La scuola di Francoforte e il principio di prestazione
di Emanuele Severino
La centralità della cultura
Nella rivoluzione leninista e maoista, l’egemonia e la “rivoluzione culturale” sono conseguenza e sviluppo della presa del potere, da parte della classe rivoluzionaria, a causa delle condizioni di arretratezza della Russia e della Cina, dove solamente la conquista del potere può consentire lo sviluppo della coscienza di classe e la rivoluzione culturale.
Come per Gramsci, anche per gli esponenti della cosiddetta scuola di Francoforte — Max Horkheimer (1895–1973), Theodor W. Adorno (1903–1969), Herbert Marcuse (1898–1979), Erich Fromm (1900–1980), Jürgen Habermas (n. 1929) — la rivoluzione culturale è invece la premessa di fondo per l’evoluzione verso il socialismo. Anche perché, per Horkheimer e Adorno, il capitalismo non è soltanto il maggior fenomeno sociale dell’età moderna, ma è l’erede dell’intera tradizione culturale dell’Occidente.
Il capitalismo, infatti, raccoglie in sé e potenzia al massimo il modo in cui l’Occidente intende la “ragione” stessa: la ragione come dominio sulla realtà, la “ragione strumentale”. Ed è inevitabile che la volontà di dominio finisca con l’oggettivare lo stesso soggetto dominatore, e che l’uomo si trovi ad essere cosa tra le cose, in un mondo regolato dal principio feticistico della produzione della merce e del mercato — un principio che ormai non controlla più soltanto ciò di cui l’uomo ha bisogno per vivere, ma tutti gli aspetti della vita umana, presentandosi come organizzazione del tempo libero, come “industria culturale” e soprattutto come sostituzione dei bisogni reali dell’uomo con bisogni artificiali, costruiti in modo che da essi venga desiderato soltanto ciò che esiste e che è controllato dalle forze dominanti.
La stessa classe del proletariato rivoluzionario, invece di appropriarsi del proprio lavoro, come prevedeva Marx, non solo continua ad essere una proprietà del meccanismo produttivo, ma ha adeguato le proprie aspirazioni a ciò che tale meccanismo le impone e che comprende la stessa convinzione di essere liberi e appagati nei bisogni fondamentali e, ormai, anche in quelli secondari.
L’unidirezionalità dell’esistenza
È, questa, la situazione in cui si trova, come si esprime Marcuse, «l’uomo a una dimensione», la dimensione cioè dominata dal «principio della prestazione», ossia dal principio che tutte le energie dell’individuo devono essere rivolte alla produzione e al lavoro. Con Freud, Marcuse rileva che la repressione del piacere e della felicità è il costo che la società deve pagare per realizzarsi; ma, a differenza di Freud, egli ritiene che la società capitalistica abbia operato una repressione addizionale del piacere e della felicità, per sviluppare al massimo il “principio di prestazione”.
Nella scuola di Francoforte, tuttavia, la critica della “ragione strumentale” non conduce verso la ragione epistemica, ma ad una ragione dialettica che non può pervenire mai, a differenza della ragione hegeliana, ad una sintesi conclusiva, e che quindi pone di fronte alle contraddizioni non risolte e non conciliate della realtà.
La impossibilità di una totalità pacificata
La dialettica è sì riferimento alla totalità, giacché è la totalità del mondo che si tratta di trasformare; ma la totalità non è mai “pacificata”, ossia non è e non potrà mai essere un ordinamento definitivo (epistemico) che, credendo di aver superato ogni contraddizione, si impone al divenire, assumendolo come razionale e conferendo una giustificazione apparente a ciò che nel divenire reale è invece irrazionale, ingiustificabile, disorganico, contraddittorio.
L’apertura alla religione
Filosofi marxisti come Bloch, Garaudy (n. 1913) e francoforttesi, come W. Benjamin (1892–1940), Fromm, Horkheimer si aprono al punto di vista religioso, abbandonando il principio marxiano per il quale la religione è una prospettiva ideologica che distoglie i popoli dalla lotta per la loro emancipazione.
Per Bloch la religione — e l’eresia — è una delle grandi forme della “speranza” che tiene aperto il futuro.
E anche per Horkheimer Dio è una “speranza”, un’“aspirazione”, anche se non è possibile provare la sua esistenza, perché «di fronte al dolore del mondo, di fronte all’ingiustizia è impossibile credere nel dogma dell’esistenza di un Dio onnipotente e insieme sommamente buono».
Rimane però l’aspirazione al “totalmente altro” (un’espressione, questa, che Horkheimer riprende dal più grande teologo del nostro secolo, Karl Barth, il quale a sua volta la riceve da Kierkegaard), alla dimensione in cui «non possa avvenire che l’ingiustizia possa essere l’ultima parola» (Horkheimer, La nostalgia del totalmente altro).
E Fromm riprende, nel 1976, la contrapposizione tra essere e avere, formulata quarant’anni prima da Gabriel Marcel (1889–1973) uno dei maggiori esponenti dell’esistenzialismo cristiano. Per Fromm l’avere è l’atteggiamento del dominio, della proprietà privata e dell’aggressività senza limiti; l’essere è l’atteggiamento dell’uomo libero, aperto al futuro, capace di controllare le modalità e gli scopi del proprio lavoro e di comprendere la propria posizione rispetto alla totalità del reale. In questo senso, l’atteggiamento dell’essere è essenzialmente religioso, e ad esso conducono, oltre al buddhismo, al Vecchio e al Nuovo Testamento, ai mistici medioevali, anche il pensiero di Spinoza, di Freud e di Marx (cfr. E. Fromm, Avere o essere?, tr. it., Mondadori, Milano 1986).
Emanuele Severino, La filosofia contemporanea, Milano, RCS libri, 2010, pp. 293–96