La scrittura e il silenzio

di Roland Barthes

Mario Mancini
5 min readNov 22, 2020

Da: Il grado zero della scrittura, Parte seconda

Vai all’indice le libro mosaico “Il grado zero della scrittura” di Roland Barthes

I ritagli di Matisse: “Maquette pour Chasuble rouge”, 1950-1952

La scrittura artigianale, all’interno del patrimonio borghese, non coinvolge alcun ordine; privo di altre possibilità di lotta, lo scrittore possiede una passione sufficiente a giustificarlo: la generazione della forma. Se egli rinuncia alla liberazione del nuovo linguaggio letterario, può almeno rincarare la dose sull’antico, riempirlo di intenzioni, di preziosità, di splendori, di arcaismi, creare una lingua ricca e mortale.

La grande scrittura tradizionale, quella di Gide, di Valéry, di Montherlant, anche di Breton, sta a indicare che la forma, nella sua pesantezza, nel suo eccezionale drappeggio, è un valore che trascende la Storia, come può esserlo il linguaggio liturgico nei sacerdoti.

Questa scrittura sociale, altri scrittori hanno pensato di poterla esorcizzare disintegrandola; essi hanno allora minato il linguaggio letterario, hanno fatto esplodere a ogni istante il gusto rinascente delle frasi fatte, delle abitudini, dell’educazione formale dello scrittore; nel caos delle forme, nel deserto delle parole, essi hanno pensato di raggiungere un oggetto assolutamente privato di Storia, di ritrovare la freschezza di un nuovo stato del linguaggio.

Ma queste perturbazioni finiscono per scavare i loro solchi, e creare le loro leggi. Le Belle Lettere minacciano ogni linguaggio che non sia puramente fondato sul commercio sociale. Rifuggendo sempre più da una sintassi del disordine, la disintegrazione del linguaggio conduce inevitabilmente al silenzio della scrittura.

L’agrafia finale di Rimbaud e di certi surrealisti (caduti per questo nell’oblio), il loro sconvolgente siluramento della Letteratura, insegna che, per certi scrittori, il linguaggio, prima e ultima risorsa del mito letterario, finisce col ricomporre ciò che pretendeva di evitare; che non c’è scrittura capace di mantenersi rivoluzionaria, e ogni silenzio della forma non sfugge all’impostura che col mutismo completo.

Mallarmé, specie di Amleto della scrittura, esprime bene questo fragile momento della Storia, in cui il linguaggio letterario si regge soltanto per meglio cantare la sua necessità di morire.

L’agrafia tipografica di Mallarmé vuol creare intorno alle parole rarefatte una zona di vuoto in cui la parola, liberata dalle sue risonanze sociali e colpevoli, cessa felicemente di destare echi. Il vocabolo, dissociato dall’insieme delle formule abituali, dei riflessi tecnici dello scrittore, è allora pienamente irresponsabile di tutti i possibili contesti; si avvicina con un gesto breve, singolare, la cui compattezza attesta una solitudine, dunque un’innocenza.

Quest’arte ha la struttura stessa del suicidio: il silenzio, in essa, è un tempo poetico omogeneo che si incunea tra due strati e fa esplodere la parola, ancor più del frammento di un crittogramma, come una luce, un vuoto, un assassinio, una libertà (si sa quanto questa ipotesi di un Mallarmé uccisore del linguaggio abbia influito su Maurice Blanchot).

Questo linguaggio mallarmeiano, è Orfeo che può salvare chi ama solo rinunciandovi e che tuttavia osa voltarsi un po’ indietro; è la Letteratura condotta alle porte della Terra Promessa, cioè alle porte di un mondo senza Letteratura, di cui tuttavia sarebbe ancora compito degli scrittori dare testimonianza.

In questo sforzo di liberazione del linguaggio letterario, ecco un’altra soluzione: creare una scrittura bianca, sciolta da ogni schiavitù a un ordine manifesto del linguaggio. Un paragone, ripreso dalla linguistica, renderà conto forse con sufficiente esattezza di questo fatto nuovo: è noto che certi linguisti stabiliscono tra i due termini di una polarità (singolare-plurale, passato-presente) l’esistenza di un terzo termine, detto termine neutro o termine zero; così tra i modi congiuntivo e imperativo, l’indicativo ha per loro le caratteristiche di una formula amodale.

Con le dovute proporzioni, la scrittura al livello zero è in fondo una scrittura «indicativa», o, se si vuole, amodale; sarebbe giusto dire che è una scrittura da giornalisti, se precisamente il giornalismo non sviluppasse in generale forme ottative o imperative (cioè patetiche).

La nuova scrittura neutra si pone in mezzo a queste grida e a questi giudizi, senza parteciparvi affatto, essendo propriamente costituita dalla loro assenza. Ma questa assenza è totale, non implica alcun rifugio, o segreto; non si può dire perciò che sia una scrittura impassibile, piuttosto una scrittura innocente.

È necessario allora superare la Letteratura affidandosi a una specie di lingua basica, ugualmente lontana dal linguaggio parlato e da quello letterario propriamente detto. Questa parola trasparente, inaugurata dall’Etranger di Camus, realizza uno stile dell’assenza che è quasi un’assenza ideale dello stile: la scrittura si riduce a una specie di modo negativo, nel quale i caratteri sociali o mitici di un linguaggio sono aboliti per uno stato neutro e inerte della forma; il pensiero salva così tutta là sua responsabilità, senza rivestirsi di un accessorio impegno della forma in una Storia che non gli appartiene.

Se la scrittura di Flaubert contiene una legge, se quella di Mallarmé postula un silenzio, se altre, quelle di Proust, di Céline, di Queneau, di Prévert, ciascuna a suo modo, si fondano sull’esistenza di una natura sociale, se tutte queste scritture implicano una opacità della forma, suppongono una problematica del linguaggio e della società, fissando la parola come un oggetto che deve essere trattato da un artigiano, da uno stregone, o da un modesto scrittore, ma non da un intellettuale, la scrittura neutra ritrova realmente la prima condizione dell’arte classica: la strumentalità.

Ma questa volta lo strumento formale non è più al servizio di un’ideologia trionfante; è il modo di una situazione nuova dello scrittore, è il modo di esistere di un silenzio; lascia volontariamente ogni ricorso all’eleganza o all’ornamentazione, perché queste due dimensioni introdurrebbero di nuovo nella scrittura il tempo, cioè una potenza derivata, portatrice di Storia.

Se la scrittura è veramente neutra, se il linguaggio, invece di essere un atto ingombrante e indomabile raggiunge lo stato di una equazione pura, sottile come un’algebra davanti al vuoto dell’uomo, allora la Letteratura è vinta, la problematica umana è scoperta e rivelata senza colori, lo scrittore è senza scampo un uomo onesto.

Ma, disgraziatamente, niente è più infido di una scrittura bianca; gli automatismi si elaborano proprio dove per l’innanzi si trovava una libertà, una rete di forme irrigidite soffoca sempre più l’originaria freschezza del discorso, una scrittura rinasce al posto di un linguaggio indeterminato.

Lo scrittore, aderendo alla classicità, diventa l’epigono della sua primitiva creazione, la società fa della sua scrittura una maniera e lo rende prigioniero dei suoi miti formali.

Fonte: Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Milano, Lerici editore, 1960, pp. 89–96.

--

--

Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.