La scrittura del romanzo
di Roland Barthes
Da: Il grado zero della scrittura, Parte prima
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Romanzo e Storia sono stati in stretto rapporto proprio nel secolo che ha visto la loro più grande fioritura. Il loro profondo legame, ciò che dovrebbe permettere di capire un Balzac allo stesso modo che un Michelet, è in ambedue la costruzione di un universo autosufficiente, capace di fabbricarsi le proprie dimensioni e i propri limiti, e disporvi il proprio Tempo, Spazio, popolazione, la propria collezione di oggetti e i propri miti.
Questa sfericità delle grandi opere del XIX secolo ha trovato la sua espressione nei lunghi recitativi del Romanzo e della Storia, simili a proiezioni piane in un mondo curvo e coerente, di cui il romanzo feuilleton, nato allora, presenta nelle sue volute un’immagine degradata.
E tuttavia la forma narrativa non è una legge necessaria del genere letterario. Un’intera epoca ha potuto concepire romanzi epistolari, per esempio; e un’altra può fare Storia per sole analisi.
Il Racconto come forma estensibile al Romanzo e insieme alla Storia, resta perciò, in generale, proprio la scelta o l’espressione di un momento storico.
Scaduto nel linguaggio parlato, il passato remoto, pietra angolare del Racconto, è sempre il segnale di un’intenzione artistica; fa parte di un rituale delle Belle Lettere. Non ha più il compito di esprimere un tempo. Il suo ruolo è di riportare la realtà a un punto, e di astrarre, dalla molteplicità dei tempi vissuti e sovrapposti, un puro atto verbale, libero dalle radici esistenziali dell’esperienza e orientato verso un legame logico con altre azioni, altri processi, un movimento generale dell’universo: esso mira a mantenere una gerarchia nel regno dei fatti.
Nella sua forma di passato remoto, il verbo viene a fare implicitamente parte di una catena di cause, partecipa a un insieme di azioni solidali e orientate, funziona come il segno algebrico di un’intenzione; reggendo l’equivoco tra temporalità e causalità, richiede uno svolgimento, cioè una comprensibilità del Racconto.
Per questo esso è lo strumento ideale di tutte le costruzioni dell’universo; è il tempo fittizio delle cosmogonie, dei miti, delle Storie e dei Romanzi.
Suppone un mondo costruito, elaborato, distaccato, ridotto a linee significative, e non un mondo immotivato, aperto, disponibile.
Dietro il passato remoto si nasconde sempre un demiurgo, dio o esecutore; il mondo non è inspiegabile quando lo si narra, ciascuno dei suoi accidenti è circostanziato, e il passato remoto è precisamente quel segno di operazione mediante il quale il narratore riconduce le divergenze della realtà a un verbo esile e puro, senza densità, né volume o estensione, la cui sola funzione è di congiungere il più rapidamente possibile una causa e un fine.
Quando lo storico afferma che il duca di Guisa mori il 23 dicembre 1588, o quando il romanziere racconta che la marchesa uscì alle cinque, queste azioni emergono da un passato
senza spessore; libere dall’incertezza dell’esistenza, esse hanno la stabilità e il contorno di un’algebra, sono un ricordo, ma un ricordo utile, il cui interesse ha molto più valore che non la sua durata.
Il passato remoto è dunque in fondo l’espressione di un ordine e conseguentemente di un’euforia. Fa si che la realtà non sia misteriosa, né assurda, bensì chiara, quasi familiare; raccolta ogni momento’ e contenuta nella mano di un creatore, essa subisce l’ingegnosa pressione della sua libertà.
Per tutti i grandi narratori del XIX secolo, il mondo può essere patetico, ma non è abbandonato, perché è sempre un insieme di rapporti coerenti, perché non c’è sovrapposizione dei fatti scritti, perché chi racconta ha il potere di negare l’opacità e la solitudine delle esistenze che lo compongono, perché in ogni frase può dare testimonianza di una comunicazione e di una gerarchia delle azioni, perché francamente queste azioni stesse, in definitiva, si possono ridurre a segni.
Il passato narrativo fa parte, dunque, di un sistema di sicurezza delle Belle Lettere. Immagine di un ordine, esso costituisce uno di quei numerosi contratti formali stabiliti tra scrittore e società, per la giustificazione dell’uno e la serenità dell’altra.
Il passato remoto significa una creazione: cioè la segnala e la impone. Anche se usato nel più grigio realismo, esso rassicura, perché, grazie ad esso, il verbo esprime un atto chiuso, definito, sostantivato; il Racconto ha un nome, sfugge al pericolo di un linguaggio indeterminato: la realtà si assottiglia e si fa familiare, entra in uno stile, non rompe gli argini del linguaggio; la Letteratura resta il valore d’uso di una società avvertita del senso di ciò che essa
consuma dalla forma stessa delle espressioni.
Al contrario, quando il racconto è messo da parte e gli sono preferiti altri generi letterari, oppure quando all’interno della narrazione il passato remoto è sostituito da forme meno esornative, più fresche, più dense e più vicine al linguaggio parlato (il presente o il passato prossimo), la Letteratura allora diviene depositaria dello spessore dell’esperienza e non del suo significato. Le azioni, divise dalla Storia, non lo sono più dai personaggi.
Ci si spiega allora quanto di utile e quanto di intollerabile ha il passato remoto del Romanzo; è una falsità palese; designa, per così dire, il campo di una verosimiglianza che svela il possibile nel momento stesso in cui lo indica come falso.
La finalità comune del Romanzo e della Storia narrata è di alienare i fatti: il passato remoto è appunto l’atto di possesso della società sul suo passato e le sue possibilità.
Istituisce una continuità credibile ma la cui illusione salta agli occhi, come il termine ultimo di una dialettica formale che vestisse il fatto irreale delle apparenze successive della verità, poi della falsità confessata.
Ciò va messo in rapporto con una certa mitologia dell’universale, propria della società borghese, di cui il Romanzo è un prodotto caratteristico: dare all’immaginario la garanzia formale del reale, ma lasciare a questo segno l’ambiguità di un oggetto duplice, insieme verosimile e falso, è un’operazione costante in tutta l’arte occidentale: il falso è pari al vero, non per agnosticismo o per ambiguità poetica, ma perché si ritiene che il vero contenga un germe di universale, o, se si preferisce, un’essenza capace di fecondare, per semplice riproduzione, ordini differenziati mediante l’allontanamento dal vero o mediante la pura finzione.
Con un simile procedimento la borghesia trionfante del secolo scorso ha potuto considerare i propri valori come universali e riportare su parti assolutamente eterogenee della propria società tutti i Nomi della propria morale.
Questo è propriamente il meccanismo del mito, e il Romanzo — e nel Romanzo il passato remoto — sono oggetti mitologici, che sovrappongono alla loro intuizione immediata il ricorso successivo a una dogmatica, o meglio ancora a una pedagogia, perché si tratta di esprimere un’essenza sotto l’aspetto di un artificio.
Per cogliere il significato del passato remoto, basta paragonare l’arte occidentale del romanzo a certa tradizione cinese, per esempio, in cui l’arte non è altro che la perfezione nell’imitazione del reale; ma là, niente, nessun segno assolutamente deve distinguere l’oggetto naturale da quello artificiale: questa noce di legno non deve suggerirmi, insieme all’immagine di una noce, l’intenzione di indicarmi l’arte che l’ha fatta nascere.
Ciò fa, al contrario, la scrittura romanzesca. Essa ha il compito di mettere la maschera, e insieme di indicarla.
Questa funzione ambigua del passato remoto, si ritrova in un altro fatto di scrittura: la terza persona del Romanzo.
Qualcuno forse si ricorda di un romanzo di Agatha Christie in cui tutta l’invenzione consisteva nel dissimulare l’assassino sotto la prima persona del racconto. Il lettore cercava l’assassino dietro tutti i vari «egli» dell’intrigo: ma era sotto l’«io». Agatha Christie sapeva perfettamente che d’ordinario l’«io» è testimonio, mentre l’«egli» è attore.
Perché? L’«egli» è una convenzione-tipo del romanzo; allo stesso modo del tempo narrativo l’«egli» segnala e completa il fatto romanzesco; senza la terza persona, c’è impotenza a raggiungere il romanzo, o volontà di distruggerlo.
L’«egli» manifesta formalmente il mito; ora, almeno in Occidente, l’abbiamo appena visto, non c’è arte che non additi la propria maschera. La terza persona, come il passato remoto, rende dunque questo servizio all’arte del romanzo e fornisce ai suoi consumatori la sicurezza di una narrazione credibile e pertanto manifestamente espressa come falsa.
Meno ambiguo, l’«io» è perciò stesso meno romanzesco: è dunque nello stesso tempo la soluzione più immediata, nei casi in cui il racconto si mantiene al di qua della convenzione letteraria (l’opera di Proust, per esempio, non vuol essere altro che un’introduzione alla Letteratura), e la più elaborata, quando l’«io» si colloca al di là della convenzione e tenta di distruggerla riportando il racconto alla falsa naturalezza di una confidenza (che è la forma, diremmo, di ritorsione propria di certi racconti gidiani).
Ugualmente, l’uso dell’«egli» romanzesco impegna due etiche opposte: poiché la terza persona del romanzo rappresenta una convenzione indiscussa, essa seduce i più accademici e i meno tormentati quanto tutti gli altri che alla fine giudicano la convenzione necessaria alla freschezza della loro opera.
In ogni caso, essa è il segno di un patto chiaro tra la società e l’autore; ma per quest’ultimo è anche il primo strumento per rappresentare il mondo come più gli piace.
Essa è dunque qualcosa di più che un esperimento letterario: un atto umano che lega la creazione alla Storia o all’esistenza.
In Balzac, per esempio, la molteplicità dei tipi di «egli», tutta quella vasta rete di persone esili per il volume del loro corpo, ma conseguenti per la durata dei loro atti, svela resistenza di un mondo in cui la Storia è il primo elemento dato.
L’«egli» di Balzac non è il termine di una gestazione partita da un «io» trasformato e generalizzato; è l’elemento originale e bruto del romanzo, il materiale e non il frutto della creazione: non c’è una storia balzacchiana che preceda la storia di ogni terza persona del romanzo balzacchiano.
L’«egli» di Balzac è analogo all’«egli» di Cesare: la terza persona realizza qui una sorta di stato algebrico dell’azione, dove l’esistenza ha la minor parte possibile, a profitto di un legame, di una chiarezza o di una tragicità dei rapporti umani.
All’opposto — o in ogni caso in precedenza — la funzione dell’«egli» nel romanzo può essere quella di esprimere un’esperienza esistenziale. In molti romanzieri moderni, la storia dell’uomo si confonde con la parabola della coniugazione: partito da un «io» che è ancora la forma più fedele dell’anonimato, l’uomo-autore conquista a poco a poco il diritto alla terza persona, via via che resistenza diventa destino, e il soliloquio Romanzo.
Qui l’apparizione dell’«egli» non segna più l’allontanamento dalla storia, è il termine di uno sforzo che ha potuto dar luogo, liberandola da un mondo personale di umori e di movimenti, a una forma pura, significativa, e perciò subito svanita, grazie allo sfondo perfettamente convenzionale e esile della terza persona.
È questo certamente il percorso esemplare dei primi romanzi di Jean Cayrol. Ma mentre nei classici — ed è noto che per quanto riguarda la scrittura il classicismo arriva fino a Flaubert — l’allontanamento della persona psicologica è prova di una corrispondente installazione dell’uomo come essenza, nei narratori sul tipo di Cayrol la invasione dell’«egli» è una conquista progressiva condotta contro la spessa ombra dell’«io» esistenziale; così il romanzo, identificabile per mezzo di segni più formali, è un atto di socialità; esso fonda la Letteratura.
Maurice Blanchot ha dimostrato a proposito di Kafka che l’elaborazione del racconto impersonale (è da notare, a proposito di questa espressione, che la «terza persona» è sempre data come un grado negativo) era un atto di fedeltà all’essenza del linguaggio poiché questo tende naturalmente alla propria distruzione.
Si capisce allora come l’«egli» sia una vittoria sull’«io», nella misura in cui questo realizza una condizione più letteraria e più distaccata insieme.
Tuttavia la vittoria è continuamente compromessa: la convenzione letteraria dell’«egli» è necessaria alla riduzione della persona ma rischia a ogni momento di ingombrarla con uno spessore inatteso.
La Letteratura è come il fosforo: brilla di più nel momento in cui tenta di morire. Ma poiché, d’altra parte, essa è un atto che implica di necessità la durata — soprattutto nel Romanzo — in ultima analisi non si dà mai Romanzo senza bella letteratura.
Cosi la terza persona del Romanzo è uno dei segni più ossessivi di quella tragicità della scrittura, nata nel secolo scorso quando, sotto il peso della Storia, la Letteratura si è trovata disgiunta dalla società che la deve consumare.
Tra la terza persona di Balzac e quella di Flaubert, c’è un intero mondo (quello del 1848): là una Storia aspra nel suo spettacolo, ma coerente e sicura, il trionfo di un ordine; qui un’arte che, per sfuggire alla cattiva coscienza, insiste nella convenzione o tenta di distruggerla con furore. La modernità comincia con la ricerca di una Letteratura impossibile.
Si ritrova così nel Romanzo l’apparato distruttivo e resurrezionale insieme proprio di tutta l’arte moderna. Ciò che si tratta di distruggere è la durata, cioè la connessione ineffabile dell’esistenza; l’ordine, sia quello della continuità poetica o quello dei segni romanzeschi, quello del terrore o quello della verosimiglianza, è un assassinio intenzionale.
Ma ciò che riconquista lo scrittore è sempre la durata, perché è impossibile sviluppare una negazione nel tempo, senza elaborare un’arte positiva, un ordine da distruggere di nuovo.
Così le più grandi opere della modernità si arrestano il più a lungo possibile, per una sorta di miracolosa resistenza, alle soglie della Letteratura, in quello stato vestibolare in cui lo spessore della vita è dato, disteso, senza essere ancora tuttavia distrutto dal coronamento di un ordine dei segni; c’è l’esempio della prima persona di Proust, la cui opera è tutta uno sforzo prolungato e ritardato nella direzione della Letteratura.
Quello di Jean Cayrol, che al Romanzo accede volutamente solo al termine più tardo del soliloquio, come se l’atto letterario, supremamente ambiguo, potesse produrre una creazione consacrata dalla società solo nel momento in cui è riuscito a distruggere la densità esistenziale di una durata priva fino a quel momento di significato.
Il Romanzo è una Morte; della vita fa un destino, del ricordo un atto utile, e della durata un tempo orientato e significativo. Ma questa trasformazione può compiersi soltanto sotto gli occhi della società. È la società a imporre il Romanzo, cioè un complesso di segni, come trascendenza e come Storia di una durata.
Proprio dunque dall’evidenza della sua intenzione, colta nella chiarezza dei segni narrativi si riconosce il patto che lega, con tutta la solennità propria dell’arte, lo scrittore alla società. Il passato remoto e la terza persona del Romanzo sono appunto il gesto inevitabile con cui lo scrittore addita la sua maschera.
Ogni letteratura può dire: «Larvatus prodeo», avanzo indicando la mia maschera. Sia l’esperienza inumana del poeta che si addossa la frattura più grave, quella del linguaggio sociale, o la menzogna credibile del romanziere, la sincerità qui ha bisogno di segni falsi, ed evidentemente falsi, per durare ed essere consumata. Il prodotto, e alla fine la fonte di questa ambiguità, è la scrittura.
Questo linguaggio speciale il cui uso dà allo scrittore una funzione gloriosa ma controllata, dà prova di una certa invisibile servitù nei primi passi, caratteristica di ogni responsabilità: la scrittura, libera ai suoi esordi, finisce per essere il legame che avvince lo scrittore a una Storia anch’essa incatenata: la società la distingue con i segni chiari dell’arte al fine di trascinarla con più sicurezza nella propria alienazione.
Fonte: Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Milano, Lerici editore, 1960, pp. 41–50