La morale in Kant

Lasciamo da parte i sentimenti

Mario Mancini
6 min readDec 27, 2022

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La morale non ha niente a che fare coi sentimenti

Per Kant la moralità non ha a che fare solo con cosa si fa, ma col perché lo si fa. Coloro che fanno la cosa giusta non la fanno solo perché mossi dai propri sentimenti: la loro decisione deve essere basata sulla ragione, quella ragione che ci dice cos’è nostro dovere fare e non fare, indipendentemente da cosa proviamo.

Un’azione è morale perché obbedisce al senso del dovere e non ai sentimenti.

Le buone intenzioni non sono sufficienti per rendere moralmente buona un’azione. Legato a questo è il discorso sulla verità e la menzogna. La seconda non è mai ammessa. Tutti abbiamo il dovere assoluto di dire la verità o, come lo chiamava Kant, un imperativo categorico a farlo il quale equivale a un ordine.

Il dovere dell’imperativo categorico

Secondo Kant la morale è un sistema di imperativi categorici. Il dovere morale è dovere morale indipendentemente dalle conseguenze e dalle circostanze.

Si dovrebbe agire solo sulla base di massime universalizzabili, cioè applicabili a chiunque. Questo significa che dovremmo compiere unicamente azioni che hanno senso per chiunque si trovi nella medesima situazione.

Per Kant ciò significa in pratica che il prossimo non deve essere usato ma trattato con rispetto, riconoscendone l’autonomia, la capacità individuale a prendere decisioni per proprio conto. Questo profondo rispetto nei confronti della dignità e del valore degli individui è la base della moderna dottrina dei diritti umani, ed è il grande contributo di Kant alla filosofia morale.

Ingannare il prossimo è un modo per usarlo per i propri scopi; quindi non può essere un principio morale. Se tutti ingannassero tutti, non potrebbe esistere alcuna forma di fiducia reciproca e nessuno crederebbe più a nessuno.

I casi di imperativo categorico

Kant corrobora la sua enunciazione teorica della dottrina dell’imperativo categorico con l’analisi di alcuni casi concreti. La tendenza spontanea è quella tende a relativizzare e a giustificare in base a considerazioni circostanziali le azioni che si tendono a negare in linea di principio. Ma se un comportamento si nutre unicamente dell’imperativo categorico, puo essere universalizzato come legge generale in maniera non negoziabile, deve essere messo in atto a prescindere, senza “se” e senza “ma”.

Kant e Bentham

Scrive Nigel Warburton nella sua Breve storia della filosofia:

La filosofia morale di Kant è profondamente diversa da quella di Jeremy Bentham, che vedremo nel prossimo capitolo. Se Kant sosteneva che certe azioni sono sbagliate indipendentemente dalle loro conseguenze, Bentham e gli utilitaristi pensavano che fossero le conseguenze a contare, e solo quelle.

Da “La Metafisica dei costumi”

L’imperativo categorico è assoluto

Se penso un imperativo ipotetico in generale, non so ciò che conterrà finché non mi si presenti. Se invece penso un imperativo categorico, so immediatamente che cosa contiene.

Infatti l’imperativo, oltre alla legge, non contiene che la necessità, per la massima, di essere conforme a tale legge, senza che la legge sottostia a nessuna condizione.

Di conseguenza non resta che l’universalità d’una legge in generale, a cui deve conformarsi la massima dell’azione, ed è soltanto questa conformità che l’imperativo presenta propriamente come necessaria.

Caso primo. Dolore e suicidio

Un uomo, per una serie di mali che ha finito con il ridurlo alla disperazione, sente un gran disgusto della vita, è però ancora di tanto in possesso della sua ragione da poter domandarsi se non sarebbe una violazione del dovere verso se stesso il togliersi la vita.

Egli cerca, allora, se la massima della sua azione potrebbe ben diventare una legge universale della natura. La sua massima sarebbe questa: per amore di me stesso io stabilisco il principio di poter abbreviarmi la vita dal momento che, prolungandola, ho più a temerne mali che a sperarne soddisfazioni. La questione è ora soltanto di sapere se questo principio dell’amor di sé potrebbe diventare una legge universale della natura.

Si scorge però subito che una natura, la cui legge sarebbe di distruggere la vita stessa, appoggiandosi proprio su quel sentimento la cui funzione speciale è di incitare allo sviluppo della vita, sarebbe in contraddizione con se stessa e non potrebbe sussistere come natura.

Di conseguenza, questa massima non potrebbe assolutamente occupare il posto di una legge universale della natura, ed è perciò completamente contraria al principio supremo d’ogni dovere.

Caso secondo. Sapere di non poter restituire un prestito

Un altro è spinto dal bisogno a chiedere in prestito del denaro. Egli sa che non potrà restituirlo, ma comprende anche che non gli verrà prestato nulla, se egli non si impegna seriamente a restituirlo in un’epoca determinata. Egli avrebbe ben desiderio di fare questa promessa, ma ha ancora abbastanza coscienza da domandarsi: non è proibito e contrario al dover cercare di salvarsi dal bisogno in tal modo?

Supposto, però, che egli abbracci questo partito, la massima della sua azione significherebbe questo:

Quando io credo di trovarmi in bisogno di denaro, ne chiedo in prestito promettendo di restituirlo, quantunque io sappia che non lo farò mai. Ora, è bensì possibile che questo principio dell’amor di sé o della propria utilità si connetta con tutto il mio futuro benessere, ma per il momento la questione è: è giusto questo? Io trasformo dunque l’esigenza dell’amor di sé in una legge universale, e pongo la questione seguente: che cosa succederebbe, se la mia massima diventasse una legge universale?

Ora, io vedo subito ch’essa non potrebbe giammai valere come legge universale della natura… Perché ammettere come legge universale che ogni uomo che crede di trovarsi in bisogno possa promettere tutto quello che gli salta in testa con il proposito di non mantener nulla, renderebbe impossibile ogni promessa, e irraggiungibile lo scopo che si vuol ottenere con questa, perché nessuno crederebbe più a ciò che gli si promette e riderebbe di tali dimostrazioni come di vane finzioni.

Caso terzo. Uso del talento

Un terzo sente di possedere tale ingegno che, mediante qualche applicazione, potrebbe fare di sé un uomo utile sotto molti aspetti. Ma egli si trova in condizione agiata e preferisce abbandonarsi al piacere anziché sforzarsi di estendere e di perfezionare le sue felici disposizioni naturali. Però egli si domanda se la sua massima di trascurare i suoi doni naturali, che in se stessa s’accorda con la sua tendenza al godimento, s’accorda altrettanto bene con ciò che si chiama dovere.

Ora, egli vede bene che, senza dubbio, una natura, malgrado una tale legge universale, potrebbe sempre ancora sussistere, anche quando l’uomo (come l’abitatore del Mare del Sud) lasciasse arrugginire i suoi talenti e non pensasse che a volgere la sua vita verso l’ozio, il piacere, la propagazione della specie, in una parola, verso il godimento; ma egli non può assolutamente volere che questa divenga una legge universale della natura, o che ciò sia innato in noi come istinto naturale.

Perché, come essere ragionevole, egli vuole necessariamente che tutte le facoltà siano sviluppate in lui, visto che gli sono state date per servirgli a ogni sorta di fini possibili.

Caso quarto. Indifferenza verso gli altri

Infine, un quarto a cui tutto riesce, vedendo che gli uomini (che egli potrebbe benissimo aiutare) sono in lotta con grandi difficoltà, ragiona così: Che me ne importa? Ciascuno sia felice come piace al Cielo o come può rendersi da se stesso; io non gli sottrarrò la minima parte di ciò che ha, anzi non l’invidierò mai; soltanto, io non mi sento di contribuire in alcunché al suo benessere o di aiutarlo nel suo bisogno.

Ora, se un tal modo di pensare diventasse una legge universale della natura, la specie umana potrebbe senza dubbio sussistere, in migliori condizioni di quando ognuno parla continuamente di simpatia e di benevolenza, e si affaccenda anche a praticarle all’occasione; ma poi, al contrario, appena lo può, inganna, traffica il diritto degli uomini, o li danneggia in qualsiasi altro modo. LA

Ma, quantunque sia possibile che sussista una legge universale della natura conforme a quella massima, è per altro impossibile di volere che un tale principio valga universalmente come legge della natura.

Perché una volontà che prendesse questo partito si contraddirrebbe da se stessa, in quanto potrebbero darsi dei casi in cui quest’uomo possa aver bisogno dell’amore e della simpatia degli altri, e in cui, per conseguenza, sarebbe privato egli stesso di ogni speranza d’ottenere l’assistenza che desidera, in forza di quella stessa legge istituita dalla sua propria volontà.

Questi sono soltanto alcuni dei numerosi doveri reali o considerati almeno da noi come tali, la cui derivazione dall’unico principio che abbiamo esposto salta evidentemente agli occhi. Bisogna che si possa volere che ciò che è una massima della nostra azione divenga una legge universale: questo è il canone che permette l’apprezzamento morale della nostra azione in generale.

Da Ubaldo Nicola, Filosofia. Antologia illustrata, Firenze, Giunti, Edizione del Kindle, pp. 698–701

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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