La sceneggiatura come “struttura che vuol essere altra struttura»
di Pier Paolo Pasolini
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Il dato concreto del rapporto tra cinema e letteratura è la sceneggiatura. Non mi interessa però tanto osservare la funzione mediatrice della sceneggiatura, e l’elaborazione critica dell’opera letteraria che essa conduce, “integrandola figuralmente” con la prospettiva altrettanto critica dell’opera cinematografica che essa presuppone.
In questa nota quello che mi interessa della sceneggiatura è il momento in cui la sceneggiatura può essere considerata una “tecnica” autonoma, un’opera integra e compiuta in se stessa. Prendiamo il caso di una sceneggiatura di uno scrittore, non tratta da un romanzo e — per una ragione o l’altra — non tradotta in film.
Questo caso ci presenta una sceneggiatura autonoma: che può rappresentare benissimo una vera e propria scelta dell’autore: la scelta di una tecnica narrativa.
Qual è il canone di giudizio per una simile opera? Se la si considera completamente appartenente alle “scritture” — cioè nient’altro che il prodotto di un “tipo di scrittura” il cui elemento fondamentale sia quello di scrivere attraverso la tecnica della sceneggiatura — allora essa va giudicata nel solito modo con cui si giudicano i prodotti letterari, e precisamente come un nuovo “genere” letterario, con la sua prosodia e la sua metrica particolari ecc. ecc.
Ma tacendo questo, si compirebbe una operazione critica errata e arbitraria. Se nella sceneggiatura non c’è l’allusione continua a un’opera cinematografica da farsi, essa non è più una tecnica, e il suo aspetto di sceneggiatura è puramente pretestuale (caso che non si è ancora dato). Se dunque un autore decide di adottare la “tecnica” della sceneggiatura come opera autonoma, deve accettare insieme l’allusione a un’opera cinematografica “da farsi”, senza la quale la tecnica da lui adottata è fittizia — e quindi rientra direttamente nelle forme tradizionali delle scritture letterarie.
Se invece accetta, come elemento sostanziale, struttura, della sua “opera in forma di sceneggiatura”, l’allusione a un’opera cinematografica-visualizzatrice “da farsi”, allora si può dire che la sua opera è insieme tipica (ha caratteri veramente simili a tutte le sceneggiature vere e proprie e funzionali) e autonoma nel tempo stesso.
Un momento simile c’è in tutte le sceneggiature (dei film ad alto livello): ossia tutte le sceneggiature hanno un momento in cui sono delle “tecniche” autonome, il cui elemento strutturale primo e il riferimento integrativo a un’opera cinematografica da farsi.
In tale senso una critica a una sceneggiatura come tecnica autonoma, richiederà ovviamente delle condizioni particolari, così complesse, così determinate da un viluppo ideologico che non ha riferimenti né con la critica letteraria tradizionale, né con la recente tradizione critica cinematografica — da richiedere addirittura l’ausilio di possibili codici nuovi.
Per es., è possibile servirsi del codice stilcritico nell’analisi di una “sceneggiatura”? Può darsi che sia possibile, ma adattandolo a una serie di necessità che quel codice non aveva decisamente previsto tanto da non riuscire che fittiziamente a coprirle. Infatti, se l’esame istologico condotto su un campione prelevato dal corpo di una sceneggiatura è analogo a quello che si conduce su un’opera letteraria, esso destituisce la sceneggiatura del suo carattere che, come abbiamo visto, è sostanziale: l’allusione a un’opera cinematografica da farsi. L’esame stilcritico ha sotto gli occhi la forma che ha: esso stende un velo diagnostico anche su ciò che potrebbe preventivamente sapere, figurarsi su ciò che non sa realmente, non solo come cognizione, ma come ipotesi di lavoro!
L’osservazione sull’infinitesimo riproducente il tutto — che conduce a una ridefinizione storico-culturale dell’opera — nel caso della sceneggiatura mancherà sempre di qualcosa: ossia di un elemento interno della forma: un elemento che lì non e’è, che è una “volontà della forma».
(Una volta presa coscienza del problema, probabilmente uno stilcritico può adattarvi la sua indagine: tuttavia il dato essenziale della stilcritica, quello di agire sul concreto, viene eluso: praticamente non si può “avvertire” questa “volontà della forma” da un particolare della forma. Tale volontà va presupposta ideologicamente, deve far parte del codice critico. Nel dettaglio essa non è che un vuoto, una dinamica che non si concreta, è come un frammento di forza senza destinazione, che si traduce in una rozzezza e incompletezza della forma, da cui lo stilcritico non può dedurre che una rozzezza e incompletezza di tutta l’opera: e magari dedurne mia sua qualità di appunto, di opera da farsi ecc. ecc. E con ciò non si è tenuto al punto critico giusto, che deve piuttosto preventivare e supporre tale conclusione come parte integrante dell’opera, come sua caratteristica strutturale ecc. ecc.)
La caratteristica principale del «segno» della tecnica della sceneggiatura, è quella di alludere al significato attraverso due strade diverse, concomitanti e riconfluenti. Ossia: il segno della sceneggiatura allude al significato secondo la strada normale di tutte le lingue scritte e specificamente dei gerghi letterari, ma, nel tempo stesso, esso allude a quel medesimo significato, rimandando il destinatario a un altro segno, quello del film da farsi. Ogni volta il nostro cervello, di fronte a un segno della sceneggiatura, percorre contemporaneamente questo due strade — una rapida e normale, e una seconda lunga e speciale — per coglierne il significato.
In altre parole: l’autore di una sceneggiatura fa al suo destinatario la richiesta di una collaborazione particolare, quella cioè di prestare al testo una compiutezza “visiva” che esso non ha, ma a cui allude. Il lettore è complice, subito — di fronte alle caratteristiche tecniche subito intuite della sceneggiatura — nell’operazione che gli è richiesta: e la sua immaginazione rappresentatrice entra in una fase creativa molto più alta e intensa, meccanicamente, di quando legge un romanzo.
La tecnica della sceneggiatura è fondata soprattutto su questa collaborazione del lettore: e si capisce che la sua perfezione consiste nell’adempiere perfettamente questa funzione. La sua forma, il suo stile sono perfetti e completi quando hanno compreso e integrato in se stessi queste necessità. L’impressione di rozzezza e di incompletezza è dunque apparente. Tale rozzezza e tale incompletezza sono elementi stilistici.
A questo punto succede un dramma tra i vari aspetti sotto cui si presenta un “segno”. Esso è insieme orale (fonema), scritto (grafema) e visivo (cinema). Per una serie incalcolabile di riflessi condizionati della nostra misteriosa cibernetica, noi abbiamo sempre compresenti questi aspetti diversi del “segno” linguistico, che è dunque uno e trino. Se apparteniamo alla classe che detiene la cultura, e sappiamo dunque almeno leggere, i “grafemi” ci si presentano subito come “segni” tout court, arricchiti infinitamente dalla compresenza del loro “fonema” e del loro “cinema”.
Ci sono già, nella tradizione, certe “scritture” che rimandano il lettore a un’operazione analoga a quella che abbiamo qui sopra descritta: per es., le scritture della poesia simbolista. Quando leggiamo una poesia di Mallarmé o di Ungaretti, davanti alla serie dei “grafemi” che sono in quel momento davanti ai nostri occhi — l’insegni — noi non ci limitiamo a una pura e semplice lettura: il testo ci richiede di collaborare “fingendo” di sentire acusticamente quei grafemi. Esso cioè ci rimanda ai fonemi. Che sono compresenti nel nostro giudizio anche se noi non leggiamo a voce alta. Un verso di Mallarmé o di Ungaretti raggiunge il suo significato solo attraverso una dilatazione semantica, o una coazione squisito-barbarica dei significati particolari: il che si ottiene attraverso la supposta musicalità della parola o dei nessi delle parole. Ossia dando delle denotazioni non attraverso una particolare espressività del segno, ma attraverso la prevaricazione del suo fonema. Mentre leggiamo, dunque, integriamo in tal modo il significato aberrante dello speciale vocabolario del poeta, seguendo due strade, quella normale, segno-significato, e quella anormale, segno-segno in quanto fonema-significato.
La stessa cosa avviene negli sceno-testi (inventiamo pure questo nuovo termine!). Anche qui il lettore integra il significato incompleto della scrittura della sceneggiatura, seguendo due strade, quella normale, segno-significato, e quella anormale, segno-segno in quanto cinema-significato .
La parola dello scena-testo è dunque caratterizzata dall’accentuazione espressiva di uno dei tre momenti da cui e costituita, il cinema.
Naturalmente i “cinèmi” sono delle immagini primordiali, delle monadi visive inesistenti, o quasi, in realtà. L’immagine nasce dalle coordinazioni dei cinèmi.
È questo il punto: queste coordinazioni di “cinèmi” non sono una tecnica letteraria. Sono un’altra langue, fondata su un sistema ili “cinèmi” o “im-segni”, su cui si impianta analogamente ai metalinguaggi scritti o parlati, il metalinguaggio cinematografico. Di esso si è sempre parlato (almeno in Italia), come di un “linguaggio” analogo a quello scritto-parlato (letteratura, teatro ecc.), e anche quanto di visivo c’è in esso, è visto per analogia alle arti figurative. Ogni esame cinematografico è dunque viziato da questa origine di calco linguistico che il cinema ha nella testa di chi lo analizza o lo studia. Lo “specifico filmico” — definizione che ha avuto qualche fortuna solo esteriore in Italia — non arriva a prospettare la possibilità del cinema come un’altra lingua, con le sue strutture autonome e particolari: lo “specifico filmico” tende a porre il cinema come un’altra tecnica, specifica, fondata per analogia sulla lingua scritta-parlata, cioè su quella che è per noi la lingua tout-court (ma non per la semiotica, che è indifferente di fronte ai più svariati, scandalosi e ipotetici sistemi di segni).
Mentre dunque il “cinèma” nelle lingue scritto-parlate è uno degli elementi del segno — e, oltre tutto, quello preso meno in considerazione, presentandosi alla nostra abitudine, la parola, come scritta-parlata, ossia soprattutto come fonema e come grafema — nelle lingue cinematografiche il cinema è il segno per eccellenza: si deve parlare piuttosto di im-segno (che è dunque il “cinèma” staccato dagli altri due momenti della parola, e diventato autonomo, segno autosufficiente).
Che cos’è questa monade visiva fondamentale che è l’im-segno, e cosa sono le “coordinazioni di im-segni”, da cui nasce l’immagine? Anche qui, istintivamente, abbiamo sempre ragionato tenendo nella testa una specie di calco letterario, ossia facendo una continua e inconscia analogia tra cinema e linguaggi espressivi scritti. Abbiamo cioè identificato per analogia l’im-segno alla parola, e vi abbiamo costruito sopra una specie di surrettizia grammatica, vagamente, fortunosamente e, in qualche modo sensualmente, analoga a quella delle lingue scritto-parlate. Ossia, abbiamo nella testa un’idea dell’im-segno molto vaga, che genericamente identifichiamo con la parola. Ma la parola è sostantivo, verbo, interiezione o particella interiettiva. Ci sono delle lingue fondamentalmente nominali, altre fondamentalmente verbali. Nelle nostre lingue comuni in occidente, la lingua consiste in un equilibrio di definizione (sostantivale) e di azione (verbale) ecc. ecc. Quali sono i sostantivi, i verbi, le congiunzioni, le interiezioni nella lingua cinematografica? E, soprattutto, è necessario, che obbedendo alla nostra legge dell’analogia e dell’abitudine, vi siano? Se il cinema è un’altra lingua, tale lingua sconosciuta non può essere fondata su leggi che non hanno niente a che fare con le leggi linguistiche cui siamo abituati?
Cos’è, fisicamente, l’im-segno? Un fotogramma? Una durata particolare di fotogrammi? Un insieme pluricellulare di fotogrammi? Una sequenza significativa di fotogrammi dotati di durata? Questo deve essere ancora deciso. E non lo sarà finché non si avranno i dati per scrivere una grammatica del cinema. Dire, per es., che l’im-segno o monade del linguaggio cinematografico è un “sintassema” cioè un insieme coordinato di fotogrammi (o di inquadrature?) è ancora arbitrario. Com’è ancora arbitrario dire, per es., che il cinema è una lingua totalmente “verbale”: ossia che nel cinema non esistono sostantivi, congiunzioni, interiezioni, se non fusi coi verbi. E che quindi il nucleo della lingua cinematografica, l’im-segno, è un taglio in movimento di immagini,, dalla durata indeterminabile e informe, magmatica. Onde una grammatica “magmatica” per definizione, descrivibile attraverso paragrafi e capitoli inusitati nelle grammatiche scritto-parlate.
Ciò che non è arbitrario è invece dire che il cinema è fondato su un “sistema di segni” diverso da quello scritto-parlato, ossia che il cinema è un’altra lingua.
Ma non un’altra lingua come il bantu è diverso dall’italiano, per es., tanto per accostare due lingue difficilmente accostabili: e a ragion veduta, se anche la traduzione implica un’operazione analoga a quella che abbiamo visto per lo sceno–testo (e per certe scritture come la poesia simbolista): richiede cioè una collaborazione speciale del lettore e i suoi segni hanno due canali di riferimento al significato. Si tratta del momento della traduzione letterale con testo a fronte. Se su una pagina vediamo il testo bantu, e sull’altra il testo italiano, i segni da noi percepiti (letti) del testo italiano eseguono quella doppia carambola che solo delle raffinatissime macchine per pensare, come sono i nostri cervelli, possono seguire. Essi cioè rendono il significato direttamente (il segno “palma” che mi indica la palma) e indirettamente, rimandando al segno bantu che indica la stessa palma in un mondo psico-fisico o culturale diverso. Il lettore, naturalmente, non comprende il segno bantu, che è per lui lettera morta: tuttavia si rende conto almeno che il significato reso dal segno “palma” va integrato, modificato… come? magari senza sapere come, da quel misterioso segno bantu: comunque il sentimento che esso va modificato in qualche modo lo modifica. L’operazione di collaborazione tra traduttore e lettore è quindi doppia: segno-significato, e segno-segno di un’altra lingua (primitiva)-significato.
L’esempio di una lingua primitiva si avvicina a quello che vogliamo dire del cinema: tale lingua primitiva ha infatti strutture anche immensamente diverse dalle nostre, appartenenti, mettiamo, al mondo del “pensiero selvaggio”. Tuttavia il “pensiero selvaggio” è in noi: c’è è una struttura fondamentalmente identica fra le nostre lingue e quelle primitive: ambedue sono costituite da linsegni, e sono quindi a vicenda compatibili. Le due rispettive grammatiche hanno degli schemi analoghi. (Se siamo dunque abituati a interrompere le nostre abitudini grammaticali per rispetto alle strutture di un’altra lingua, anche la più compromettente e diversa, non siamo, invece, capaci di interrompere le nostre abitudini cinematografichc. E questo fin che non si sarà scritta una grammatica scientifica del cinema, come potenziale grammatica di un “sistema di im-segni” su cui il cinema si fonda.)
Ora, dicevamo che il “segno” della sceneggiatura segue una doppia strada {segno-significato; segno-segno cinematografico-significato). Bisogna ripetere che: anche il segno dei metalinguaggi letterari segue la stessa strada, suscitando immagini nella mente collaboratrice del lettore: il grafema accentua ora il proprio essere fonema ora il proprio essere cinema, a seconda della qualità musicale o pittorica della scrittura. Ma abbiamo detto che nel caso dello sceno-testo la caratteristica tecnica è una speciale e canonica richiesta di collaborazione del lettore a vedere nel grafema soprattutto il cinema, e quindi a pensare per immagini, ricostruendo nella propria testa il film alluso nella sceneggiatura come opera da farsi.
Dobbiamo ora completare questa osservazione iniziale, precisando che il cinema cosi accentuato e funzionalizzato, come dicevamo, non è un mero elemento, sia pur dilatato, del segno, ma è il segno di un altro sistema linguistico. Non solo dunque il segno della sceneggiatura esprime oltre che la forma “una volontà della forma a essere un’altra”, cioè coglie “la forma in movimento”: un movimento che si conclude liberamente e variamente nella fantasia dello scrittore e nella fantasia collaboratrice e simpatetica del lettore, liberamente e variamente coincidenti: tutto questo avviene normalmente nell’ambito della scrittura, e presuppone solo nominalmente un’altra lingua (in cui la forma si compia). È insomma una questione che mette in rapporto metalinguaggio con metalinguaggio, e le forme reciproche.
Ciò che è più importante notare è che la parola della sceneggiatura e, così, contemporaneamente, il segno di due strutture diverse, in quanto il significato che esso denota è doppio: e appartiene a due lingue dotate di strutture diverse.
Se, formulando una definizione nel campo artatamente limitato della scrittura, il segno dello sceno-testo si presenta come il segno che denota una “forma in movimento”, una “forma dotata della volontà di diventare un’altra forma”, formulando la definizione nel campo più completo e più oggettivo della lingua, il segno dello sceno–testo si presenta come il segno che esprime significati di una |“struttura in movimento”, ossia di “una struttura dotata della volontà di divenire un’altra struttura”.
Stando cosi le cose, qual è la struttura tipica del metalinguaggio della sceneggiatura? Essa è una “struttura diacronica” per definizione, o meglio ancora, per usare quel termine che pone in crisi lo strutturalismo (soprattutto se inteso convenzionalmente, come da certi gruppi italiani), un termine del Murdock, un vero e proprio “processo”. Ma un processo particolare, non trattandosi di un’evoluzione, di un passaggio da uno stadio A a uno stadio B: ma di un puro e semplice “dinamismo”, di una “tensione”, che si muove, senza partire e senza arrivare, da una struttura stilistica, quella della narrativa, a un’altra struttura stilistica, quella del cinema, e, più profondamente, da un sistema linguistico a un altro.
La «struttura» dinamica ma senza funzionalità, e fuori dalle leggi dell’evoluzione, dello sceno–testo, si presta perfettamente come oggetto per uno scontro tra il concetto ormai tradizionale di “struttura» e quello critico di «processo». Murdock e Vogt si: troverebbero davanti a un “processo che non procede”, a una struttura che fa del processo la propria caratteristica strutturale; Lévi-Strauss si troverebbe davanti non ai valori di una “filosofia ingenua”, che determinano i processi “direzionali”, ma davanti a una vera e propria volontà di movimento, la volontà dell’autore che designando i significati di una struttura linguistica come i segni tipici di quella struttura, nel tempo stesso designa i significati di un’altra struttura. Tale volontà è precisa: è un dato di fatto, che l’osservatore può osservare dall’esterno, di cui è egli stesso testimone. Non è una volontà ipotizzata e ingenuamente provata. La sincronia del sistema degli sceno-testi pone come elemento fondamentale la diacronia. Ossia, ripeto, il processo. Abbiamo così nel laboratorio una struttura morfologicamente in movimento.
Che un individuo, in quanto autore, reagisca al sistema costruendone un altro, mi sembra semplice e naturale; così come gli uomini, in quanto autori di storia, reagiscono alla struttura sociale costruendone un’altra, attraverso la rivoluzione, ossia alla volontà di trasformare la struttura. Non intendo quindi parlare, secondo la critica sociologica americana, di valori e volizioni “naturali” e ontologici: ma parlo di “volontà rivoluzionaria” sia nell’autore in quanto creatore di un sistema stilistico individuale che contraddice il sistema grammaticale e letterario-gergale vigente, sia negli uomini in quanto sovvertitori di sistemi politici.
Nel caso di un autore di sceno-testi, e, più ancora, di film, siamo davanti a un fatto curioso: la presenza di un sistema stilistico là dove non è ancora definito un sistema linguistico, e dove la struttura non è cosciente e descritta scientificamente. Un regista, mettiamo, come Godard, distrugge la “grammatica” cinematografica, prima che si sappia qual è. Ed è naturale, perché ogni sistema stilistico personale urta più o meno violentemente contro i sistemi istituzionali. Nel caso del cinema, ciò avviene per analogia con la letteratura. L’autore cioè è cosciente che il suo sistema stilistico (o forse meglio “scrittura” come suggerisce Barthes) contraddice alla norma e la sovverte, ma non sa di che norma si tratti. C’è per esempio ormai una vera e propria scuola internazionale, una “internazionale stilistica” che adotta per il cinema i canoni della “lingua della poesia”, e quindi non può non deludere, sfidare, frantumare, giocare la grammatica (che non conosce, perché è la grammatica di un’altra lingua, di un “sistema di segni visivi” non ancora ben chiaro nella coscienza critica). Tale lingua della poesia, nel cinema, è già una vera e propria istituzione stilistica recente, con le sue leggi proprie e qualità, come si dice, solidali: riconoscibili in un film parigino o in un film praghese, in un film italiano o in un film brasiliano. Essi già, come genere cinematografico, tendono ad avere i loro circuiti, e i loro canali specifici di distribuzione (è recente un convegno dei Cinema d’essai in Italia, dove tale esigenza sta diventando cosciente: così, insomma, come un editore ha il suo modo e la sua strada per smerciare libri preventivamente considerati di piccola tiratura, per destinatari eletti: che però non è detto siano un cattivo affare commerciale, se la distribuzione avviene entro i limiti ragionevolmente preventivati).
La distinzione tra “lingua della prosa” e “lingua della poesia” è un vecchio concetto tra i linguisti. Ma se dovessi indicare un capitolo recente di tale distinzione, indicherei alcune pagine a questo dedicate del Grado zero di Barthes, dove la distinzione è radicale e elettrizzante. (Dovrei solo aggiungere che Barthes ha come background il classicismo francese, che è molto diverso da quello italiano, e soprattutto ha alle sue spalle la serie di sequenze progressive della lingua francese, mentre gli italiani hanno alle loro spalle un caos, che rende sempre indefinito e sensuale il loro classicismo. Inoltre osserverei ancora che l’“isolamento delle parole”, tipico della lingua della poesia “decadente”, ha risultati solo apparentemente anti-classicistici, ossia di prevalenza della parola isolata — come mostruosità e mistero — sul tutto solidale del periodo. Infatti, se un analista paziente fosse in grado di ricostruire i “nessi” tra le parole “isolate” della lingua della poesia del Novecento, ricostruirebbe sempre dei nessi classicistici — come ogni operazione estetica in quanto tale presuppone.)
In conclusione, nel cinema si hanno indubbiamente dei sistemi o strutture, con tutte le caratteristiche tipiche di ogni sistema e di ogni struttura: un esame stilistico paziente, come quello di un etnologo tra le tribù australiane, ricostruirebbe i dati permanenti e solidali di quei sistemi, sia in quanto “scuole” (il “cinema di poesia” internazionale, come una specie di gotico squisito) sia in quanto veri e propri sistemi individuali.
La stessa cosa è possibile fare attraverso una lunga e attenta analisi degli “usi e costumi” delle sceneggiature: anche qui, come intuitivamente o per esperienza non trasformata in ricerca scientifica ognuno di noi sa, una serie di caratteristiche in stretto rapporto fra di loro, e dotate di una continuità costante, costituirebbe una “struttura” tipica delle sceneggiature. Ne abbiamo visto, sopra, la caratteristica “dinamica”, che, mi sembra, è un caso clamoroso di “struttura diacronica” ecc. ecc. (con elemento interno sostanziale il “cronotopo” di cui parla Segre).
L’interesse che offre questo caso è la concreta e documentabile «volontà» dell’autore: il che mi sembra contraddire all’affermazione di Lévi-Strauss: “Non si può insieme e contemporaneamente definire con rigore uno stadio A e uno stadio B (cosa possibile solo dall’esterno e in termini strutturali) e rivivere empiricamente il passaggio dall’uno all’altro (che sarebbe il solo modo intelligibile per capirlo).”
Infatti, davanti alla “struttura dinamica” di una sceneggiatura, alla sua volontà di essere ma forma che si muove verso un’altra forma, noi possiamo benissimo, dall’esterno e in termini strutturali definire con rigore lo stadio A (mettiamo la struttura letteraria della sceneggiatura) e lo stadio B (la struttura cinematografica). Ma nel tempo stesso possiamo rivivere empiricamente il passaggio dall’uno all’altro, perché la “struttura della sceneggiatura” consiste proprio in questo: “passaggio dallo stadio letterario allo stadio cinematografico”.
Se Lévi-Strauss in questo caso avesse torto, e avessero ragione Gurvitch e la sociologia americana, Murdock, Vogt, allora dovremmo accettare la polemica di questi ultimi, e fare nostra la loro esigenza di puntare più che sulla “struttura” sul “processo”.
Leggere, infatti, né più né meno che leggere, una sceneggiatura significa rivivere empiricamente il passaggio da una struttura A a una struttura B.
(1965)
Da Pier Paolo Pasolini, Empirismo critico, Milano, Garzanti, 1991, pp.188–198