La metafisica di Aristotele
di Bertrand Russell
È difficile decidere da qual punto cominciare una esposizione della metafisica di Aristotele, ma forse è meglio partire dalla sua critica alla teoria delle idee, e dalla sua opposta dottrina, quella degli universali. Solleva contro la teoria delle idee un buon numero di ottimi argomenti, la maggior parte dei quali si possono già trovare nel Parmenide di Platone. L’argomento più forte è quello del «terzo uomo»: se un uomo è un uomo perché assomiglia all’uomo ideale, ci deve essere un uomo ancor più ideale al quale assomigliano sia l’uomo ordinario che l’uomo ideale.
Ancora, Socrate è sia un uomo sia un animale, e sorge la domanda se l’uomo ideale non sia per caso un animale ideale: se lo è, ci devono essere tanti animali ideali quante specie di animali esistono. È inutile proseguire; Aristotele dimostra che, quando a un predicato è comune un certo numero di individui, questo non può accadere in base a una relazione con qualcosa della loro stessa specie, ma con qualcosa di ideale di una specie ulteriore. Tutto ciò lo si può considerare come dimostrato, ma la dottrina di Aristotele in proposito è lungi dall’essere chiara. Fu la sua mancanza di chiarezza che rese possibile la controversia medioevale tra nominalisti e realisti.
La metafisica di Aristotele, parlando a grandi linee, può essere definita come filosofia platonica diluita con il senso comune. La cosa è difficile, perché Platone e il senso comune non si mescolano con facilità. Quando si cerca di capirlo, a volte si pensa che stia esponendo il punto di vista ordinario d’una persona digiuna di filosofia, e a volte che stia esponendo il platonismo con un vocabolario nuovo. Ciò fa sì che non convenga insistere troppo su un singolo passaggio, perché questo è suscettibile d’esser corretto o modificato in qualche passaggio successivo.
In definitiva, la maniera più semplice di comprendere sia la sua teoria degli universali sia la sua teoria della materia e della forma, è di esporre prima la dottrina basata sul senso comune, che costituisce una metà del suo modo di vedere, e poi di considerare le modificazioni platoniche a cui l’assoggetta.
Fino a un certo punto, la teoria degli universali è assai semplice. Nel linguaggio ci sono dei nomi propri e degli aggettivi. I nomi propri si applicano alle «cose» o «persone», ciascuna delle quali è la sola cosa o persona cui il nome in questione si applichi.
Il sole, la luna, la Francia, Napoleone, sono unici; non vi è un certo numero o vari esempi delle cose cui questi nomi si applicano. D’altra parte, parole come «gatto», «cane», «uomo» si applicano a molte cose differenti. Il problema degli universali è connesso al significato di queste parole, ed anche a quello degli aggettivi, come «bianco», «duro», «rotondo» e così via.
Egli dice: «Col termine “universale” intendo ciò che è di natura tale da fungere da predicato per soggetti diversi, e col termine “individuale” ciò che non può essere predicato in questo modo».
Ciò che è indicato da un nome proprio è una «sostanza», mentre ciò che è indicato da un aggettivo o dal nome d’una classe, come «umano» o «uomo», si chiama «universale». Una sostanza è un «questo», ma un universale è un «tale»; indica cioè il genere della cosa, non la cosa vera e propria. Un universale non è una sostanza, perché non è un «questo». (Il letto celeste di Platone sarebbe stato un «questo» per quanti avessero potuto scorgerlo; ecco un punto su cui Aristotele discorda da Platone). Dice Aristotele
«Sembra impossibile che un qualsiasi termine universale possa essere il nome d’una sostanza. Perché… la sostanza di ciascuna cosa è quella che è peculiare ad essa, che non appartiene a nient’altro; invece l’universale è comune, dato che si chiama universale ciò che è tale da potersi riferire a più d’una cosa».
Il nocciolo della questione, finora, è che un universale non può esistere di per se stesso, ma solo nelle singole cose.
Superficialmente, la dottrina di Aristotele è abbastanza semplice. Supponete che io dica «esiste il gioco del calcio», la maggior parte della gente considererebbe il rilievo come una banalità. Ma se io volessi dedurne che il calcio potrebbe esistere anche senza i giocatori, sarei giustamente preso per uno che dice delle sciocchezze. Analogamente, si potrebbe sostenere, la parentela esiste solo perché esistono i parenti; esiste la dolcezza, ma solo perché esistono delle cose dolci; ed esiste il color rosso, ma solo perché esistono delle cose rosse.
E si pensa che questa dipendenza non sia reciproca: gli uomini che giocano al calcio esisterebbero ancora anche se non giocassero mai al calcio; le cose che normalmente sono dolci possono diventare amare; e il mio viso, che di solito è rosso, può diventar pallido senza per questo cessare d’essere il mio viso. Così siamo portati a concludere che ciò che è indicato da un aggettivo dipende, per poter essere, da ciò che è indicato da un nome proprio, ma non viceversa. Questo, credo, è ciò che Aristotele intende. La sua dottrina su questo punto, come su molti altri, è un concetto comune espresso pedantescamente.
Ma non è facile precisare la teoria. Assodato che il calcio non potrebbe esistere senza giocatori, potrebbe però benissimo esistere senza questo o quel giocatore. È assodato che una persona può esistere senza giocare al calcio, essa nondimeno non può esistere senza essere qualcosa. La qualità d’esser rosso non può esistere senza qualche oggetto che lo sia, ma può esistere senza questo o quell’oggetto; analogamente un oggetto non può esistere senza questa o quella qualità. La base che si era supposta sufficiente per distinguere tra cose e qualità appare così illusoria.
La vera base della distinzione è, infatti, linguistica; deriva dalla sintassi. Vi sono nomi propri, aggettivi, e parole relative; possiamo dire «Giovanni è saggio, Giacomo è sciocco, Giovanni è più alto di Giacomo». Qui «Giovanni» e «Giacomo» sono nomi propri, «saggio» e «sciocco» sono aggettivi e «più alto» è una relazione. I metafisici, da Aristotele in poi, hanno interpretato metafisicamente queste differenze sintattiche: Giovanni e Giacomo sono sostanze, la saggezza e la stupidità sono universali. (Le parole relative sono ignorate o male interpretate).
Può essere che, mettendoci sufficiente attenzione, si possano trovare delle differenze metafisiche che siano in rapporto con queste differenze sintattiche, ma, se è così, sarà solo per mezzo d’un lungo processo, che, incidentalmente, implicherà la creazione d’un artificiale linguaggio filosofico. E questo linguaggio non conterrà nomi come «Giovanni» e «Giacomo» né aggettivi come «saggio» e «sciocco»; tutte le parole dei linguaggi ordinari saranno state sottoposte ad analisi e sostituite con altre parole di significato meno complesso.
Finché questo lavoro non è stato eseguito, la questione dei particolari e degli universali non può essere adeguatamente discussa. E quando giungeremo al punto di poterla finalmente discutere, scopriremo che la questione che stiamo discutendo è del tutto diversa da quella che supponevamo al principio.
C’è un altro termine importante in Aristotele e nei successori della sua scuola, ed è il termine «essenza». Questo non è affatto sinonimo di «universale». Consiste, si può dire, in quelle tra le vostre proprietà che non potete perdere senza cessare d’esser voi stessi.
Non solo una singola cosa, ma un’intera specie ha la sua essenza. Tornerò al concetto di «essenza» in relazione alla logica aristotelica. Per ora osserverò solo che mi sembra una nozione confusa, che non può essere delineata con precisione.
Il punto successivo nella metafisica di Aristotele è la distinzione tra «forma» e «materia». (Bisogna comprendere che «materia», nel senso opposto a «forma», è diversa da «materia» intesa come contrario di «anima».)
Anche qui la teoria di Aristotele si basa sul senso comune, ma qui, più che nel caso degli universali, le modificazioni platoniche acquistano grande importanza. Partiamo per esempio da una statua di marmo; qui il marmo è la materia, mentre la figura fatta dallo scultore è la forma. O, per prendere gli esempi di Aristotele, se si costruisce una sfera di bronzo, il bronzo è la materia e la sfericità è la forma; mentre nel caso d’un mare calmo, l’acqua è la materia, e la calma è la forma. Fin qui, tutto è semplice.
È in virtù della forma che la materia è qualcosa di definito, e questo qualcosa è la sostanza. Quel che dice Aristotele sembra né più né meno che ordinario senso comune: una «cosa» dev’essere limitata, e il limite costituisce la sua forma. Prendete, diciamo, un volume d’acqua: una parte di essa può esser sottratta al resto, racchiudendola in un recipiente, e allora questa parte diviene una «cosa», ma finché quella parte non è in alcun modo separata dal resto della massa omogenea, essa non è una «cosa».
Una statua è una «cosa», e il marmo di cui è composta è, in un certo senso, immutato da quel che era quando faceva parte d’un blocco o d’una cava. Noi non diremmo naturalmente che è la forma a conferire sostanzialità al marmo, ma questo perché l’ipotesi atomica è ormai penetrata nella nostra immaginazione. Ogni atomo, però, se è una «cosa», lo è per il fatto d’esser delimitato da altri atomi, e di avere quindi, in un certo senso, una «forma».
Veniamo ora a un nuovo argomento che, a prima vista, sembra difficile. L’anima è la forma del corpo. Qui è chiaro che «forma» non significa «configurazione». Tornerò più tardi sul senso in cui l’anima è la forma del corpo; per ora osserverò solo che, nel sistema di Aristotele, l’anima è ciò che rende il corpo unico, con unità di scopi, e con le caratteristiche che associamo all’idea di «organismo». Scopo d’un occhio è di vedere, ma un occhio non può vedere se è separato dal corpo. Infatti, è l’anima che vede.
Sembrerebbe allora che la «forma» sia ciò che dà unità a una porzione di materia e che questa unità sia di solito, se non sempre, teleologica. Ma la «forma» è più di questo, e il più è assai complicato.
La forma d’una cosa è la sua essenza e la sua sostanza primordiale. Le forme sono sostanziali, benché gli universali non lo siano. Quando un uomo fabbrica una sfera d’ottone, sia la materia sia la forma esistevano da prima, e tutto ciò ch’egli fa è di metterle insieme; l’uomo non crea la forma più di quanto non crei l’ottone. Non tutto ha materia; ci sono delle cose eterne, e queste non hanno materia, eccetto quelle mobili nello spazio. Le cose acquistano realtà acquistando forma; la materia senza forma è soltanto una potenzialità.
La teoria che le forme siano sostanze, esistenti indipendentemente dalla materia in cui si estrinsecano, sembra far incappare Aristotele in quelle stesse argomentazioni che egli rivolgeva contro le idee platoniche. Egli considera una forma come qualcosa del tutto differente da un universale, ma fornito di molte caratteristiche di quest’ultimo. La forma è più reale della materia; e qui c’è la reminiscenza dell’unica e vera realtà delle idee. Il cambiamento che Aristotele apporta alla metafisica di Platone è, a quanto pare, minore di quanto egli non voglia far apparire.
Questa conclusione è tratta da Zeller, il quale sul problema della materia e della forma, dice:
«La spiegazione ultima del desiderio di chiarezza che ha Aristotele su questo soggetto va, però, ricercata nel fatto che Aristotele si era solo a metà emancipato, come vedremo, dalla tendenza platonica a ipostatizzare le idee. Le “Forme” avevano per lui, come le “Idee” per Platone, una propria esistenza metafisica, che condizionava tutte le cose particolari. E per quanto acutamente egli abbia seguito lo svilupparsi delle idee dall’esperienza, nondimeno è vero che queste idee, specialmente là dove sono maggiormente lontane dall’esperienza e dalla percezione immediata, subiscono infine la metamorfosi da prodotto logico del pensiero umano a rappresentazione immediata d’un mondo supersensibile, e a oggetto, in tal senso, di una intuizione intellettuale».
Non vedo come Aristotele avrebbe potuto trovare una risposta a questa critica.
La sola risposta prevedibile sarebbe quella di sostenere che due cose possano avere la stessa forma. Se un uomo fabbrica due sfere d’ottone (dovremmo dire), ciascuna ha la sua speciale sfericità, sostanziale e particolare, esempio della «sfericità» universale, ma non identica ad essa. Non credo che il linguaggio dei passi che ho citato ammetterebbe facilmente quest’interpretazione. E resterebbe ancora in piedi l’obiezione che la sfericità particolare, nella teoria di Aristotele, sarebbe inconoscibile, mentre è nell’essenza della sua metafisica che le cose divengano gradualmente più conoscibili, via via che c’è più forma e meno materia.
Questo non è coerente con le altre sue teorie, a meno che la forma non possa essere incorporata in molte cose particolari. Se dovesse dire che esistono tante forme che sono esempi di sfericità, quante sono le cose sferiche, dovrebbe operare alterazioni assai profonde nella sua filosofia. Per esempio, la sua teoria che una forma è identica alla sua essenza è incompatibile con la scappatoia suggerita or ora.
La dottrina della materia e della forma è connessa in Aristotele con la distinzione tra potenzialità e attualità. La materia bruta è concepita come una forma in potenza; tutto il cambiamento consiste in quella che chiameremmo un’«evoluzione», nel senso che dopo il mutamento la cosa in questione ha più forma di prima. Ciò che ha più forma viene considerato più «reale». Dio è pura forma e puro atto; in lui, quindi, non ci può esser mutamento. Questa dottrina è ottimistica e teleologica: l’universo e tutto ciò che sta in esso evolvono continuamente verso qualcosa che è migliore di quel che è venuto prima.
Il concetto di potenzialità è comodo sotto certi aspetti, purché sia usato in modo tale che le frasi si possano trasformare in una forma diversa, in cui tale concetto sia assente.
«Un blocco di marmo è una statua potenziale» significa «da un blocco di marmo, con atti opportuni, si trae una statua». Ma la potenzialità, quando viene usata come concetto fondamentale e irriducibile, cela sempre una confusione d’idee. L’uso che ne fa Aristotele è uno dei punti deboli del suo sistema.
La teologia di Aristotele è interessante, e strettamente legata al resto della sua metafisica; anzi «teologia» è uno dei nomi che egli adopera per ciò che noi chiamiamo «metafisica». (Il libro che conosciamo sotto questo nome non fu chiamato così da lui).
Il principale argomento per dimostrare l’esistenza di Dio è quello della Causa Prima: ci dev’essere qualcosa che origina il moto, e questo qualcosa dev’essere immobile ed eterno, sostanza e realtà. L’oggetto del desiderio e l’oggetto del pensiero, dice Aristotele, generano in questo senso un movimento, senza essere essi stessi in moto. Così Dio produce il movimento col fatto d’essere amato, mentre ogni altra causa di movimento opera per il fatto d’essere essa stessa in moto (come una palla da biliardo).
Dio è puro pensiero; perché il pensiero è ciò che c’è di meglio. «Anche la vita appartiene a Dio; perché attualità del pensiero è la vita, e Dio è quella attualità; e la attualità di Dio, che dipende da se stessa, è vita ottima ed eterna. Diciamo quindi che Dio è un essere vivente, eterno, ottimo, tale che la vita e il tempo eterno ed ininterrotto appartengono a Dio; perché questo è Dio (1072 b).
«È chiaro dunque, da ciò che s’è detto, che esiste una sostanza eterna ed immobile e separata dalle cose sensibili. È però stato dimostrato anche che è impassibile e inalterabile; perché tutti gli altri mutamenti dipendono da traslazione» (1073 a).
Dio non ha gli attributi della Provvidenza cristiana, perché verrebbe meno alla sua perfezione se pensasse a qualcosa di diverso da ciò che è perfetto, cioè se stesso. «Solo a se stesso deve pensare il pensiero divino (dato che è la più eccellente delle cose), e il suo pensare è un pensare sul pensare» (1074 b). Dobbiamo dedurne che Dio ignora resistenza del nostro mondo sublunare. Aristotele, come Spinoza, sostiene che, mentre gli uomini devono amare Dio, è impossibile che Dio ami gli uomini.
Dio non è definibile come «il Motore immoto». Al contrario, considerazioni astronomiche portano alla conclusione che esistono quarantasette o cinquantacinque motori immoti (1074 a). Il rapporto di questi con Dio non è chiaro; invero l’interpretazione, che verrebbe spontanea, è che ci siano quarantasette o cinquantacinque dèi. Infatti, dopo uno dei suddetti brani intorno a Dio, Aristotele prosegue: «Non dobbiamo ignorare il problema se sia lecito supporre una di tali sostanze o più d’una», e subito si avventura nel ragionamento che lo porta ai quarantasette o cinquantacinque motori immoti.
Il concetto di motore immoto è complicato. A una mente moderna sembrerà che causa d’un cambiamento debba essere un cambiamento precedente, e che, se l’universo fosse in un dato istante del tutto statico, esso resterebbe così eternamente. Per capire ciò che dice Aristotele, dobbiamo tener conto di ciò che dice intorno alle cause. Esistono, secondo lui, quattro tipi di cause, chiamate rispettivamente: materiale, formale, efficiente e finale.
Prendiamo ancora l’uomo che fa una statua. La causa materiale della statua è il marmo, la causa formale è l’essenza della statua che dev’esser fatta, la causa efficiente è il contatto dello scalpello col marmo, e la causa finale è l’obiettivo che lo scultore ha in mente. Nella terminologia moderna, la parola «causa» sarebbe riferita alla sola causa efficiente. Il motore immoto potrebb’essere considerato come una causa finale: fornisce uno scopo ai mutamenti ed è essenzialmente un momento nell’evoluzione verso la somiglianza con Dio.
Dicevo che Aristotele non era per temperamento profondamente religioso, ma questo è vero solo in parte. Si potrebbe, forse un po’ liberamente, interpretare come segue un aspetto della sua religione: Dio esiste in eterno come puro pensiero, felicità, pieno appagamento di se stesso, senza alcuno scopo irrealizzato.
Il mondo sensibile, al contrario, è imperfetto; ha vita, desideri, pensieri di tipo imperfetto, e aspirazioni. Tutte le cose viventi sono, in grado maggiore o minore, coscienti di Dio, e sono mosse all’azione dall’ammirazione e dall’amore verso Dio. Così Dio è la causa finale di ogni attività. I mutamenti consistono nel dar forma alla materia, ma quando sono in gioco le cose sensibili, resta sempre un substrato di materia. Solo Dio è costituito di forma senza materia. Il mondo si evolve continuamente verso un grado più alto di forma, divenendo progressivamente più simile a Dio.
Ma il processo non può esaurirsi, perché la materia non può mai essere interamente eliminata. Questa è una religione di progresso e di evoluzione, in quanto la statica perfezione di Dio muove il mondo solo attraverso l’amore che gli esseri finiti sentono per lui. Platone era matematico, Aristotele biologo; questo rende conto delle differenze tra le loro concezioni religiose.
Vedere in questo modo la religione aristotelica sarebbe però unilaterale; in lui è anche l’amore greco per la perfezione statica e la preferenza per la contemplazione piuttosto che per l’azione. La sua dottrina dell’anima illustra questo aspetto della sua filosofia.
Che Aristotele insegnasse o no l’immortalità sotto una qualsiasi forma è questione dibattuta tra i suoi commentatori. Averroè, il quale sosteneva di no, ebbe dei seguaci nei paesi cristiani, i più estremisti dei quali furono chiamati epicurei, e Dante li colloca nell’inferno. In realtà la dottrina di Aristotele è complessa e si presta facilmente ad essere fraintesa.
Nel libro Dell’anima, egli considera l’anima come legata al corpo, e mette in ridicolo la dottrina pitagorica della trasmigrazione (407 b). L’anima, a quanto pare, muore con il corpo: «ne consegue senz’ombra di dubbio che l’anima è inseparabile dal corpo» (413 a); ma aggiunge immediatamente: «o almeno lo sono certe parti di essa».
Corpo ed anima sono messi in relazione come materia e forma: «l’anima deve essere una sostanza, dev’essere cioè la forma di un corpo materiale che ha in sé potenzialmente la vita. Ma la sostanza è realtà, e così l’anima è la realtà d’un corpo caratterizzato come sopra» (412 a).
L’anima «è sostanza nel senso che corrisponde alla forma definitiva dell’essenza d’una cosa. Ciò significa che è l’essere essenziale” d’un corpo dal carattere or ora descritto» (cioè che ha vita) (412 b). L’anima è il primo grado di realtà d’un corpo che ha in sé potenzialmente la vita. Il corpo così descritto è un corpo organizzato (412 a). Chiedere se l’anima e il corpo siano una cosa sola è altrettanto privo di senso quanto chiedere se siano una cosa sola la cera e la forma datale dallo stampo (412 b). L’autonutrizione è il solo potere psichico posseduto dalle piante (413 a). L’anima è la causa finale del corpo (414 a).
In questo libro si distingue tra «anima» e «spirito», presentando lo spirito come più elevato dell’anima e meno legato al corpo. Dopo aver parlato della relazione tra anima e corpo, si dice in esso: «Il caso dello spirito è differente; sembra trattarsi d’una sostanza indipendente, fissata nell’anima ed incapace d’esser distrutta» (408 b).
Ancora:
«Non abbiamo per ora alcuna prova intorno allo spirito o al potere di pensare; sembra un tipo di anima assai differente, che si diversifica, in quanto è eterno, da ciò che è perituro; esso solo è capace d’esistenza anche se isolato da tutti gli altri poteri psichici. Tutte le altre parti dell’anima, è evidente da ciò che abbiamo detto, sono, a dispetto di certe affermazioni in contrario, incapaci d’esistenza separata» (413 b).
Lo spirito è la parte di noi che capisce la matematica e la filosofia; gli oggetti cui si rivolge sono immortali, e quindi anch’esso è da considerarsi immortale. L’anima muove il corpo e percepisce gli oggetti sensibili; è caratterizzata dall’autonutrizione, dalle sensazioni, dai sentimenti, dai movimenti (413 b); ma lo spirito ha una più alta funzione, quella di pensare, il che è al di fuori del corpo e dei sensi. Quindi lo spirito può essere immortale, benché il resto dell’anima non possa esserlo.
Per capire la dottrina aristotelica dell’anima, dobbiamo ricordare che l’anima è la «forma» d’un corpo, e che la configurazione spaziale è un tipo di «forma». Cosa c’è in comune tra l’anima e la configurazione? Credo che ci sia in comune il fatto che entrambe conferiscono un’unità a una certa quantità di materia.
La porzione d’un blocco di marmo che poi diventerà una statua non è ancora separata dal resto del marmo; non è ancora una «cosa» e non ha ancora alcuna unità. Dopo che lo scultore ha fatto la statua, quel marmo ha acquistato un’unità che deriva appunto dalla sua configurazione. Ora, il carattere principale dell’anima, in virtù del quale è la «forma» del corpo, è quello di rendere il corpo un’unità organica, che ha, in quanto unità alcuni scopi.
Un singolo organo ha scopi che sono esterni all’organo stesso; l’occhio, se isolato, non può vedere. Così intorno a un animale o a una pianta si possono dire molte cose che non si possono dire intorno ad una parte di essi. È in questo senso che l’organizzazione, o forma, conferisce sostanzialità. Ciò che conferisce sostanzialità a una pianta o a un animale è quella che Aristotele chiama «anima».
Ma lo «spirito» è qualcosa di diverso, di meno intimamente legato al corpo; forse fa parte dell’anima, ma è posseduto solo da una piccola minoranza di esseri viventi (415 a). Lo spirito, inteso come speculazione, non può essere la causa del movimento, perché non pensa mai intorno a ciò che si può mettere in pratica, e non dice mai ciò che si deve evitare o su cui si deve insistere (432 b).
Una dottrina analoga, pur con un lieve cambiamento di terminologia, è esposta nell’Etica a Nicomaco. C’è nell’anima un elemento razionale e uno irrazionale. La parte irrazionale è a due facce: quella vegetativa, che si trova in tutto ciò che è vivo, anche nelle piante, e quella appetitiva, che si trova in tutti gli animali (1102 b). La vita dell’anima razionale consiste nella contemplazione, che è la felicità completa dell’uomo, pur non essendo completamente raggiungibile.
«Una tal vita sarebbe troppo alta per l’uomo; infatti non è in quanto egli è un uomo che vivrà così, ma in quanto qualcosa di divino è presente in lui; e questo è di tanto superiore alla nostra complessa natura, quanto la sua attività è superiore all’esercizio dell’altro genere di virtù (il genere pratico). Se la ragione è divina a paragone dell’uomo, allora la vita secondo ragione è divina in paragone alla vita umana. Ma non dobbiamo seguire chi ci consiglia, per il fatto che siamo uomini, di pensare a cose umane, e per il fatto che siamo mortali, a cose mortali; dobbiamo, bensì, per quel che possiamo, renderci immortali e costringere ogni nostra fibra a vivere in armonia con ciò che c’è di meglio in noi: perché anche se questo sarà in piccolissima quantità, sorpasserà di gran lunga tutto il resto in potere ed in valore» (1177 b).
Da questi brani sembra che l’individualità, che distingue un uomo da un altro, riguardi il corpo e l’anima irrazionale, mentre l’anima razionale o spirito è divina e impersonale.
A uno piacciono le ostriche, a un altro gli ananassi; questo li distingue l’uno dall’altro. Ma quando studiano la tavola pitagorica, ammesso che non sbaglino, non c’è alcuna differenza tra loro. L’irrazionale ci separa, il razionale ci unisce. Così l’immortalità dell’anima (o ragione) non è un’immortalità personale d’ogni singolo uomo, ma una partecipazione all’immortalità di Dio.
Non sembra che Aristotele credesse nell’immortalità personale, nel senso insegnato da Platone e, poi, dal Cristianesimo. Credeva solo che, in quanto gli uomini sono razionali, partecipano della divinità, che è immortale. È possibile all’uomo accrescere l’elemento divino che è nella sua natura, e il farlo è la più elevata delle virtù. Ma se ci riuscisse completamente, avrebbe cessato d’esistere come persona. Forse questa non è la sola interpretazione possibile delle parole di Aristotele, ma credo che sia la più naturale.
Da: Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, Milano, Longanesi, 1948.