una sua vitalità: così la ricerca continuava, uscivano nuove pubblicazioni, si tenevano cicli di conferenze. Nel ciclo di conferenze dedicato a “L’Inghilterra e l’antichità” dibatterono studiosi inglesi e tedeschi, e fu in questa occasione che incontrammo le prime difficoltà politiche: una conferenza su “L’impero romano e l’impero britannico” si concludeva con la previsione della prossima fine del Commonwealth, e noi ci rifiutammo di pubblicare una simile opinione politica.

Nel 1931 si era formato un gruppo di una quarantina di collaboratori incaricati di compilare una Bibliographie zum Nachleben der Antike, a carattere critico e con periodicità annuale. Doveva essere la base

bibliografica del lavoro dell’Istituto, e insieme un contributo e un aggancio per altri studiosi attivi in questo campo. Era la prima volta che si cercava di dar vita a un’iniziativa di respiro internazionale, e il fatto che il tentativo ebbe successo indica quale reputazione l’Istituto fosse riuscito a guadagnarsi.

Nei primi mesi del 1933 era chiaro che non sarebbe stato possibile continuare il nostro lavoro in Germania.[4] Non c’erano ancora state interferenze esterne; i politici erano troppo affaccendati per potersi preoccupare di un’istituzione culturale privata.

In ogni caso, la ricerca autonoma e auto-organizzata nel campo delle scienze umane non sarebbe riuscita a sopravvivere nella Germania nazista — a prescindere dalla discriminazione razziale che prima delle leggi di Norimberga non era ancora così evidente né così minacciosa come in seguito.

Molti amici ci esortavano a non muoverci, a restare al nostro posto, per ora: ma solo un anno dopo chiunque si sarebbe accorto che ciò sarebbe stato impossibile. Quando, nel 1934, fu dato alle stampe il primo volume della Bibliographie — una pubblicazione arida e apolitica che poteva venire da un qualunque istituto culturale — , il “Völkischer Beobachter” [5 gennaio 1935] gli dedicò una recensione a piena pagina che brillava per un’ignoranza pari all’insolenza.

Se fossimo stati ancora in Germania e in stretta collaborazione con i nostri vecchi amici, la nostra situazione si sarebbe fatta critica. Ben presto alcuni di loro avrebbero interrotto ogni rapporto con noi, mentre altri, più fedeli, avrebbero cercato coraggiosamente di mantenerli fino a che anch’essi, contro la loro coscienza, sarebbero stati costretti dalle leggi e dalle penose esperienze a cedere.

Uno degli eventi memorabili di quei giorni fu la visita di un giovane e attivo amico dell’Istituto, il dott. R. Klibansky. Inorridito per ciò che accadeva all’Università di Heidelberg, di cui era uno dei docenti, aveva concepito l’idea di creare un centro di cultura fuori dalla Germania, dove potesse essere conservata l’antica tradizione umanistica tedesca.

Decidemmo di agire unitamente. I membri dell’Istituto — senza distinzione di razza — e la famiglia Warburg diedero il loro consenso.

Ma emigrare dove? Alcuni amici dell’Università di Leida offrivano un’eccellente sistemazione, senza alcun vincolo e con ogni opportunità di lavoro, ma non c’erano fondi olandesi utilizzabili e la nostra situazione finanziaria sarebbe divenuta incerta una volta lasciato il Paese. Non potevamo certo contare su un trasferimento di fondi dalla Germania.

All’inizio dell’estate il dott. Wind, che dal 1928 faceva parte dell’Istituto, si recò in Inghilterra a prendere contatti: lì si era fatto degli amici negli anni precedenti, quando lavorava sul Settecento inglese. In Inghilterra c’erano numerosi studiosi che guardavano con preoccupazione alla sorte delle università tedesche.

Era stato costi- mito un comitato per informare l’opinione pubblica britannica e dare “assistenza accademica”. Due membri di questo “Academic Assistance Council”, il prof. W. G. Constable e il prof. C. S. Gibson, entrambi della London University, vennero ad Amburgo per rendersi conto sul posto della situazione dell’Istituto Warburg.

Ma nessun appoggio economico era ancora all’orizzonte, e intanto la situazione in Germania peggiorava di mese in mese. A questo punto arrivò ad Amburgo un terzo ospite, Sir Denison Ross.

Con l’acuta sensibilità dell’uomo che ha molto viaggiato, questi aveva costante attenzione alle nuove esperienze scientifiche. Era soprattutto un entusiasta: poche settimane dopo il suo ritorno in Inghilterra, ci arrivò un telegramma con buone notizie e l’invito ad andare a Londra a discutere la cosa.

Un donatore che desiderava restare anonimo aveva promesso di incrementare le ridotte sovvenzioni della famiglia, e Lord Lee di Fareham aveva assicurato il suo interessamento.

Il trasferimento dell’Istituto da Amburgo a Londra, nel 1933, non fu certo un evento normale. Un giorno arrivò sul Tamigi una nave con seicento casse di libri, scaffali metallici, leggii, apparecchiature per rilegare, strumenti fotografici, eccetera.

Il telegramma che annuncia il trasferimento dei materiali dell’Istituto Warburg da Amburgo a Londra. Dice: “Il cargo Ernia (partito) Martedì sera da Amburgo scarica Venerdì sera a Londra molo est”. Mittente Saxl (direttore dell’Istituto), destinatario Mrs Thake.

La Biblioteca occupava oltre novecento metri quadrati. Le circostanze furono favorevoli: Lord Lee di Fareham aveva garantito una sistemazione in Thames House, una grande sede di uffici a Millbank, che nel 1933 non era ancora completamente occupata. Samuel Courtauld e la famiglia Warburg, dall’America, assicurarono i fondi.

Ma come potevano mettersi al lavoro le sei persone arrivate con i libri da Amburgo? Anche se le parole erano inglesi, la lingua in cui essi scrivevano era straniera perché non erano certo inglesi le loro abitudini di pensiero; e come era possibile, da questa singolare Biblioteca al pianterreno di un’enorme sede di uffici, raggiungere qualcuno che leggesse i libri messi a disposizione da quegli ignoti stranieri?

Era una ben strana avventura approdare con 60.000 libri nel cuore di Londra e doversi dire: “Cerca degli amici e avvicinali ai tuoi problemi”.

L’arrivo dell’Istituto coincideva con il nascente interesse, nelle scuole inglesi, per lo studio del passato attraverso documenti visivi. L’Istituto fu spinto da questa onda, e alcuni giovani studiosi furono attratti dal suo modo di studiare le opere d’arte come espressioni di un’epoca.

Numerosi rifugiati tedeschi, che non avevano fatto parte dell’Istituto prima, ora divennero collaboratori e allargarono i contatti con gli studiosi inglesi.

Nel 1936 la London University acconsentì ad ospitare l’Istituto fino al 1943, cioè fino a quando tutte le sue fonti di finanziamento si sarebbero dovute esaurire. Quel che sarebbe accaduto dopo era lasciato aperto alla speranza.

Allo scoppio della guerra i libri furono evacuati. Uno dei membri dello staff originario fu ucciso durante un’incursione aerea, e diventò sempre più difficile continuare le pubblicazioni. Chi sarebbe stato disposto, nel 1943, a sorreggere questo scheletro?

Due recenti scatti delle sale aperte che accolgono i volumi della Biblioteca nell’attuale sede di Londra.

Epilogo

È difficile pensare che Fritz Saxl intendesse concludere la sua memoria con questa domanda retorica, se non avesse saputo che, al tempo, una risposta già cominciava a delinearsi: il più generoso di tutti i mecenati voleva assumersi l’intera responsabilità dell’eredità di Warburg — il contribuente inglese. Uno dei fattori che portarono a questa svolta decisiva fu una campionatura comparativa tra la Biblioteca dell’Istituto e quella del British Museum. Ne risultò che oltre il trenta per cento dei titoli dei libri e dei periodici portati da Amburgo non erano reperibili in quella grande tesoreria di libri. Il 28 novembre 1944 il Warburg Institute venne incorporato nella London University. La storia degli sviluppi successivi si può trovare nei “Reports” annuali dell’Istituto.

Ernst H. Gombrich

Questa memoria è stata redatta intorno al 1943, ma evidentemente non fu conclusa né potè circolare dato che gli ultimi paragrafi sono solo annotati a matita. Ho fatto un’integrazione in un punto del testo, attingendola dall’abbozzo incompiuto di biografia di Warburg scritto da Saxl nel 1944.

Note

[1] Per questi primi momenti, cfr. ora le lettere di Warburg citate qui a pp. 48 c 118 sg.

[2] Tagebuch, 23 marzo 1904.

[3] I due paragrafi che seguono sono tratti dall’abbozzo di biografia di Warburg scritto da Sazl, a integrazione della sua memoria. Per questo e per quanto segue, cfr. anche Fritz Saxl (1890–1948). A Memoir, in Fritz Saxl 1890–1948, a cura di D.J. Gordon, London, 1953, pp. 1–46.

[4] Cfr. anche A Memoir di Gertrud Bing, cit., e il resoconto del trasferimento dell’Istituto in Inghilterra scritto da Eric Warburg nell’“Annual Report of the Warburg Institute”, 1952–1953.

Tratto da: Ernst H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia Intellettuale. Prefazione di Katia Mazzucco, Traduzione di Alessandro Dal Lago e Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 277–290

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.