La sinistra hegeliana
Ludwig Feuerbach e Max Stirner
di Emanuele Severino
L’umanesimo di Ludwig Feuerbach
Allievo di Hegel all’Università di Berlino Ludwig Feuerbach non riuscì, a causa della radicalità delle sue idee religiose, a percorrere la carriera accademica e riuscì solo a tenere qualche breve corso come libero docente. Il successo editoriale gli venne con L’essenza del Cristianesimo del 1841.In precedenza aveva pubblicato I pensieri sulla morte e l’immortalità (1830) e aveva collaborato con saggi e recensioni agli Annali di Halle.
1. Il nuovo senso dell’infinito
Innanzitutto, Feuerbach tien fermo il principio fondamentale dell’idealismo: che il contenuto della coscienza umana non è il finito, ma la totalità dell’essere, cioè l’“Infinito”, e che dunque «la coscienza è essenzialmente di natura infinita», “onnicomprensiva”.
La coscienza dell’Infinito non è, così, coscienza di qualcosa che è altro, estraneo, al di là della coscienza: l’Infinito, e quindi «la coscienza dell’Infinito, non è altro che la coscienza dell’infinità della coscienza». E poiché la coscienza di cui qui si tratta è la coscienza dell’uomo (ossia è ciò che al suo inizio la filosofia moderna chiama “cogito”), l’Infinito che è oggetto della coscienza è l’infinità dell’essenza dell’uomo.
Pertanto «la filosofia è la scienza della realtà nella sua verità e nella sua totalità». L’episteme ha cioè come contenuto l’uomo, e non Dio, appunto perché l’uomo è la «realtà nella sua verità e totalità».
Ma proprio per questo la filosofia deve procedere “al di là” di Hegel e non ricadere “al di sotto” di lui, come appunto accade, per Feuerbach, nei positivisti. Anche l’idealismo hegeliano afferma infatti che l’uomo è l’Infinito.
Ma in Hegel questo significa che i tratti (le caratteristiche, le determinazioni) tradizionali dell’Infinito vanno cercati nell’uomo e non in una realtà separata dall’uomo (cioè in Dio). In Hegel rimane immutato il senso tradizionale di Dio; solo che questo senso lo si vede realizzato nell’uomo e non in Dio.
Andare “al di là” di Hegel significa invece che, affermando l’infinità dell’uomo, non si deve snaturare l’uomo attribuendogli la natura del vecchio Dio, ma si deve riconoscere all’uomo ciò che gli è proprio — innanzitutto, il carattere sensibile e quindi, secondo la terminologia idealistica, “finito” dell’uomo — , e nel contempo ci si deve rendere conto che è proprio l’uomo effettivo, e quindi innanzitutto l’uomo sensibile e “finito”, a essere l’Infinito. Ci si deve rendere conto che è proprio la sensibilità e la “finitezza” dell’uomo a costituire l’Infinito.
Attribuendo all’uomo i caratteri tradizionali dell’Infinito e di Dio, si continua a rimanere all’interno della prospettiva teologica (che è sia di tipo religioso, sia di tipo filosofico-razionale), e si snatura l’uomo.
Infatti il Dio tradizionale è puro pensiero, puro spirito, pura coscienza, è cioè separato dalla sensibilità, dalla corporeità, dalla materia, dallo spazio, dal tempo. Ed è appunto in questo modo che l’idealismo intende l’uomo: trasferendo a esso gli attributi di Dio: l’essenza dell’uomo è la pura coscienza.
E invece l’essenza autentica, «la vera umanità» dell’uomo include l’uomo «dalla testa al calcagno». (Anche Schopenhauer aveva obiettato all’idealismo che l’uomo non è «una testa d’angelo alata senza corpo».)
Certo, l’uomo si distingue dall’animale perché egli ha coscienza; ma proprio per questo avviene una mutazione qualitativa in tutta l’essenza dell’uomo, cioè anche negli aspetti per i quali l’uomo non è coscienza: la volontà, il sentimento, il cuore, la sensibilità. Come rileva Feuerbach, il materialista crede che l’uomo differisca dall’animale soltanto per la coscienza, e cioè che sia un animale, ma con coscienza. E invece l’essenza dell’uomo è l’Infinito e non solo perché l’uomo è coscienza, ma anche perché è volontà e sentimento.
Ragione, volontà, sentimento sono le forze supreme in cui consiste l’essenza dell’uomo: non sono “facoltà” che l’individuo umano possiede, ma “forze assolute” (e che in questo senso possono essere dette “divine”) che sono esse ad avere e a possedere l’individuo, e alle quali l’individuo non può opporre alcuna resistenza. (Un concetto, questo, che Hegel aveva chiarito relativamente al rapporto tra pensiero e individuo.)
E come la coscienza, in quanto coscienza dell’Infinito, è coscienza di sé stessa e ha in sé stessa il proprio scopo, così lo scopo della volontà è la libertà (indipendenza, infinità) della volontà, e lo scopo dell’amore e del sentimento è l’amore e il sentimento.
Sarebbe completamente fuori strada chi pensasse che in questo modo l’essenza dell’uomo sia un circolo astratto che rincorrendo sé stesso è senza oggetto. «L’uomo senza oggetto è nulla». Feuerbach intende affermare che il mondo concreto, la natura concreta e sensibile che è oggetto della coscienza e del sentimento, non sta al di là dell’essenza infinita dell’uomo, ma è l’oggetto di tale essenza e proprio per questo ne è la manifestazione e la rivelazione.
L’atteggiamento di fondo dell’idealismo viene esteso in questo modo anche alla volontà e al sentimento. Come la coscienza dell’oggetto è l’autocoscienza dell’uomo, così la volontà e il sentimento, volendo e sentendo un oggetto, vogliono e sentono sé stessi.
Quello che da un punto di vista preidealistico è “la potenza dell’oggetto” sull’uomo non è altro che la potenza dell’uomo.
«Così, la potenza dell’oggetto del sentimento è la potenza del sentimento, la potenza dell’oggetto della ragione è la potenza della ragione e la potenza dell’oggetto della volontà è la potenza della volontà.»
Ma in questo modo, contrariamente a quanto l’idealismo ritiene, l’essere non deve più essere inteso semplicemente come l’“oggetto del pensiero”, ma come oggetto dell’uomo nella sua vera umanità, la quale non è soltanto pensiero, ma è la concretezza stessa dell’essere, «l’essere è cioè oggetto dell’essere».
2. La critica a Hegel
L’insistenza con la quale Feuerbach afferma l’identità dell’essere e del sensibile, della realtà e dell’esistenza spazio-temporale, del sapere e del sapere empirico, va quindi intesa alla luce dell’intento di Feuerbach di andare “al di là” e di non ricadere “al di sotto” di Hegel.
La sensibilità non ha nulla a che vedere con la sensazione del materialismo e di ogni forma di realismo preidealistico: la sensibilità è «l’unità vera esistente del materiale e dello spirituale», l’unità originaria nella quale la filosofia ha il suo fondamento. Lo spirito è “il senso universale” e “la verità dei sensi” non è una verità teoretica, ma è il fondamento permanente della filosofia.
Si comprende il senso autentico di queste espressioni, se si tien presente la critica che Feuerbach rivolge al rapporto che in Hegel sussiste tra l’Idea, il sistema delle categorie e l’esperienza.
Feuerbach è uno dei primi critici che contestano a Hegel la possibilità di una dialettica pura, nella quale il pensiero, senza accogliere nulla dall’esterno, cioè dall’esperienza e dalla realtà empirica, si sviluppi in forza di una energia interna inevitabile dalla categoria semplicissima dell’“Essere” indeterminato alla categoria più complessa della Totalità e dell’Infinito, che raccolga e conservi in sé tutte le precedenti categorie.
Si tratta di una critica, che in una prospettiva di tipo sostanzialmente aristotelico e avanzata con grande acutezza, Federico Adolfo Trendelenburg (1802–1872), anch’egli allievo di Hegel, andava in quello stesso periodo rivolgendo al maestro.
Negando che il puro pensiero abbia autonomia rispetto alla sensibilità e al sapere empirico, Feuerbach nega l’immutabilità e infinità dell’Idea, che per quanto immanente all’uomo mantiene pur sempre rispetto a esso la funzione del vecchio Dio.
La logica hegeliana è la vecchia teologia trasformata in ragione.
«Come l’essenza divina della teologia è il plesso ideale o astratto di tutte le realtà, cioè di tutte le determinazioni, di tutte le cose finite, così lo è la Logica hegeliana. Come tutto quello che si trova in terra si trova nel cielo della teologia, così anche tutto ciò che si trova nella natura si trova nel cielo della Logica divina».
Sia la teologia, sia la Logica hegeliana attingono dalla terra le determinazioni di Dio, fanno di tali determinazioni indiate qualcosa di autonomo e di sostanziale e traggono la conseguenza che le determinazioni della terra, rispetto a Dio, sono qualcosa di accidentale e di derivato: un “predicato” rispetto al “soggetto”.
Se infatti si intende, con Hegel, il movimento puro dell’Idea come autonomo rispetto alla sensibilità, allora l’uomo e gli oggetti del suo mondo diventano un semplice “predicato” dell’Idea e del puro pensiero concepiti come “soggetto” (“soggetto” e “predicato”, in senso analogo a quello in cui si parla di soggetto e predicato di una proposizione — e infatti nell’idealismo il senso supremo del mondo è espresso dalla proposizione suprema del sapere). Come “soggetto”, l’Idea è la Legge che condiziona il “predicato”.
Ma se ci si rende conto che l’Idea non ha alcuna autonomia rispetto alla sensibilità, allora il vero rapporto tra l’Idea (il puro pensiero) e l’essere si inverte: l’essere — cioè l’uomo — diventa il “soggetto” e il pensiero puro il “predicato” che deriva ed è determinato dall’uomo. Qui ha la sua vera origine la celebre affermazione di Marx che non è la coscienza a determinare la vita, ma è la vita a determinare la coscienza.
L’affermazione di Hegel, dunque, che l’Idea, «l’essenza assoluta si svolge da sé» diventa vera a condizione che sia capovolta.
Tale affermazione pretende sostenere, secondo Feuerbach, un movimento puramente logico e al di fuori del tempo. Capovolgendo questa affermazione, si deve affermare che solo un’essenza che, come quella dell’uomo, «si svolge e si dispiega nel tempo è un’essenza assoluta, cioè vera, reale».
Anche qui: non si tratta di mostrare che l’assoluto (concepito secondo la tradizione teologico-metafisica) è presente nel tempo, ma che solo il tempo — la realtà umana — è l’essenza assoluta, vera e reale.
Solo l’essenza che, come quella umana, è nei limiti del tempo, del bisogno, dell’indigenza, della sofferenza, del dolore, è l’essenza assolutamente vera e reale. «L’essenza più colma di dolori è l’essenza divina» — nel senso nuovo che il “divino” assume quando i vecchi dèi sono stati portati al tramonto.
Solo l’essenza più colma di dolori, essendo l’essenza umana, è l’«essere in quanto essere», cioè l’essere libero, totale, «per sé stante, felice in sé stesso» — la felicità che deve competere a ciò che, pur essendo colmo di dolore, sa di essere l’Infinito. Il divenire della vita dell’uomo si pone così come il Rimedio di sé stesso.
3. L’essenza dell’uomo
In tutto quanto precede, l’espressione “essenza dell’uomo” non è casuale o sovrabbondante: l’essenza dell’uomo è l’uomo considerato nella sua essenza, cioè come genere, non come individuo.
L’individuo è limitato ed è dominato dall’essenza dell’uomo, che si realizza in ogni individuo e che quindi è rapporto tra l’io e il tu, ossia è intersoggettività.
L’uomo come genere è quindi l’uomo ricondotto alla società, “l’uomo sociale, comunista”. Il carattere sociale dell’uomo è anzi condizione necessaria dell’oggettività, perché solo dove l’io è trasformato e condizionato da un tu (e non da una semplice cosa) incomincia la rappresentazione di un’attività che esiste al di fuori dell’io, la rappresentazione cioè della oggettività.
4. Il sentimento e l’alienazione religiosa
La teologia è dunque — scrive Feuerbach — «il segreto della filosofia speculativa»: la filosofia hegeliana pone nell’aldiquà quella stessa essenza divina, immutabile e astratta, che la teologia, per timore e incomprensione, pone nell’aldilà.
Ma «il segreto della teologia è l’antropologia». L’antropologia è l’epistéme, in quanto riesce ad avere come proprio contenuto l’uomo, ossia in quanto vede nell’uomo l’“essere in quanto essere” e lo libera dalla falsa immagine che gli viene attribuita dalla cultura tradizionale fino all’idealismo incluso.
In una prospettiva che unifica Dio e mondo nella direzione dell’immanentismo idealistico, Federico Schleiermacher (1768- 1834) aveva assunto la religione come tema principale della sua indagine, giungendo alla tesi che il fondamento della religione è il sentimento.
Feuerbach chiama Schleiermacher «l’ultimo teologo del cristianesimo» e gli rivolge una critica completamente diversa da quella che Hegel gli aveva mosso. Per Hegel, nella religione il sentimento è solo qualcosa di secondario, soggettivo, formale — perché primario, oggettivo, sostanziale è il contenuto: Dio.
Feuerbach, invece, non critica Schleiermacher per aver ridotto la religione a sentimento, ma per non aver condotto sino in fondo questo concetto e per non aver avuto il coraggio di riconoscere che il cosiddetto Dio oggettivo non è altro che il sentimento in quanto appartenente all’essenza dell’uomo.
Il sentimento è quindi, nella religione, proprio ciò che è primario, oggettivo, sostanziale. Tutto ciò che nella religione sembra soprannaturale, misterioso, proveniente da lontano, trascendente, ecc. è invece completamente naturale, trasparente, vicino, immanente all’uomo.
«I misteri speculativi della religione non sono altro che verità empiriche.»
Ad esempio, nel “mistero” della Trinità cristiana (che Hegel, traducendolo nel rapporto tra Idea, Natura, Spirito, concepisce come un “mistero speculativo”) non c’è altra verità che questa: che soltanto la vita comunitaria, la vita dell’uomo sociale è vera vita e il vincolo che unisce il padre al figlio è appunto uno degli aspetti più radicali della vita sociale dell’uomo.
Basta guardare dunque l’essenza dell’uomo per trovare tutto ciò che l’uomo attribuisce a Dio. Il rivolgersi del sentimento all’Infinito è la stessa infinità del sentimento, il quale non è dunque il semplice “organo del divino” (lo strumento con cui si accede al divino), ma ciò che vi è di autenticamente divino nell’uomo.
«Come potresti tu percepire il divino mediante il sentimento, se il sentimento stesso non fosse di natura divina?» Rispetto alla fede ortodossa, il sentimento è ateo, perché nega il Dio oggettivo e immutabile separato dall’uomo: il sentimento «è Dio a sé stesso». Ma dal punto di vista del sentimento, la vera negazione di Dio è la negazione del sentimento.
La religione «aliena l’uomo da sé stesso», cioè gli fa porre al di fuori di sé ciò che gli è sostanziale.
E, analogamente, Dio, in quanto accessibile alla ragione, non è altro che la ragione; la sua essenza infinita è l’essenza della ragione; la sua necessità, incondizionatezza, immutabilità, sono la necessità, incondizionatezza, immutabilità della verità secondo cui la ragione procede.
Certo, queste espressioni hanno un significato diverso da analoghe espressioni hegeliane (non si tratta di mostrare — si è già visto — che l’Infinito della tradizione è presente in ciò che la tradizione chiama il “finito”, ma di riconoscere che il cosiddetto “finito” — l’uomo, il sensibile, il temporale, il corporeo — è qualcosa di non finito, ossia è proprio esso l’autentico infinito).
Ma è chiaro che Feuerbach non solo tien ferma l’epistéme, ma tien ferma anche quella “nuova” immutabilità (incondizionatezza, necessità) che appartiene all’essenza dell’uomo.
Dopo aver portato al tramonto il vecchio Dio in modo ancora più radicale di quello hegeliano, l’essenza dell’uomo è il nuovo Dio. Si tratta di riconoscere che per Feuerbach è proprio l’uomo che nasce e che muore (il cosiddetto “finito”) a essere infinito.
Eppure quest’ultimo infinito ha ancora il vecchio significato della tradizione teologico-metafisica. L’essenza dell’uomo è infinita: ma il significato dell’ “essenza”, anche riferito all’uomo, ha ancora il significato che la tradizione attribuisce all’“essenza” — ossia il significato di ciò che domina, governa, guida e regola il flusso del divenire. L’essenza dell’uomo appartiene alla serie degli immutabili che il pensiero contemporaneo va via via portando al tramonto.
Max Stirner
Johann Kaspar Schmidt noto sotto lo pseudonimo di Max Stirner nacque a Bayreuth nel 1806 e studiò a Berlino tra gli altri con Hegel e Schleiermacher. Si mise presto in luce come uno degli esponenti più radicali della sinistra hegeliana e pubblicò nel 1845 la sua opera fondamentale L’Unico e la sua proprietà alla quale fecero seguito la Storia della reazione (1852) e vari scritti minori. Mori a Berlino nel 1856.
L’Unico di Stirner
Nell’ordine di considerazioni indicato al termine del paragrafo precedente si muove la filosofia di Massimo Stirner (pseudonimo di J. K. Schmidt, 1806–1856), il più radicale degli hegeliani di sinistra. Nell’“Uomo”, che la cultura moderna sostituisce a “Dio”, Stirner vede ripresentarsi il vecchio Dio, cioè il Signore, il Padrone, la Legge che ostacola e soffoca il divenire della realtà effettiva.
E la realtà effettiva è certamente l’uomo, ma non l’uomo considerato come “essenza”, ma quest’uomo qui che sono io e che, anche quando cerco di nascondermelo, considero misura di tutte le cose.
Non si tratta allora di sapere “che cosa è l’uomo”, ma di rendersi conto che io sono l’uomo, ossia che è proprio quello che io sono, nella mia assoluta specificità e “unicità”, a conferire significato alla parola “uomo”.
Il divenire originario e autentico è infatti quello in cui io, a partire dal mio niente, produco tutto. Questa mia irripetibile produzione di tutto — il mio essere produttore del mio mondo, il mio essere «creatore effimero e perituro che da sé stesso si consuma» — è cioè il divenire che ha valore di autentica evidenza e indiscutibilità. Soltanto io sono la “verità”.
Ma io non sono la “verità” della cultura occidentale, che è l’“essenza suprema”, il pensiero incontrovertibile, l’epistéme (anche se Stirner non usa questo termine) in nome della quale sono state vanificate tutte le divinità e Dio stesso.
La “verità” come pensiero incontrovertibile, come «pensiero che aleggia sopra tutti gli altri» è ciò che non mi appartiene e non è in mio potere. Qualcosa è per me la “verità” in questo senso, quando mi sento impotente verso di esso.
Anche Feuerbach, rifacendosi a Hegel, aveva richiamato che la verità (come la volontà e il sentimento) domina l’individuo, ma Stirner deve ormai concludere che l’entusiasmo e la contentezza per la verità è l’entusiasmo e la contentezza per aver trovato un padrone — il padrone che salva dall’angoscia del divenire.
Anticipando un tema centrale di Nietzche, Stirner rileva che la mia impotenza verso la verità paralizza la mia creatività, cioè la potenza del divenire in cui io consisto. È dalla mia impotenza che nasce la potenza della verità.
Questa “verità superiore” che vorrebbe sovrastarmi non può essere altro che «lo strumento della mia vittoria», cioè “mia proprietà”, uno strumento col quale riesco a prevalere nel mondo, una mia “creatura”.
«Con la “verità” si è cambiata la faccia della terra» scrive Stirner.
«Ma io non accetterò mai di diventare lo schiavo delle nostre nuove macchine; aiuterò a metterle in azione soltanto per il mio proprio uso: in questo modo io userò, è vero, delle nostre verità, ma non mi lascerò mai imprigionare da esse e per esse.»
E non solo il mondo corporeo, ma anche lo “spirito di verità” non può essere altro che il «materiale dal quale io faccio ciò che voglio» e rispetto al quale non sono più preso da alcun «sacro terrore» (il terrore per il Rimedio escogitato contro il terrore del divenire).
Come ogni materiale di cui sono proprietario, ogni verità è quindi variabile e precaria. Non vi è nulla al di sopra e oltre di me, che sono il «Nulla creatore da cui sono uscito», il possessore della mia potenza, e che la posseggo nell’atto stesso in cui mi sento unico:
«Qualsiasi ente superiore a me, sia esso Dio o Uomo, deve inchinarsi davanti al sentimento della mia unicità, e impallidire al sole di questa mia coscienza».
La storia dell’uomo si realizza così, per Stirner, in due tempi: gli antichi hanno voluto “idealizzare il reale” (trovare cioè — la formula di Stirner può essere così esplicitata — l’Idea, il Senso, il Fondamento, l’Origine della realtà diveniente) e hanno finito col disprezzare il reale (tale disprezzo è dato dalla saggezza che, ponendosi al di sopra del divenire, lo rende irreale); a partire dal cristianesimo si è voluto invece “realizzare l’ideale” (Dio si è fatto uomo, scende cioè, per salvarlo, in quell’uomo — anche qui si può così rendere esplicito il pensiero di Stirner — che veniva soffocato dall’esistenza di un Dio lontano) — ed Hegel è una delle tappe decisive di questo processo — , ma è inevitabile che si finisca con la più radicale negazione di ogni ideale che si ponga al di sopra dell’uomo.
E l’ideale non è soltanto la “verità” (e ogni “anima”, “principio”, “punto di appoggio”) e “Dio”, ma anche l’Uomo, e tutte le “buone cause”, tutti gli ideali della religione, della morale, della politica: l’altruismo, l’amore, la bontà, la giustizia, il filantropismo, l’umanesimo, la fratellanza, l’eguaglianza, la libertà, la Chiesa, lo Stato, i partiti e il popolo; e non solo gli ideali borghesi, ma anche quelli del socialismo e del comunismo, che vogliono sottopormi alla società e al lavoro come “libera attività”.
Ogni forma di società gerarchica riproduce la situazione in cui io mi trovo sottoposto a uno spettro che esercita su di me una assoluta potenza.
Il movimento anarchico ha trovato in Stirner uno dei suoi maggiori teorici.
Lo Stato borghese non può essere abbattuto da una rivoluzione (che riproduce la gerarchia), ma da una “insurrezione” dei singoli individui, che danno luogo a una “associazione” in cui ognuno vede negli altri un mezzo per accrescere la propria forza.
E qui ci si trova al punto più delicato del pensiero di Stirner, perché l’unico è pur sempre da lui concepito come una pluralità di unici. Ognuno è un unico. E se ognuno si comporta in base al proprio egoismo, la sua pretesa di essere “tutto in tutto”, che non ha nulla al di sopra di sé ed è l’assoluto creatore di sé stesso, è soltanto apparente e velleitaria, perché gli “unici” più forti si portano — come del resto han sempre fatto — al di sopra degli “unici” più deboli; e, dallo stesso punto di vista di Stirner, gli “unici” più forti non potranno essere rimproverati di alcunché: saranno anzi gli unici a realizzare per davvero le proprietà dell’“Unico”.
Da Emanuele Seveino, La filosofia occidentale, Milano, Rizzoli, 1986, pp. 48–58