La filosofia dell’arte di Wittgenstein e Heidegger

di Michele Ragno

Mario Mancini
9 min readOct 7, 2021

Estratto da: Michele Ragno, L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte di Wittgenstein e Heidegger, goWare, Firenze, 2020

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Johan Christian Dahl, “Inverno nel Sognefjord”, 1827, Galleria nazionale di Oslo.

Com’è possibile accostare il sistema di pensiero due filosofi che, anche nel senso comune, appaiono così distanti se non agli antipodi? Michele Ragno ha chiarito l’intreccio che lui vede tra il pensiero di Wittgenstein e quello Heidegger, appartenenti a due scuole completamente differenti, nel passaggio di questa intervista a Fiori Vivi, rivista di arte filosofia e cultura:

Nonostante la storia della filosofia del XX secolo, in parte ancora fortemente condizionata dalle etichette di “filosofia analitica versus continentale”, abbia fatto di loro le icone di due movimenti filosofici praticamente contrapposti, le loro filosofie hanno molto in comune. Soprattutto quando si cerca di giungere a quelle domande filosoficamente impegnative. Per quanto riguarda il pensiero sull’arte ciò che è interessante, ed è comune sia al pensiero di Heidegger quanto a quello di Wittgenstein, è che esso non si limita ad essere mera teoria estetica. La vera filosofia dell’arte non ha a che fare semplicemente col mero gusto estetico. L’estetica è una dimensione superficiale della riflessione sull’arte, che indaga sul come la nostra sensibilità è colpita da oggetti (tra cui quelli cosiddetti artistici) e su come siano diverse le reazioni a tale incontro.

Riproduciamo di seguito la introduzione al volume Michele Ragno edito da goWare nel 2020, L’arte che schiude il senso. La filosofia dell’arte di Wittgenstein e Heidegger, goWare, Firenze, 2020.

Introduzione

Se la tradizione filosofica occidentale ha cercato di costruire edifici gnoseologico-metafisici, che permettessero la migliore comprensione possibile dell’uomo e del mondo che lo circonda, la filosofia del Novecento, che ha in Ludwig Wittgenstein e Martin Heidegger due dei suoi più profondi pensatori[1], ha tentato di fare l’opposto: decostruire questa tradizione, interrogarsi sulle radici, “dissodando” il terreno per vedere se vi è qualcosa di vivo, se vi è la possibilità di un nuovo inizio:

A me non interessa innalzare un edificio, ma piuttosto vedere in trasparenza dinnanzi a me le fondamenta degli edifici possibili[2].

D’altronde la metafora del “terreno” ricorre spesso in entrambi i pensatori: Wittgenstein inneggia ad un ritorno al «terreno scabro» (Ricerche filosofiche, §107) — ovvero il terreno del linguaggio sul quale sorgono edifici precari, che devono essere distrutti (§118) –; Heidegger invece cerca di pensare l’impensato «come il terreno che sostiene tutto, sia il cominciamento, sia la storia che ne deriva»[3].

Per quest’ultimo l’impensato è dunque, anche se non-interrogato già all’inizio, la questione direttrice della metafisica, pur rimanendo essenzialmente inavvertito. In altri termini, la metafisica — che è stata un vanto del pensiero occidentale — ha posto il problema dell’Essere (Platone e Aristotele in modo più sistematico), per poi obliarlo, non trattandolo come un problema degno di una “vera ricerca”, finendo per essere una storia di “battaglie”, una «gigantomachia» dirà nella prima pagina di Essere e tempo (citando il Sofista di Platone): empiristi, razionalisti, idealisti hanno dato risposte diverse alla domanda “cosa è?”, senza chiedere il senso stesso della domanda.

L’Essere «rimane non interrogato e inteso come ovvio e quindi non pensato. Esso si tiene in una verità da tempo dimenticata e senza fondamento»[4].

L’impensato è proprio lo sfondo entro cui il dato è “dato”, ciò che si nasconde dietro l’apparire delle cose: la loro “presenza” [Praesenz]. L’apparire infatti presuppone manifestazione e dunque provenienza. L’essere umano (che Heidegger chiamerà Da-sein per liberarsi dalle concezioni classiche di uomo come ζῷον λόγον ἔχων, e di “persona” come ens finitum che tende al di là di sé) è aperto all’Essere, proprio perché è capace di pensare il “ni-ente”, ciò che “non è ente”, l’Essere come provenienza:

quel che solo importa è scorgere l’apparire come l’essenza dell’esser presente nella sua provenienza essenziale. […]
Il dispiego, in quanto velato come tale, si è sempre già offerto all’uomo[5].

Sia Heidegger che Wittgenstein hanno provato a cercare questa via verso l’impensato nel linguaggio: esso non è qualcosa di neutrale, ma porta sempre con sé le “categorie noetiche” attraverso le quali cerchiamo di comprendere la realtà.

Perciò, se il «linguaggio traveste il pensiero»[6], alcune delle strutture concettuali sono per noi inevitabili proprio perché continuamente usate nel modo di comunicare[7].

Per questo, nella sua riflessione più tarda, Wittgenstein descriverà il compito della filosofia come «una lotta contro il fascino, contro l’incantesimo che le forme d’espressione esercitano su di noi»[8], dove c’è «un tempo per arare», nel quale bisogna, con uno sforzo della volontà, superare alcuni schemi fuorvianti[9] (o lasciare che scompaiano da sé[10]), «e un tempo per mietere»[11]. Per la prima fase è necessario «uno sguardo acuto per ciò che sta davanti agli occhi di tutti»[12], ma che nonostante tutto, resta velato.

C’è gente che dice, certe volte, di non poter dare un giudizio a proposito di questo o di quest’altro perché non hanno studiato filosofia. È un’irritante assurdità, perché si presuppone che la filosofia sia una qualche scienza. E si parla di essa un po’ come della medicina[13].

Ma la filosofia non è una “dottrina”, intesa come insieme di teorie, ma piuttosto un’attività[14] di chiarificazione delle strutture del linguaggio, di cui Nietzsche aveva cominciato a intravedere l’importanza[15]:

Ma una cosa si può dire: chi non ha mai compiuto una ricerca di carattere filosofico, come ad esempio quasi tutti i matematici, non è provvisto degli organi visivi adatti a una ricerca o a una prova del genere. Un po’ come chi non è abituato a cercare nel bosco fiori, bacche o erbe non ne trova affatto, perché il suo occhio non è affinato e non sa in quali punti particolari deve cercarli. Così, l’inesperto in filosofia passa davanti a tutti i punti dove si celano sotto l’erba delle difficoltà, mentre l’esperto si ferma proprio lì e sente che una difficoltà c’è, anche se non l’ha ancora vista. — E non ci si deve meravigliare quando veniamo a sapere quanto a lungo anche l’esperto, che pure si accorge che una difficoltà c’è, deve cercare per trovarla. Quando una cosa è ben nascosta, è difficile trovarla[16].

Probabilmente alla luce di questa differenza della filosofia dalla scienza — che si giustifica per le conoscenze che produce e mette a disposizione — si spiega la diffidenza di Wittgenstein nei confronti della filosofia istituzionalizzata, accademica, che rischia di isolarsi dalla vita. Il lavoro filosofico — come lavoro su se stessi — è un lavoro al quale siamo tutti chiamati.

Per la fase della «mietitura» invece, possiamo usufruire di una parola, che si presenta «come un seme fresco gettato nel terreno della discussione»[17]:

Il filosofo ci consegna la parola con cui noi //io// riusciamo ad esprimere la cosa e renderla inoffensiva.
(La scelta delle nostre parole è così importante, perché si tratta di cogliere esattamente la fisionomia della cosa, perché soltanto il pensiero perfettamente allineato può condurre sui binari giusti. La carrozza deve essere collocata con la massima precisione sulle rotaie, affinché possa continuare a viaggiare regolarmente.)[18].

In questa prospettiva di corrispondenza tra pensiero e linguaggio risiede il perché sia possibile per Heidegger fare filosofia solo in lingua greca o tedesca: queste portano meglio delle altre il “peso” del pensiero. Sono lingue della meditazione e non della ratio calcolante moderna[19].

Il linguaggio, ancor prima di parlare, offre se stesso come dono, ascolta. Ascolta un messaggio[20]. Per questo dobbiamo essere «in cammino verso il linguaggio», che è la “casa” dell’Essere. I pensatori, i poeti rispondono all’appello dell’Essere[21].

Interrogare l’arte — la poesia e, come vedremo, non solo — è dunque una via possibile per risvegliare la domanda del “senso dell’essere” e l’obiettivo di questo libro è quello di mostrare, attraverso le esperienze e le riflessioni di Heidegger e di Wittgenstein (su alcuni punti simili, su altri differenti, soprattutto nell’approccio), in che modo questa strada sia stata da loro posta.

La non impossibilità di questa via è affermata da vari studiosi, fra cui Herman Philipse, che include, fra le varie possibili affinità — ovvero «la relazione tra la comprensione scientifica del mondo e “il mistico” o “il niente”, il posto della logica nella filosofia, i limiti del linguaggio proposizionale, l’impossibilità di una teoria etica […] e la natura della filosofia» — «la relazione tra filosofia e arte»[22].

Note

[1] Per un rapporto approfondito sugli studi di Wittgenstein e Heidegger si veda L. Perissinotto, Heidegger e Wittgenstein. Quarant’anni di studi, in Bollettino della Società Filosofica Italiana, n. 151, 1994, pp. 3-20; S. Venezia, La misura della finitezza. Evento e linguaggio in Heidegger e Wittgenstein, Mimesis, Milano-Udine, 2013, pp. 231-242. Segnalo inoltre il paragrafo intitolato Apel: Wittgenstein, Heidegger e la «svolta linguistica» della filosofia e Wittgenstein e Heidegger nella sezione Wittgenstein e la filosofia continentale, in D. Marconi (a cura di), Guida a Wittgenstein, Laterza, Roma-Bari, 2014, pp. 324-328, 339-341.

[2] L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Adelphi, Milano, 1995, p. 28.

[3] M. Zarader, Heidegger e le parole dell’origine, in Metafisica e storia della metafisica, vol. 18, Vita e pensiero, Milano, 1997, p. 342. Per un riferimento diretto di Heidegger alla metafora del terreno, si veda M. Heidegger, Introduzione a «Che cos’è metafisica?», in Che cos’è metafisica?, Adelphi, Milano, 2001, p. 89: «In quale terreno le radici dell’albero della filosofia trovano il suo sostegno?».

[4] M. Heidegger, Oltrepassamento della metafisica, in Saggi e discorsi, Mursia, Milano, 1975, p. 55.

[5] M. Heidegger, Das Wesen der Sprache (1957-1958), in Unterwegs zur Sprache, Gesamtausgabe (d’ora in poi GA) 12, Klostermann, 1986, pp. 126-128; L’essenza del linguaggio, in In Cammino verso il linguaggio, Mursia, Milano, 1973, pp. 112-113, trad. modificata di C. Esposito.

[6] L. Wittgenstein, Tractatus logico-philosophicus, in Tractatus logico-philosophicus e Quaderni 1914–1916, Einaudi, Torino, 2009, § 4.002.

[7] «Il giuoco linguistico non ha la sua origine nella riflessione. La riflessione è una parte del giuoco linguistico». L. Wittgenstein, Zettel, Einaudi, Torino, 2007, § 391.

[8] L. Wittgenstein, Libro blu, in Libro blu e Libro marrone, Einaudi, Torino, 2000, p. 40.

[9] «Un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio, e questo sembrava ripetercela inesorabilmente». L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 2009, §115.

[10] «In filosofia non si può abbreviare nessuna malattia del pensiero. La malattia deve fare il suo corso naturale, e la cosa più importante è la guarigione lenta». L. Wittgenstein, Zettel, op. cit., § 382.

[11] L. Wittgenstein, Pensieri diversi, op. cit., p. 62.

[12] Ivi, p. 122.

[13] Ivi, p. 61.

[14] «Il lavoro in filosofia, come sovente il lavoro in architettura, è propriamente più un lavoro su se stessi. Sulla propria concezione. Su come si vedono le cose. (E su che cosa si pretende da esse.)». L. Wittgenstein, The big typescript, Mondadori, Milano 2010, p. 407.

[15] «Il linguaggio deve la sua genesi nel tempo alla forma più rudimentale di psicologia: noi cadiamo in un rozzo feticismo quando acquistiamo coscienza dei presupposti fondamentali della metafisica del linguaggio: detto chiaramente, della ragione». F. Nietzsche, Il crepuscolo degli idoli, Armando Editore, Roma, 1997, pp. 103-104.

[16] L. Wittgenstein, Pensieri diversi, op. cit., p. 61.

[17] Ivi, p. 19.

[18] L. Wittgenstein, The big typescript, op. cit., p. 410.

[19] In un passo del seminario su Parmenide, Heidegger fa un esempio concreto di questa differenza tra lingua della meditazione e della ratio: Lo ψευδος greco, inteso come il “velato” (ciò che eccede il vero, che è in rapporto con esso), è nel latino tradotto con falsum, ovvero semplicemente ciò che non è vero, legato alla dimensione del raggirare, dell’ingannare. Allo stesso modo l’ἀληθής, lo “s-velato” inteso come “non-coperto” appartiene ad un ambito semantico opposto rispetto al verum latino, che invece richiama la chiusura, la rectitudo, la «correttezza» [Richtigkeit] come ciò che può essere difeso con certezza. Nell’intervista con lo Spiegel afferma: «Sarebbe bene se si prendesse sul serio e su grande scala questa scomodità [riguardante la possibilità di tradurre un pensiero, N.d.a.] e si meditasse finalmente su quale trasformazione, ricca di conseguenze, abbia subito il pensiero greco attraverso la traduzione nel latino dei Romani, un evento che ancora oggi ci impedisce un sufficiente ripensamento delle parole-base del pensiero greco». M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo «Spiegel», Guanda, Parma, 2011, p. 164.

[20] Atteggiamento contrapposto a quello che contraddistingue il linguaggio tecnico e formalizzato della scienza moderna.

[21] A differenza dello scienziato che parte sempre da qualcosa di già dato (la presenza, che non è interrogata) e da questo calcola, misura.

[22] H. Philipse, “Heidegger’s question of being and the «Augustinian picture of language»”, in Philosophy and Phenomenological Research, n. 52, 1992, p. 251.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.