La ricerca della felicità in Aristotele
di Emanuele Severino
Il bene dell’uomo
All’inizio dell’Etica Nicomachea Aristotele dice che ogni arte o tècnica, ogni ricerca, come ogni azione e ogni proposito mostrano di tendere e di mirare a un qualche “bene”. La parola “bene” non indica qui qualcosa il cui significato sia indipendente dall’“aver di mira” e dal “tendere”: Aristotele afferma che il “bene” è appunto ciò a cui ogni cosa tende. Ma ogni cosa tende a sviluppare compiutamente la propria essenza, tende a essere compiutamente sé stessa e a evitare ciò che la allontana da sé stessa, dalla propria essenza. Per l’uomo, il riuscire a essere sé stesso è la “felicità”. Ciò vuol dire che il “bene” dell’uomo (ossia ciò a cui egli tende) è la felicità. Ogni altra cosa cui tende l’uomo non è voluta per sé stessa, ma per altro. La felicità è il “bene supremo” perché tutto ciò che l’uomo: vuole, lo vuole per essere felice. Ma che cos’è la felicità?
Per rispondere a questa domanda, è necessario conoscete l’essenza dell’uomo, ciò che rende uomo, e l’opera che sviluppa compiutamente tale essenza. La felicità è infatti lo sviluppo compiuto di tale essenza. Non può quindi consistere nello sviluppo di un aspetto accidentale o parziale dell’uomo. Ciò a cui ogni cosa tende è innanzitutto ciò a cui l’essenza di ogni cosa tende. Se un uomo sviluppa un suo aspetto parziale o accidentale, egli non ritrova sé stesso al termine di tale sviluppo, e quindi non è felice, anche se dichiara di esserlo.
Si tratta di comprendere che come esiste un’opera propria dell’occhio, della mano, del piede (opere cioè che sviluppano compiutamente l’essenza dell’occhio, della mano e del piede), e come vi sono opere proprie del contadino, del flautista, del calzolaio, del falegname ecc., così è necessario ammettere che l’uomo, come uomo, non è un ente inattivo e che quindi esiste un’opera che è propria dell’uomo in quanto uomo, e che dunque quest’opera non può essere il vivere o la nutrizione o la crescita (che sono comuni anche alle piante), e nemmeno può essere la sensazione, e quindi il piacere (che sono comuni anche agli animali), e nemmeno il vivere nelle ricchezze, giacché la ricchezza è mezzo e non fine, mezzo per raggiungere qualcosa d’altro, e quando la si assume come fine (qui, come altrove, Aristotele anticipa potentemente Marx) è qualcosa di contro natura.
L’opera propria dell’uomo è allora «l’attività dell’uomo secondo ragione», e propriamente «l’attività dell’anima [razionale] secondo virtù».
La parola “virtù” traduce inadeguatamente il termine greco areté, che, innanzitutto, significa “rispondenza dei mezzi al fine”. Sì che come l’opera propria del calzolaio è fabbricare le scarpe, e l’opera propria del calzolaio “virtuoso” è fabbricarle bene, così l’opera propria dell’uomo è l’attività dell’anima secondo ragione, ma l’opera propria dell’uomo “virtuoso” (cioè dell’uomo che ha la capacità e i mezzi di raggiungere quello scopo che è lo sviluppo compiuto della sua essenza) è l’attività razionale dell’anima, compiuta “bene e bellamente”, e cioè in modo che tale attività, raggiunga il culmine che per natura le è assegnato, ma che l’uomo può perseguire come può rifiutare.
In quanto sensitiva (cioè in quanto brama e desiderio), e dunque in quanto non è di per sé stessa razionale, l’anima può infatti obbedire o disobbedire a quella parte di sé che è l’attività razionale. Vi è allora — conformemente allo spirito della filosofia platonica — una “virtù etica”, che consiste nel sottomettere le tendenze sensitive e appetitive alla tendenza razionale dell’anima; e vi è la “virtù dianoetica” (ossia “razionale”), che consiste nel portare e mantenere l’anima razionale al culmine delle sue possibilità.
Questo culmine è costituito dalla “saggezza” (phrónesis), che riguarda gli atti e gli eventi mutevoli e contingenti, sapendo deliberare intorno a ciò che è bene o male per l’uomo; e, al di sopra della “saggezza”, dalla “sapienza” (sophía), che è la contemplazione della verità necessaria e immutabile e della suprema esistenza divina. Le “virtù etiche” favoriscono il raggiungimento di questo culmine, in quanto mantengono gli impulsi e le brame dell’uomo nel “giusto mezzo” tra l’eccesso e il difetto, e pertanto richiedono anche un certo benessere esteriore, una certa posizione sociale, e quindi una certa struttura statale che consenta la realizzazione del giusto mezzo tra gli eccessi e i difetti del comportamento umano.
La-sophía — che, in quanto è ciò cui l’anima tende, è appunto philo-sophía — è quindi la virtù suprema e pertanto la felicità “perfetta” e il fine ultimo dell’uomo. Essa porta l’uomo oltre sé stesso, verso il divino. Ché appunto il volgersi verso il Dio è l’essenza dell’uomo. La contemplazione della verità e del Dio non mira ad alcun altro fine all’infuori di sé stessa, ha un proprio piacere perfetto, è autosufficiente, ininterrotta per quanto è possibile all’uomo: felicità perfetta.
«Ma una tale vita» dice Aristotele nell’Etica Nicomachea «sarà superiore alla natura dell’uomo; infatti, non in quanto uomo egli vivrà in tal maniera; bensì in quanto in lui vi è qualcosa di divino» giacché «in confronto alla natura dell’uomo, l’intelletto è qualcosa di divino, e anche la vita conforme a esso sarà divina in confronto alla vita umana. Non bisogna perciò seguire quelli che consigliano che, essendo uomini, si attenda a cose umane e, essendo mortali a cose mortali, bensì, per quanto è possibile, bisogna farsi immortali».
Se per il Dio tutta la vita è beata, per gli uomini lo è per quel tanto che vi è in essi quell’attività contemplativa che è la sostanza del Dio. «Per quanto dunque si estende la contemplazione, di tanto si estende anche la felicità» cosicché «la felicità è una specie di contemplazione [theoria].» È stato giustamente rilevato che il significato originario della parola theoria ha, nella cultura greca prefilosofica, un carattere festivo. Nella festa, l’esperienza religiosa fondamentale è la contemplazione dei misteri divini che innalza l’uomo al punto di vista e alla condizione beata della divinità. Dicendo che la felicità è una specie di theoria, la filosofia vede dunque in sé stessa la forma suprema dell’esperienza religiosa e insieme il superamento di ciò che trattiene tale esperienza nella non-verità.
Lo Stato e il suo carattere naturale
Ma per raggiungere la felicità contemplando la verità e il Dio, non sono sufficienti le virtù etiche dell’individuo: è necessario che lo Stato stesso sia “virtuoso”, cioè sia formato in modo da realizzare il più possibile, nell’uomo, la contemplazione della verità e di Dio, ossia la felicità. Nessun individuo umano, infatti, basta a sé stesso, ma ha bisogno degli altri per sopravvivere; Questa affermazione stava già alla base della Repubblica di Platone.
Aristotele trae da ciò la conclusione che il tutto, formato dall’associazione degli individui — e questo tutto è appunto, nella sua forma più sviluppata, la pòlis, cioè la “città”, lo Stato –, non è il risultato di una convenzione o di una decisione libera, di un “patto”, ma è un fatto di natura, così come è qualcosa di naturale che l’uomo sia dotato di un’attività vegetativa, sensitiva e intellettiva; e come è qualcosa di naturale che il fuoco mandi calore.
Ogni associazione Umana che ha come fine la sopravvivenza e lo sviluppo compiuto delle capacità degli associati è dunque un’istituzione naturale. Innanzitutto la famiglia (non era questo il punto di vista di Platone), e poi il villaggio (l’associazione di più famiglie), e infine la città, che è lo scopo al quale tendono le forme più elementari di associazione.
Il fine al quale tende un ente di per sé stesso non solo è qualcosa di naturale a tale ente, ma ne determina la natura. Infatti un ente è autenticamente sé stesso solo quando raggiunge il proprio fine. Lo Stato, pertanto, non solo è qualcosa di naturale per gli individui umani, ma determina la loro stessa natura.
Ciò vuol dire che l’uomo è uomo solo in quanto vive nello Stato. «E quindi» dice Aristotele nella Colitica «è manifesto che la città è un fatto naturale e che l’uomo è animale per natura socievole» (“animale politico”), sì che chi non ha bisogno di entrare a far parte di una comunità e basta a sé stesso «o è una belva o è un Dio».
Ma lo Stato determina la natura dei suoi componenti e delle forme più elementari di associazione, non solo perché è il loro fine, ma anche perché è il tutto rispetto al quale essi sono parti. E il tutto è la condizione dell’esistenza delle parti — come è nella relazione all’intero organismo umano vivente che la mano e il piede sono vera mano e vero piede: separati dal tutto, essi perdono la loro funzione e solo in apparenza continuano a essere mano e piede, così come solo in apparenza una mano o un piede di pietra sono mano e piede.
Nello sviluppo temporale, lo Stato si forma per ultimo, dopo la famiglia e il villaggio. Ma che l’individuo abbia bisogno della famiglia, che la forma di associazione in cui consiste la famiglia si sviluppi nella forma di associazione in cui consiste il villaggio e quest’ultimo si sviluppi infine nello Stato, tutto questo significa che ognuna delle forme di vita umana associata che precedono lo Stato non riesce a realizzare — prima che sorga lo Stato — ciò per cui esse sono state istituite: il fine ultimo dell’uomo.
Esse precedono lo Stato; ma deve sopraggiungere lo Stato (cioè il tutto), affinché esse possano svolgere la loro funzione specifica e riescano quindi a essere ciò che intendono essere. Per questo motivò lo Stato, che nel tempo viene per ultimo; è tuttavia, in quanto scopo e condizione delle precedenti forme di) vita associata, “prima’’ di esse.
Da Emanule Severino, La filosofia del greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, Garzanti, Milano, 2004, pp. 297–203