La filosofia politica di J.J. Rousseau
Forzati ad essere liberi
di Betrand Russell
Kant diceva di dover leggere parecchie volte i libri di Rousseau, perché alla prima lettura la bellezza dello stile gli impediva di prestare attenzione al contenuto.
Bertrand Russell
La teoria politica di Rousseau è esposta nel Contratto sociale, pubblicato nel 1762. Questo libro è di carattere assai diverso dalla maggior parte dei suoi scritti; contiene poco sentimento e molto ragionamento rigidamente intellettuale. Le dottrine esposte, pur rendendo formale omaggio alla democrazia, tendono a giustificare lo Stato totalitario.
Ma Ginevra e l’antichità si alleavano per fargli preferire la Città-Stato ai grandi imperi come quelli di Francia e d’Inghilterra. Sul frontespizio si definisce “cittadino di Ginevra”, e nelle frasi introduttive dice: “Nato cittadino di un libero Stato, e membro della sovranità, per quanto debole influsso possa aver la mia voce nei pubblici affari, il diritto di votare basta ad impormi il dovere d’istruirmi intorno ad essi”.
Frequenti i riferimenti in lode di Sparta, quale appare attraverso la Vita di Licurgo di Plutarco. Rousseau dice che la democrazia è migliore nei piccoli Stati, l’aristocrazia in quelli di media grandezza, la monarchia nei grandi. Ma bisogna comprendere che, secondo lui, i piccoli Stati sono preferibili, in parte proprio perché vi si pratica meglio la democrazia.
Quando parla di democrazia intende, come intendevano i Greci, la diretta partecipazione di tutti i cittadini alla vita pubblica; chiama il governo rappresentativo “aristocrazia elettiva”. Dato che la prima non è possibile in un grande Stato, le sue lodi per la democrazia implicano sempre le lodi per la Città-Stato. Quest’amore per la Città-Stato non è, secondo me, sufficientemente messo in rilievo nella maggior parte degli studi sulla filosofia politica di Rousseau.
Per quanto il libro, nel suo complesso, sia molto meno retorico della maggior parte degli scritti di Rousseau, il primo capitolo inizia con un passo retorico pieno di forza: “L’uomo è nato libero, e dovunque è in catene. Qualcuno si crede padrone degli altri, ma non cessa di essere più schiavo di loro”. La libertà è la meta finale del pensiero di Rousseau, ma è l’uguaglianza che egli apprezza, e ch’egli cerca di assicurare anche a spese della libertà.
La sua concezione del contratto sociale sembra, al principio, analoga a quella di Locke, ma si dimostra prestò più simile a quella di Hobbes. Nello sviluppo susseguente allo stato di natura, sopravviene un’epoca in cui gli individui non possono più conservarsi nella loro primitiva indipendenza; diviene allora necessario per la loro conservazione che essi si uniscano per formare una società. Ma come posso io impegnare la mia libertà senza colpire i miei interessi?
Il problema è di trovare una forma associativa che difenda e protegga con la forza di tutta la comunità la persona e i beni di ciascun associato, e in cui ciascuno, unendo se stesso al tutto, possa ancora obbedire solo a se stesso e rimanere libero come prima. Questo è il problema fondamentale di cui il contratto sociale fornisce la soluzione.
Il contratto consiste nella
totale alienazione di ciascun associato, con tutti i suoi diritti, all’insieme della comunità; infatti, in primo luogo, dato che ciascuno offre se stesso senza alcun limite, le condizioni sono identiche per tutti; e, stando così le cose, nessuno ha interesse a rendere le condizioni gravose per gli altri.
L’alienazione deve avvenire senza riserve:
Se gli individui conservassero certi diritti, come se non ci fosse alcun superiore comune per decidere tra loro e la comunità, ciascuno, essendo giudice di se stesso su un punto, vorrebbe esserlo su tutti; così continuerebbe lo stato di natura e la società diverrebbe necessariamente inoperante o tirannica.
Questo implica una completa esclusione della libertà e un completo rifiuto della dottrina dei diritti dell’uomo. È vero che in un capitolo successivo si trova qualche attenuazione di questa teoria. Vi si dice che, per quanto il contratto sociale dia al corpo politico un potere assoluto sopra tutti i suoi membri, nondimeno gli esseri umani hanno dei diritti naturali in quanto uomini.
“Il sovrano non può imporre ai suoi sudditi alcun vincolo che sia inutile alla comunità e non può neppure desiderare di farlo”. Ma il sovrano è l’unico giudice di ciò che è utile o inutile alla comunità. È chiaro che in questo modo si oppone alla tirannide soltanto una debolissima barriera.
Bisogna notare che, in Rousseau, “sovrano” non significa il monarca o il governo, ma la comunità nella sua collettiva capacità legislativa.
Il contratto sociale può essere definito con le seguenti parole:
Ciascuno di noi pone la sua persona e tutti i poteri in comune sotto la suprema direzione della volontà generale e, nella nostra capacità collettiva, ciascun membro è concepito come una parte indivisibile del tutto.
Questo atto associativo crea un corpo morale e collettivo che si chiama lo “Stato” quando è passivo, “Sovrano” quando è attivo e “Potere” quando è considerato in rapporto con gli altri corpi.
Il concetto di “volontà generale”, che compare nella definizione data del contratto gioca una parte assai importante nel sistema di Rousseau. Tra poco avrò altro da dire in proposito.
Si suppone che il Sovrano non abbia bisogno di dar garanzie ai suoi sudditi perché, essendo formato degli individui che lo compongono, non può avere interessi contrari ai loro. “Il Sovrano, proprio in virtù di ciò che è, è sempre quello che dovrebbe essere”.
Questa dottrina può ingannare il lettore che trascuri l’uso piuttosto particolare che Rousseau fa dei termini. Il Sovrano non è il governo, che si ammette possa essere tirannico; il Sovrano è un’entità più o meno metafisica non rappresentata interamente da nessuno degli organi visibili dello Stato. Quindi la sua infallibilità, qualora venga ammessa, non ha le conseguenze pratiche che si potrebbero supporre.
La volontà del Sovrano, che è sempre giusto, è la “volontà generale”. Ciascun cittadino, in quanto cittadino, partecipa alla volontà generale, ma può anche, come individuo, avere una sua particolare volontà che vada contro la volontà generale. Il contratto sociale implica che chiunque rifiuti di obbedire alla volontà generale, debba essere forzato a farlo.
“Questo significa soltanto che egli sarà forzato ad esser libero”.
Questo concetto di essere “forzato ad esser libero” è del tutto metafisico. La volontà generale, al tempo di Galileo, era certamente anticopernicana; Galileo fu “forzato ad esser libero” quando l’Inquisizione lo obbligò a ritrattare? E un malfattore è “forzato ad esser libero” quando è messo in prigione? Pensate al Corsaro di Byron:
Del mar profondo sulle liete acque,
Sconfinati altrettanto i pensier nostri
E liberi del pari i nostri cuori…
Quest’uomo sarebbe più “libero” in una segreta? Il fatto strano è che i nobili pirati di Byron sono una diretta conseguenza di Rousseau, e tuttavia, nel brano esposto, Rousseau dimentica il romanticismo e parla come un poliziotto sofista.
Hegel, che doveva molto a Rousseau, adottò questo significato improprio della parola “libertà” e la definì come il diritto di obbedire alla polizia, o qualcosa di non molto diverso.
Rousseau non ha quel profondo rispetto per la proprietà privata che caratterizza Locke e i suoi discepoli. “Lo Stato, in rapporto ai suoi membri, è padrone di tutti i loro beni”. Né crede nella divisione dei poteri come era definita da Locke e da Montesquieu.
Sotto questo aspetto, però, come sotto molti altri, le sue dettagliate conclusioni non concordano del tutto con i suoi primi principi generali. Nel III Libro, I capitolo, dice che la parte del Sovrano è limitata a far leggi e che l’esecutivo (o governo) è un corpo intermedio posto tra i sudditi e il Sovrano per assicurare i loro reciproci rapporti.
Dice poi:
Se il Sovrano vuol governare, o il magistrato far leggi, o i sudditi rifiutare l’obbedienza, il disordine prende il posto dell’ordine e… lo Stato cade nel dispotismo e nell’anarchia.
In questa frase, a parte le differenze di vocabolario, sembra che Rousseau sia d’accordo con Montesquieu.
Ed eccomi alla dottrina della volontà generale, che è tanto importante quanto oscura.
La volontà generale non è identica alla volontà della maggioranza, e neppure alla volontà di tutti i cittadini. È concepita, a quanto pare, come la volontà del corpo politico come tale. Se rammentiamo il concetto di Hobbes, per cui una società civile è una persona, dobbiamo supporre tale società dotata degli attributi della personalità, compresa la volontà.
Ma allora ci troviamo di fronte alla difficoltà di decidere quali siano le manifestazioni visibili di questa volontà, e qui Rousseau ci lascia all’oscuro. Ci viene detto che la volontà generale ha sempre ragione e tende sempre al pubblico vantaggio; ma non ne viene di conseguenza che le deliberazioni popolari siano altrettanto giuste, perché c’è spesso una notevole differenza tra la volontà di tutti e la volontà generale. Come possiamo sapere, dunque, qual è la volontà generale?
C’è nello stesso capitolo una specie di risposta:
Se, quando il popolo, avute tutte le informazioni necessarie, prende le sue deliberazioni, i cittadini non comunicassero tra loro, il totale di tutte le piccole differenze darebbe sempre la buona volontà generale e la decisione sarebbe sempre buona.
Sembra che nella mente di Rousseau il concetto sia questo: l’opinione politica di ciascuno è guidata dall’interesse personale, ma l’interesse personale consiste di due parti, l’una peculiare all’individuo, l’altra comune a tutti i membri della comunità. Se i cittadini non avessero modo di avere contatti gli uni con gli altri, i loro interessi individuali, essendo divergenti, si elideranno e rimarrà una risultante che rappresenterà il loro interesse comune; questa risultante è la volontà generale.
Forse la concezione di Rousseau potrebbe essere illustrata con la gravitazione terrestre. Ogni particella della terra attrae verso di sé tutte le altre particelle dell’universo; l’aria che è sopra a noi ci attrae verso l’alto, mentre la terra sotto di noi ci attrae in basso. Ma tutte queste “egoistiche” attrazioni si elidono a vicenda allorché sono divergenti, e ciò che rimane è un’attrazione risultante, diretta verso il centro della terra.
Questa potrebbe essere fantasticamente concepita come un’azione della terra considerata come comunità, e come l’espressione della sua volontà generale.
Dire che la volontà generale è sempre giusta vuol dire soltanto che, rappresentando ciò che vi è di comune tra gli interessi personali dei vari cittadini, essa deve rappresentare la più larga soddisfazione collettiva di interessi personali che sia possibile nella comunità. Questa interpretazione delle intenzioni di Rousseau mi sembra accordarsi con le sue parole meglio di qualsiasi altra interpretazione che io sia stato capace di escogitare.
Secondo Rousseau, ciò che in pratica viene ad interferire con l’espressione della volontà generale è resistenza di associazioni subordinate all’interno dello Stato. Ciascuna di queste avrà la propria volontà generale, che può essere in conflitto con quella della comunità nel suo insieme.
“Si può dire che non ci siano più tanti voti quanti sono gli uomini, ma soltanto tanti quante sono le associazioni”. Questo porta ad un’importante conseguenza:
È essenziale quindi, se la volontà generale dev’essere in grado di esprimersi, che non ci siano società parziali entro lo Stato e che ciascun cittadino possa pensare solo secondo i propri convincimenti: questo era il perfetto e inimitabile sistema stabilito dal grande Licurgo.
In una nota a piè di pagina, Rousseau appoggia la propria teoria facendo appello all’autorità di Machiavelli.
Considerate a che porterebbe in pratica un simile sistema. Lo Stato dovrebbe proibire la Chiesa (eccettuata una Chiesa di Stato), i partiti politici, i sindacati e tutte le altre organizzazioni di cittadini che hanno interessi economici analoghi.
Evidentemente il risultato è lo stato totalitario in cui il singolo cittadino è privo di ogni potere. Sembra che Rousseau si accorga della difficoltà di proibire tutte le associazioni e aggiunge, come ripensandoci, che se devono esserci associazioni subordinate, allora più sono meglio è, affinché si neutralizzino l’una con l’altra.
Quando, in una successiva parte del libro, Rousseau passa a esaminare il governo, si accorge che l’esecutivo viene ad essere inevitabilmente un’associazione con un interesse proprio e una volontà generale propria, che possono essere facilmente in conflitto con quelli della comunità.
Dice che, mentre il governo di un grande Stato ha bisogno di esser più forte di quello di un piccolo Stato, c’è anche maggior bisogno di mantenere entro certi limiti il governo attraverso il Sovrano.
Un membro del governo ha tre volontà: la sua volontà personale, la volontà del governo e la volontà generale. Queste tre dovrebbero costituire un crescendo, ma di solito costituiscono in realtà un diminuendo. E ancora: “Tutto cospira a togliere all’uomo che assume un’autorità sugli altri il senso della giustizia e della ragione”.
Così, a dispetto dell’infallibilità della volontà generale, che è “sempre costante, inalterabile e pura”, rimane intatto il vecchio problema di come evitare la tirannide.
Quel che Rousseau ha da dire su questi problemi è o una larvata ripetizione di Montesquieu, o un insistere sulla supremazia del potere legislativo, che, se è democratico, è identico a quello che egli chiama Sovrano.
Gli ampi principi generali da cui Rousseau prende le mosse, e che egli presenta come se dovessero risolvere i problemi politici, scompaiono allorché si passa a considerazioni di dettaglio, alla soluzione delle quali quei principi non contribuiscono affatto.
La condanna del libro da parte dei reazionari contemporanei porta un lettore moderno a ricercare in esso una dottrina rivoluzionaria molto più ardita di quella che in realtà non vi si trovi.
Possiamo dimostrarlo mediante ciò che si dice nel libro sulla democrazia. Quando Rousseau impiega questa parola, intende, come abbiamo già visto, la democrazia diretta dell’antica Città-Stato. Questa, afferma l’autore, non può mai essere completamente realizzata, perché il popolo non può essere sempre riunito in assemblea e occuparsi sempre dei pubblici affari.
Laddove esistesse un popolo di dèi, il loro governo sarebbe democratico. Un governo così perfetto non è un governo d’uomini.
Quella che noi chiamiamo democrazia, Rousseau la chiama artistocrazia elettiva; per lui, è la miglior forma di governo, ma non è adatta a tutti i paesi. Il clima non dev’essere né molto caldo né molto freddo; la produzione non deve superare quella necessaria, perché, se lo facesse, i mali del lusso diverrebbero inevitabili, ed è meglio che questi mali siano limitati al monarca e alla sua corte piuttosto che diffusi tra tutta la popolazione.
A causa di queste limitazioni, si lascia largo campo ad un governo dispotico. Pure, la sua difesa della democrazia, malgrado tutte le limitazioni implicite, fu senza dubbio una delle ragioni che resero il governo francese implacabilmente ostile al libro; l’altra, a quanto si può presumere, fu il rifiuto del diritto divino dei re, che è alla base della dottrina del contratto sociale come origine del governo.
Il contratto sociale divenne la Bibbia di moltissimi capi della Rivoluzione francese, ma senza dubbio, com’è destino delle bibbie, non fu letto attentamente e fu ancor meno capito da molti dei suoi seguaci.
Introdusse nuovamente, in tal modo, l’abitudine alle astrazioni metafisiche tra i teorici della democrazia, e con la sua dottrina della volontà generale rese possibile l’identificazione mistica d’un capo col suo popolo, identificazione che non ha bisogno d’alcuna conferma attraverso un aggeggio così frivolo come è un’urna.
Molta della sua filosofia poté esser fatta propria da Hegel nella sua difesa dell’autocrazia prussiana. Il suo primo frutto, in pratica, fu il dominio di Robespierre; le dittature russa e tedesca (specialmente la seconda) sono in parte il risultato dell’insegnamento di Rousseau.
Quali ulteriori trionfi il futuro riservi al suo spettro non mi avventuro a predire.
Da: Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, Milano, Longanesi, 1948.