La politica di Aristotele

di Bertrand Russell

Mario Mancini
21 min readOct 2, 2021

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Uno Stato dovrebb’essere abbastanza piccolo perché i cittadini conoscano i rispettivi caratteri, altrimenti non potranno giudicar bene nelle elezioni e nei processi. Il territorio deve essere abbastanza piccolo da poter essere osservato nella sua totalità da una vetta. Dev’essere autosufficiente.

Quando leggiamo qualche filosofo di rilievo, ma soprattutto quando leggiamo Aristotele, è necessario condurre il proprio studio in due modi: in rapporto ai predecessori del pensatore, e in rapporto ai suoi successori. Sotto il primo aspetto, i meriti di Aristotele sono enormi; sotto il secondo, i suoi demeriti sono altrettanto enormi. Quanto ai suoi demeriti, però, i suoi successori sono più responsabili di lui. Venne al termine del periodo creativo del pensiero greco, e dopo la sua morte passarono duemila anni prima che il mondo producesse dei filosofi che potessero essere considerati, approssimativamente, suoi pari.

Verso la fine di questo lungo periodo la sua autorità era divenuta quasi altrettanto indiscussa di quella della Chiesa, e nella scienza, non meno che in filosofia, era divenuta un serio ostacolo al progresso. Dal principio del XVII secolo, quasi ogni serio progresso intellettuale ha dovuto cominciare con un attacco contro qualche dottrina aristotelica; nella logica questo è vero ancora oggigiorno.

Ma sarebbe stato almeno altrettanto disastroso se uno qualunque dei suoi predecessori (eccettuato forse Democrito) avesse acquistato uguale autorità. Per fargli giustizia dobbiamo, per cominciare, scordarci la sua eccessiva fama postuma, e l’altrettanto eccessiva condanna postuma che ne è derivata.

Aristotele nacque, probabilmente, nel 384 a.C. a Stagira, in Tracia. Suo padre aveva ereditato la posizione di medico di famiglia del re di Macedonia. A diciott’anni circa Aristotele venne ad Atene e divenne allievo di Platone; rimase all’Accademia per circa vent’anni, fino alla morte di Platone nel 348–7 a.C. Quindi viaggiò per un certo tempo e sposò o la sorella o la nipote d’un tiranno di nome Ermia. (I maligni dicevano che costei fosse la figlia o la concubina di Ermia, ma entrambe le storie sono smentite dal fatto che questi era un eunuco).

Alessandro a Aristotele

Nel 343 a.C. divenne tutore di Alessandro, allora tredicenne e conservò questo posto finché a sedici anni Alessandro fu dichiarato maggiorenne da Filippo e fu designato come reggente durante l’assenza del padre. Non è possibile accertare ciò che si desidererebbe sapere intorno ai rapporti di Aristotele con Alessandro, tanto più che ben presto si crearono sull’argomento delle leggende. Ci sono delle lettere scambiate tra loro, che sono però generalmente considerate dei falsi. Chi li ammira entrambi, pensa che la carriera di Alessandro dimostri l’utilità pratica della filosofia. In proposito A. W. Benn dice:

«Sarebbe una disgrazia se la filosofia non avesse testimonianze migliori da produrre in proprio favore del carattere di Alessandro… Arrogante, ubriacone, crudele, vendicativo e grossolanamente superstizioso, univa i vizi d’un capo scozzese all’esaltazione di un despota orientale».

Da parte mia, pur convenendo con Benn per quel che riguarda il carattere di Alessandro, penso nondimeno che la sua opera sia stata enormemente importante ed abbia fatto un bene immenso, dato che, se non fosse stato per lui, l’intera tradizione della civiltà ellenica poteva benissimo andare perduta. Quanto all’influenza che Aristotele ebbe su di lui, siamo liberi di congetturare ciò che ci sembra più plausibile.

Per parte mia la supporrei nulla. Alessandro era un ragazzo ambizioso e appassionato, in disaccordo con suo padre, e probabilmente mal sopportava la scuola. Aristotele pensava che nessuno Stato dovesse arrivare a centomila cittadini, e predicava la dottrina del giusto mezzo. Non posso immaginare che il suo alunno lo considerasse diversamente da un vecchio pedante, verboso, messogli addosso dal padre per impedirgli di compiere dei guai. Alessandro, è vero, aveva un certo snobistico rispetto per la civiltà ateniese, ma questo era comune all’intera dinastia, che ci teneva a dimostrare di non essere barbara. Era qualcosa di analogo al sentimento degli aristocratici russi del XIX secolo verso Parigi. Non era però attribuibile all’influenza di Aristotele. E non vedo nient’altro in Alessandro che possa provenire da questa origine.

È più sorprendente che Alessandro abbia avuto così poca influenza su Aristotele, le cui speculazioni politiche erano dolcemente immemori del fatto che l’èra delle Città-Stato aveva ormai lasciato il posto all’èra degli imperi. Ho il sospetto che Aristotele, in fondo, pensasse a lui come a «un ragazzo pigro e ostinato, che non avrebbe mai capito nulla di filosofia». In complesso, i contatti tra questi due grandi uomini sembrano esser stati così infruttuosi come se avessero vissuto in pianeti differenti.

Dal 335 al 323 a.C. (anno in cui morì Alessandro) Aristotele visse ad Atene. Fu durante questi dodici anni che fondò la sua scuola e scrisse la maggior parte dei suoi libri. Alla morte di Alessandro, gli Ateniesi si ribellarono e si volsero contro i sostenitori e gli amici dell’imperatore macedone; Aristotele stesso non sfuggì agli attacchi e fu accusato di empietà. Ma egli, a differenza di Socrate, fuggì per evitare la pena. Nell’anno successivo (322) morì.

Aristotele, come filosofo, è per molti aspetti assai diverso da tutti i suoi predecessori. È il primo a scrivere come un professore: i suoi trattati sono sistematici, le sue discussioni divise in capitoli: è un insegnante professionale, non un profeta ispirato. La sua opera è critica, attenta, prosaica, senza traccia alcuna di entusiasmo bacchico. Gli elementi orfici che si trovano in Platone sono annacquati in Aristotele, e mescolati ad una forte dose di senso comune; là dov’è platonico, si sente che il suo naturale temperamento è stato sopraffatto dall’insegnamento cui è stato sottoposto.

Non è passionale, né religioso in senso profondo. Gli errori dei suoi predecessori erano i gloriosi errori della gioventù che tenta l’impossibile; i suoi errori sono quelli dell’età matura che non riesce a liberarsi dai pregiudizi comuni. È ottimo nei particolari e nella critica; fallisce nella grande costruzione, per mancanza di fondamentale ricchezza e di fuoco titanico.

La politica

La politica di Aristotele è interessante e importante: interessante, perché mostra i pregiudizi comuni tra i Greci colti, a lui contemporanei, e importante come fonte di vari principi che continuarono ad avere un peso fino alla fine del Medioevo. Non credo che ci si possa trovare molto di utile per un uomo di Stato d’oggi, ma c’è parecchio che chiarisce le idee sui conflitti tra i partiti in diverse parti del mondo ellenico. Non vi hanno molto rilievo i metodi di governo negli Stati non ellenici.

Ci sono, è vero, allusioni all’Egitto, alla Babilonia, alla Persia e a Cartagine, ma, eccetto nel caso di Cartagine, sono alquanto superficiali. Non c’è alcuna menzione di Alessandro, e neppure il più lontano riferimento alla completa trasformazione che questi stava effettuando nel mondo. L’intera discussione è dedicata alle Città-Stato, e non c’è nessuna previsione del loro declino.

La Grecia, a causa della sua divisione in tante città indipendenti, era un laboratorio di esperimenti politici; ma nulla di ciò, per cui poi questi esperimenti ebbero importanza, si sviluppò dal tempo di Aristotele fino al sorgere delle città italiane nel Medioevo. Sotto molti aspetti, l’esperienza cui Aristotele si richiama ha più appigli col mondo moderno che con quanto è esistito per millecinquecento anni dopo che il libro fu scritto.

Incidentalmente, ci sono vari aspetti divertenti, alcuni dei quali possono essere riferiti prima d’addentrarci nella teoria politica. Si racconta che Euripide, quando stava alla corte di Archelao, re di Macedonia, fu accusato da un certo Decamnico di aver l’alito cattivo. Per calmare la sua ira, il re gli dette il permesso di frustare Decamnico, il che egli fece. Decamnico, dopo avere aspettato molti anni, pervenne, in un riuscito complotto, ad uccidere il re; ma a quel tempo Euripide era già morto.

Si racconta che i bambini devono essere concepiti in inverno, quando il vento viene da nord; che si deve accuratamente evitare la trivialità, perché «parole indecenti portano ad atti indecenti», e che l’oscenità non dev’essere mai tollerata se non nei templi, dove la legge permette anche le ribalderie. La gente non dovrebbe sposarsi troppo giovane, perché se lo fa, i figli saranno deboli ed effeminati, le mogli diverranno dissolute, e i mariti vivranno stentatamente i periodi della propria vita. L’età giusta per il matrimonio sono i trentasette anni per gli uomini, i diciotto per le donne.

Apprendiamo come Talete, beffeggiato per la sua povertà, affittò tutti i frantoi a credito, e fu così in grado di imporre al momento buono dei prezzi di monopolio per il loro uso.

Lo fece per dimostrare che i filosofi possono far soldi, e che se rimangono poveri è perché hanno qualcosa di più importante cui pensare. Tutto questo, però, non è in argomento; è tempo di passare a questioni più serie.

Il libro comincia precisando l’importanza dello Stato; è la forma più alta di comunità, e tende al bene supremo. In ordine di tempo, vien prima la famiglia; essa è costruita sui due rapporti fondamentali, dell’uomo con la donna e del padrone con lo schiavo, entrambi naturali. Parecchie famiglie insieme formano un villaggio; parecchi villaggi uno Stato, purché l’insieme sia abbastanza ampio da essere autosufficiente.

Lo Stato, benché posteriore nel tempo alla famiglia, è superiore ad essa, come anche all’individuo, per natura; poiché «noi chiamiamo natura di una cosa ciò che questa è quando è completamente sviluppata», la società umana pienamente sviluppata è lo Stato e l’intero è superiore a una parte. Il concetto implicito qui è quello dell’organismo: una mano, quando il corpo è disfatto, non è più una mano.

Si sottintende che una mano va definita da quello che è il suo scopo, quello di afferrare, che essa può realizzare solo quando è congiunta ad un corpo vivente. In maniera analoga un individuo non può realizzare il suo fine a meno che non faccia parte di uno Stato.

Colui che fondò lo Stato, dice Aristotele, fu il più grande dei benefattori; perché senza la legge l’uomo è il peggiore degli animali, e la legge per la sua stessa esistenza dipende dallo Stato. Lo Stato non è solo una società per gli scambi e la prevenzione del delitto: «Il fine dello Stato è una buona vita… E lo Stato è l’unione delle famiglie dei villaggi in una vita perfetta e autosufficiente, da cui deriva a noi una vita felice ed onorata » (1280 b). « Una società politica esiste per favorire le nobili azioni, non solo per creare una comunità » ( 1281 a).

Dato che lo Stato è formato di vari aggregati, ciascuno dei quali è costituito da una famiglia, la discussione politica deve cominciare appunto con la trattazione della famiglia. La maggior parte di questa discussione riguarda lo schiavismo, perché nell’antichità gli schiavi erano sempre considerati come parte della famiglia.

La schiavitù è opportuna e giusta, ma io schiavo dev’essere per natura inferiore al padrone. Dalla nascita, alcuni sono destinati alla servitù, altri al comando; l’uomo che, per natura, non appartiene a se stesso ma a un altro uomo, è per natura uno schiavo. Gli schiavi non devono essere greci, ma d’una razza inferiore dotata di minore intelligenza ( 1255 a e 1330 a).

Gli animali domestici rendono di più quando sono guidati dall’uomo, e lo stesso vale per coloro che sono inferiori per natura quando sono comandati dai loro superiori. È giustificato l’uso di rendere schiavi i prigionieri di guerra? Sembra che la potenza che porta alla vittoria in guerra implichi anche una superiore virtù, ma non è sempre così. La guerra, però, è giusta quando è condotta contro uomini che, pur essendo destinati per natura a esser governati, non si sottomettono (1256 b); e in tal caso, se ne deduce, sarebbe giusto render schiavi i catturati. Ce n’è abbastanza per giustificare qualsiasi conquistatore; perché nessuna nazione ammetterà di esser destinata per natura a farsi governare, e la sola prova sulle intenzioni della natura va tratta dal risultato della guerra. In tutte le guerre, quindi, i vincitori hanno ragione e i vinti hanno torto. Molto soddisfacente!

Viene poi una discussione sul commercio, che influenzò profondamente la casistica scolastica. Ci sono due usi delle cose, uno proprio, l’altro improprio: una scarpa, per esempio, può esser calzata, che è il suo uso proprio, o venduta, che è il suo uso improprio. C’è dunque qualcosa di degradante nel calzolaio che deve vendere le sue scarpe per vivere. Il commercio al dettaglio, dunque, non rientra nell’arte di arricchire (1257 a). La maniera naturale per arricchire è l’abile utilizzazione delle case e delle terre. Alla ricchezza che si può accumulare in questa maniera c’è un limite, mentre non c’è a quella che si può accumulare col commercio. Il commercio ha a che fare col denaro, ma la ricchezza non è l’accaparramento di monete.

La ricchezza derivata dal commercio è giustamente odiata, perché innaturale. «Il sistema più odiato, e pienamente a ragione, è l’usura, che fa uscire un guadagno dal danaro stesso, e non dagli oggetti naturali. Perché il danaro aveva lo scopo d’esser usato negli scambi, ma non di accrescersi per interesse… Di tutti i modi di arricchire, questo è il più innaturale » (1258).

Quale fu il destino di questa massima può essere letto in Religion and the Rise of Capitalism di Tawney. Ma mentre la sua ricostruzione storica è degna di fede, l’interpretazione ch’egli ne dà è troppo prevenuta in favore del pre-capitalismo.

«Usura» significa ogni prestito ad interesse, non solo, come adesso, il prestito a un tasso esorbitante. Dai tempi dei Greci ad oggi, l’umanità, o almeno la parte di essa economicamente più progredita, si è divisa in debitori e creditori; i debitori hanno disapprovato l’interesse e i creditori l’hanno approvato.

Per la maggior parte del tempo, chi possedeva terra era debitore, mentre i commercianti erano creditori. Le opinioni dei filosofi, con poche eccezioni, hanno coinciso con gli interessi pecuniari della loro classe. I filosofi greci erano tra i proprietari di terre o erano al servizio di costoro; quindi disapprovavano l’interesse.

I filosofi medioevali erano uomini di chiesa, e la proprietà della Chiesa era principalmente terriera; non videro quindi alcuna ragione per rivedere l’opinione di Aristotele. La loro ostilità verso l’usura era rafforzata dall’antisemitismo, perché la massima parte del capitale liquido era in mano agli Ebrei. Ecclesiastici e nobili avevano i loro contrasti, a volte assai aspri; ma potevano allearsi contro il perverso ebreo che li aveva salvati da un cattivo raccolto per mezzo d’un prestito, e perciò pensava di meritare un compenso per il suo esborso di denaro.

Con la Riforma, la situazione cambiò. Molti dei più seri protestanti erano uomini d’affari per i quali era essenziale prestar danaro ad interesse. Di conseguenza, prima Calvino e poi. altri teologi protestanti sanzionarono l’interesse. Infine la Chiesa cattolica fu costretta a mettersi su questa strada, perché le vecchie proibizioni non rispondevano più al mondo moderno. I filosofi, le cui entrate sono assicurate dagli investimenti delle università, sono stati favorevoli all’interesse fin da quando hanno cessato d’essere ecclesiastici e quindi legati alla proprietà terriera. Ad ogni stadio, c’è stata una gran ricchezza di argomenti teoretici per sostenere la tesi economicamente conveniente.

L’Utopia di Platone è criticata da Aristotele da vari punti di vista. Prima c’è l’interessantissima osservazione che essa, dando troppa unità allo Stato, finirebbe col trasformarlo in un individuo. Viene poi, contro la proposta abolizione della famiglia, l’obiezione che sorge spontanea a ogni lettore.

Platone pensa che solo dando il nome di «figlio» a tutti coloro che hanno un’età che renda possibile tale parentela ognuno acquisterà verso l’intera moltitudine i sentimenti che si hanno oggi verso i figli veri, e lo stesso per quel che riguarda il nome di «padre».

Aristotele, al contrario, dice che ciò che è comune a un grandissimo numero di persone vien tenuto in minor considerazione, e che i «figli», se sono in comune a molti «padri», verranno trascurati in comune; è meglio essere realmente un cugino che un «figlio» nel senso platonico: il progetto di Platone annacquerebbe l’amore.

Segue un curioso ragionamento: dato che l’astenersi dall’adulterio è una virtù, sarebbe un peccato creare un sistema sociale che abolisca questa virtù e il vizio corrispondente (1263 b.

Poi si chiede: se le donne sono in comune, chi baderà alla casa? Ho scritto un saggio una volta, dal titolo Architettura e sistema sociale, in cui affermai che chi combina il comunismo con l’abolizione della famiglia difende anche le case collettive per un gran numero di persone, con cucine, stanze da pranzo e stanze per i bambini in comune. Questo sistema potrebbe esser definito come un monastero senza celibato. Il che è essenziale per la realizzazione dei progetti di Platone, ma certamente non è meno impossibile di molte altre cose che egli pure raccomanda.

Il comunismo di Platone infastidisce Aristotele. Ci porterebbe, egli dice, ad adirarci contro la gente pigra, e a litigi come quelli comuni tra compagni di viaggio. È meglio se ciascuno pensa ai propri affari. La proprietà dev’essere privata, ma la gente dev’essere così incline alla bontà d’animo da permettere che l’uso ne sia ampiamente comune.

Bontà e generosità sono virtù, e senza la proprietà privata sono impossibili. Si legge infine che, se i progetti di Platone fossero buoni, qualcuno ci avrebbe pensato prima. Io non sono d’accordo con Platone, ma se qualcosa potesse farmi concordare con lui, sarebbero gli argomenti che Aristotele gli rivolge contro.

Come abbiamo visto riguardo allo schiavismo, Aristotele non crede nell’uguaglianza. Ammessa, però, la soggezione degli schiavi e delle donne, resta ancora la questione se tutti i cittadini debbano essere politicamente uguali. Alcuni, egli dice, lo credono desiderabile, dato che tutte le rivoluzioni sovvertono l’ordinamento della proprietà. Egli respinge quest’argomento, sostenendo che i più grandi delitti sono dovuti all’eccesso piuttosto che al bisogno; nessuno diventa tiranno per evitare di sentir freddo.

Un governo è buono quando aspira al bene dell’intera comunità, cattivo quando si preoccupa solo di se stesso. Ci sono tre tipi di buon governo: monarchia, aristocrazia e governo costituzionale (o politeia); ce ne sono tre cattivi: tirannide, oligarchia e democrazia. Ci sono anche molte forme intermedie e composite. Si osserverà che i governi, buoni o cattivi, si definiscono dalle qualità etiche di chi detiene il potere, non dalla forma della costituzione.

Questo, però, è vero solo in parte. Un’aristocrazia è un governo d’uomini di valore, un’oligarchia è un governo di ricchi, e Aristotele non considera il valore e la ricchezza strettamente sinonimi. Ciò che egli sostiene, in accordo con la dottrina del giusto mezzo, è che una limitata agiatezza è più probabilmente associata alla virtù: «L’umanità non acquista e non conserva la virtù con l’aiuto dei beni materiali, bensì i beni materiali con l’aiuto della virtù; e la felicità, consista essa nel piacere, nella virtù, o in entrambi, si trova più spesso tra coloro che hanno un’educazione più elevata nell’intelletto e nel carattere, e che hanno soltanto una parte limitata dei beni materiali che non tra coloro i quali possiedono beni materiali in quantità eccessiva, ma mancano di qualità più nobili » (1323 a a e b).

C’è quindi differenza tra governo dei migliori (aristocrazia) e governo dei più ricchi (oligarchia), dato che è probabile che i migliori abbiano ricchezze limitate. C’è differenza anche tra democrazia e governo costituzionale, a prescindere dalle differenze etiche, perché quella che Aristotele chiama «politeia» conserva elementi oligarchici (1293 b). Ma tra la monarchia e la tirannide la differenza è soltanto etica.

Distingue con energia l’oligarchia e la democrazia dallo stato economico del partito al governo: c’è oligarchia quando i ricchi governano senza tenere in considerazione i poveri, democrazia quando il potere è nelle mani dei bisognosi e questi trascurano l’interesse dei ricchi.

La monarchia è meglio dell’aristocrazia, l’aristocrazia è meglio del governo costituzionale. Ma peggio di tutto è la corruzione di ciò che era migliore; per questo la tirannide è peggiore dell’oligarchia, e l’oligarchia della democrazia. Così Aristotele compie una relativa difesa della democrazia; perché la maggior parte dei governi esistenti è cattiva, e quindi, tra i governi esistenti, le democrazie sono tendenzialmente le migliori forme di governo.

Il concetto greco di democrazia era sotto molti aspetti più radicale del nostro; per esempio, Aristotele dice che eleggere i magistrati è un modo di procedere oligarchico, mentre è democratico tirarli a sorte. Nelle democrazie radicali, l’assemblea dei cittadini era al disopra della legge, ed era pienamente libera di decidere ogni questione.

I tribunali ateniesi erano composti d’un gran numero di cittadini scelti mediante sorteggio e non guidati da nessun giurista; erano, naturalmente, soggetti a lasciarsi influenzare dall’eloquenza o dalla passione di parte. Quando si sente criticare la democrazia, bisogna ricordare che si parla di cose di questo genere.

C’è una lunga dissertazione intorno alle cause della rivoluzione. In Grecia le rivoluzioni erano frequenti come oggi nell’America latina, e quindi Aristotele aveva un’abbondante esperienza da cui trarre deduzioni. La causa principale era il conflitto tra gli oligarchici e i democratici.

La democrazia, dice Aristotele, nasce dalla teoria che coloro i quali sono liberi debbano essere uguali da tutti i punti di vista; l’oligarchia dal fatto che chi è superiore da certi punti di vista pretende troppo. In entrambi è una parte di giustizia, ma non la parte migliore. «Quindi entrambi i partiti, ogni qualvolta la parte che hanno nel governo non si accorda con le loro idee preconcette, attizzano la rivoluzione » (1301 a).

I governi democratici sono meno soggetti alle rivoluzioni che non le oligarchie, perché gli oligarchici possono abbattersi anche gli uni con gli altri. Sembra che gli oligarchici fossero della gente energica. Si racconta che in alcune città facessero un giuramento: «Sarò nemico del popolo, e escogiterò contro di esso tutti i mali che potrò». Oggigiorno i reazionari non sono così sinceri.

Le tre cose necessarie per evitare la rivoluzione sono la propaganda governativa per l’educazione, il rispetto per la legge, anche nelle piccole cose, e la giustizia nelle leggi e nell’amministrazione, cioè «l’eguaglianza, salvando le dovute proporzioni, e dando a ogni uomo la possibilità di godere ciò che ha» (1307 a, 1307 b, 1310 a). Sembra che Aristotele non si sia mai reso conto della difficoltà dell’«eguaglianza salvando le proporzioni».

Se questa dev’essere la giustizia, la proporzione dev’essere la virtù. Ora, la virtù è difficile da misurare, ed è materia di controversia tra i partiti. Nella pratica politica si tende a misurare in base al reddito; la distinzione tra aristocrazia e oligarchia, che Aristotele cerca di fare, è possibile solo dove esiste una nobiltà ereditaria saldamente radicata. Ma anche allora, non appena si crea un’ampia classe di ricchi che non sono nobili, questi vengono associati al potere per timore che facciano una rivoluzione.

Le aristocrazie ereditarie non possono conservare a lungo il potere, eccetto là dove la terra è quasi l’unica sorgente di ricchezza. Tutta l’ineguaglianza sociale, a lungo andare, è ineguaglianza del reddito. Questo è in parte l’argomento a favore della democrazia: che il tentativo di avere una «giustizia proporzionata», basata su meriti diversi dalla ricchezza, è certamente destinato a fallire.

I difensori dell’oligarchia sostengono che il reddito è proporzionale alla virtù; il profeta diceva di non aver mai visto un uomo giusto chiedere il pane; e Aristotele pensa che i buoni abbiano press’a poco le sue stesse entrate, né larghissime, né strettissime. Ma tali teorie sono assurde. Qualsiasi genere di «giustizia» diverso dall’eguaglianza assoluta compenserà, in pratica, determinate qualità piuttosto che altre, e quindi va condannato.

C’è un brano interessante sulla tirannide. Un tiranno desidera ricchezze, mentre un re desidera onori. Le guardie del tiranno sono dei mercenari, mentre le guardie del re sono dei cittadini. I tiranni sono per lo più dei demagoghi, che raggiungono il potere promettendo di proteggere il popolo contro la nobiltà.

In tono ironico e machiavellico, Aristotele spiega ciò che un tiranno deve fare per conservare il potere. Deve impedire il sorgere d’una persona di meriti eccezionali, se necessario mediante condanna a morte o assassinio. Deve proibire i pasti in comune, i circoli, e qualsiasi sorta di educazione che possa generare sentimenti a lui ostili.

Deve vietare riunioni o discussioni letterarie. Deve evitare che le persone si conoscano bene tra loro e deve obbligarle a vivere la propria vita pubblica alla sua presenza. Deve impiegare spie, come le donne-poliziotto di Siracusa. Deve seminare discordie e impoverire i suoi sudditi. Deve tenerli occupati in grandi lavori, come faceva il re d’Egitto costruendo le Piramidi. Deve dare il potere alle donne e agli schiavi, per far di loro degli informatori. Deve fare la guerra, perché i suoi sudditi abbiano qualcosa da fare e abbiano sempre bisogno d’un capo ( 1313 a e b).

È una riflessione malinconica che questo brano sia, in tutto il libro, il più aderente ai nostri giorni. Aristotele conclude che non c’è malvagità troppo grande per un tiranno. C’è però, dice, un altro metodo per conservare una tirannide, e cioè il mostrarsi moderato e religioso. Non si danno indicazioni su quale dei due metodi abbia maggiori probabilità di successo.

C’è un lungo ragionamento per provare che le conquiste oltre le frontiere non rappresentano lo scopo dello Stato, il che dimostra che molta gente stava acquistando una mentalità imperialistica. C’è, è vero, un’eccezione: la conquista degli «schiavi per natura» è giusta e opportuna. Questo, dal punto di vista di Aristotele, giustificherebbe le guerre contro i barbari, ma non contro i Greci, perché nessun Greco è «schiavo per natura».

In generale, la guerra è solo un mezzo non un fine; una città situata in una posizione isolata, che le renda impossibile effettuare delle conquiste, può essere felice lo stesso; gli Stati che vivono nell’isolamento non sono necessariamente inattivi. Dio e l’universo sono attivi, benché le conquiste all’estero siano impossibili per loro. La felicità che uno Stato dovrebbe cercare, dunque, anche se la guerra può essere talvolta un mezzo necessario per raggiungerla, non dev’essere la guerra, ma le attività della pace.

Ciò porta alla domanda: quanto dev’essere grande uno Stato? Le grandi città non sono mai governate bene, perché una grande moltitudine non può essere ordinata. Uno Stato dovrebb’essere abbastanza grande da essere più o meno autosufficiente, ma non troppo grande per un governo costituzionale.

Dovrebb’essere abbastanza piccolo perché i cittadini conoscano i rispettivi caratteri, altrimenti non potranno giudicar bene nelle elezioni e nei processi. Il territorio deve essere abbastanza piccolo da poter essere osservato nella sua totalità da una vetta. Dev’essere autosufficiente (1326 b), ma deve avere anche un traffico di esportazioni e importazioni (1327 a): il che appare abbastanza evidente come una incongruenza.

Gli uomini che lavorano per vivere non devono avere diritto di cittadinanza. «I cittadini non devono condurre la vita degli operai o dei commercianti, perché una tale vita è ignobile e nemica della virtù». Non devono neppure essere degli agricoltori, perché han bisogno di riposa.

I cittadini devono avere la proprietà, ma gli agricoltori devono essere schiavi di un’altra razza (1330 a). Le razze nordiche sono ardimentose, le razze meridionali sono intelligenti; quindi gli schiavi devono appartenere alle razze meridionali, dato che non è conveniente che siano ardimentosi. Solo i Greci sono al tempo stesso ardimentosi e intelligenti; sono governati meglio dei barbari, e se si unissero potrebbero dominare il mondo (1327 b). A questo punto ci si poteva attendere qualche allusione ad Alessandro, e invece niente.

Riguardo alle dimensioni degli Stati, Aristotele commette, su scala diversa, lo stesso errore di molti liberali moderni. Uno Stato dev’essere in grado di difendersi in guerra, e anzi, se deve sopravvivere una certa cultura liberale, difendersi senza grandissima difficoltà. Quanto grande debba essere lo Stato, a questo scopo, dipende dalla tecnica della guerra e dalla produzione.

Ai tempi d’Aristotele la Città-Stato era superata perché non poteva difendersi contro la Macedonia. Ai nostri giorni la Grecia intera, compresa la Macedonia, è insufficiente in questo senso, come è stato recentemente dimostrato. Sostenere la completa indipendenza per la Grecia, o per qualsiasi altro piccolo paese, è ora altrettanto futile che sostenere l’indipendenza completa per una singola città, il cui territorio si possa scorgere tutto da un’altura.

Non può esserci vera indipendenza che per uno Stato, o per una federazione, abbastanza forte da respingere con le proprie forze tutti i tentativi di conquista straniera. Un organismo più piccolo dell’America e dell’Impero britannico associati non soddisferebbe questi requisiti; e forse anche questo blocco sarebbe troppo piccolo.

Il libro che — nella forma in cui lo abbiamo — appare incompiuto, termina con una dissertazione intorno all’educazione. L’educazione, naturalmente, è riservata solo ai fanciulli destinati a divenir cittadini; agli schiavi possono essere insegnate attività utili, come il cucinare, ma queste non fanno parte dell’educazione.

Il cittadino dev’essere modellato secondo la forma di governo sotto cui vive, e ci saranno quindi delle differenze a seconda che la città sia oligarchica o democratica. Nella discussione, però, Aristotele suppone che tutti i cittadini parteciperanno al potere politico. I fanciulli devono imparare ciò che è loro utile, e che non li rende volgari; per esempio, non si deve insegnar loro attività alcuna che deformi il corpo, o che li metta in grado di guadagnar denaro.

Devono praticare l’atletica con moderazione, e non fino al punto di acquistare in questo campo un’abilità professionale; i ragazzi che si allenano per i giochi olimpici si guastano la salute, ed è dimostrato dai fatti che chi è riuscito vittorioso da ragazzo finisce difficilmente vittorioso da uomo. I fanciulli devono imparare a disegnare, per apprezzare la bellezza della forma umana; e bisogna insegnare loro la pittura e la scultura in quanto esprimono idee morali.

Possono imparare a cantare e a suonare strumenti musicali tanto da goder la musica con spirito critico, ma non tanto da divenire abili esecutori; poiché nessun uomo libero suonerebbe o canterebbe se non quando è ubriaco. Devono naturalmente imparare a leggere e a scrivere, malgrado l’inutilità di queste arti. Ma lo scopo dell’educazione è la «virtù», non l’utilità. Ciò che Aristotele intende per «virtù», ce lo ha detto nell’Etica, a cui questo libro fa frequentemente riferimento.

Le posizioni fondamentali di Aristotele, nella Politica, sono assai diverse da quelle di qualunque scrittore moderno. Scopo dello Stato, secondo le sue teorie, è di produrre dei signori colti, uomini che uniscano alla mentalità aristocratica l’amore per la scienza e per le arti. Questa coincidenza esisteva, nel più alto grado, nell’Atene di Pericle, non tra la massa della popolazione, ma tra i benestanti.

Cominciò a venir meno negli ultimi anni di Pericle. Il popolo minuto, privo di cultura, si volse contro gli amici di Pericle, che avevano finito per difendere i privilegi dei ricchi con perfidie, assassinii, dispotismi illegali e metodi analoghi, per la verità non molto nobili. Dopo la morte di Socrate, diminuì il fanatismo della democrazia ateniese, e Atene rimase il centro della cultura antica, ma il potere politico trasmigrò altrove.

Durante tutti i successivi secoli dell’età antica il potere e la cultura furono in genere separati: il potere rimase nelle mani di rudi soldati e la cultura appartenne ai Greci, non solo privi di potere, ma spesso schiavi. Questo è vero soltanto in parte per Roma nel suo glorioso periodo, ma lo si può appurare con sicurezza per quanto riguarda la Roma che precede Cicerone e quella che segue Marc’Aurelio.

Dopo le invasioni barbariche, i «signori» furono rozzi barbari settentrionali, gli uomini di cultura furono acuti ecclesiastici meridionali. Questo stato di cose continuò, più o meno, fino al Rinascimento, quando la cultura cominciò a introdursi nel mondo laico. Dal Rinascimento in poi, il concetto greco del governo tenuto da signori colti andò sempre più prendendo piede, raggiungendo l’acme nel XVIII secolo.

Varie forze hanno messo fine a questo stato di cose. Prima, la democrazia, come fu espressa dalla Rivoluzione francese e dai fatti posteriori. I signori colti, come dopo l’età di Pericle, dovevano difendere i loro privilegi contro la plebe, e cessarono invece di essere sia signori sia colti.

Una seconda causa fu il sorgere dell’industrialismo, e di una tecnica scientifica assai diversa dalla cultura tradizionale. Una terza causa fu l’educazione popolare, che dava a tutti la possibilità di leggere e scrivere, ma non la cultura; questo rese possibile a un nuovo tipo di demagoghi di svolgere un nuovo tipo di propaganda, come si è visto nelle dittature.

Bene o male che sia, dunque, l’epoca dei signori colti è tramontata.

Da: Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, Milano, Longanesi, 1948.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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