La fenomenologia dello spirito di Hegel
di Nicola Abbagnano
La via del razionale che è reale e viceversa
Il principio della dissoluzione del finito nell’infinito o dell’identità di razionale e reale è stato illustrato da Hegel in due forme diverse. Dapprima Hegel si è fermato a illustrare la via che per giungere fino ad esso ha dovuto percorrere la coscienza umana; o, il che è lo stesso, la via che quello stesso principio ha dovuto percorrere, attraverso la coscienza umana, per giungere a se stesso.
In secondo luogo, Hegel ha illustrato quel principio quale appare in atto in tutte le determinazioni fondamentali della realtà. La prima illustrazione è quella che Hegel ha dato nella Fenomenologia dello spirito; la seconda è quella che ha dato nella Enciclopedia delle scienze filosofiche e nelle opere che estendono le singole parti di essa (Scienza della logica, Filosofia dell’arte, Filosofia della religione, Filosofia del diritto, Filosofia della storia).
È evidente che anche la via che lo spirito infinito ha dovuto seguire per riconoscersi nella sua infinità attraverso le manifestazioni finite, fa parte della realtà e che pertanto la fenomenologia dello spirito deve ripresentarsi come parte del sistema generale della realtà e precisamente della filosofia dello spirito.
Come tale, infatti, Hegel la ripresenta nella Enciclopedia. Ma è pure evidente che come parte della filosofia dello spirito, la fenomenologia non è più la stessa cosa; giacché è un insieme di determinazioni immutabili, di categorie assolute, nelle quali il carattere drammatico della prima illustrazione è andato perduto.
La filosofia dello spirito trova già lo spirito pacificato con se stesso nella serie dei suoi svolgimenti necessari; la fenomenologia dello spirito presenta lo spirito nella sua lotta drammatica per raggiungersi e conquistarsi nella sua infinità, e narra quindi anche i suoi erramenti e i suoi contrasti.
La confusione che lo stesso Hegel ha fatto sorgere includendo la fenomenologia dello spirito come una sezione della filosofia dello spirito, viene subito eliminata se si tiene presente l’intento esplicito di Hegel nella Fenomenologia dello spirito. Le vicende dello spirito in quest’opera sono le vicende del principio hegeliano dell’infinito nelle sue prime apparizioni o barlumi, nelle manifestazioni più disparate della vita umana, nel suo progressivo affermarsi e svilupparsi.
Storia romanzata della coscienza infelice
E difatti la Fenomenologia è la storia romanzata della coscienza che attraverso erramenti, contrasti, scissioni, e quindi infelicità e dolore, esce dalla sua individualità, raggiunge l’universalità e si riconosce come ragione che è realtà e realtà che è ragione.
Perciò l’intero ciclo della fenomenologia si può vedere riassunto in una delle sue figure particolari che non per nulla è diventata la più popolare: quella della coscienza infelice. La coscienza infelice è quella che non sa di essere tutta la realtà, perciò si ritrova scissa in differenze, opposizioni o conflitti dai quali è internamente dilaniata e dai quali esce solo arrivando alla coscienza di essere tutto, cioè all’autocoscienza e alla giustificazione assoluta della propria totalità interna.
La fenomenologia ha pertanto uno scopo esortativo e pedagogico. «Il singolo, dice Hegel (Fenomenologia, Pref., 28), deve ripercorrere i gradi di formazione dello spirito universale, anche secondo il contenuto, ma come figure dallo spirito già deposte, come gradi di una via già tracciata e spianata.
Similmente noi, osservando come nel campo conoscitivo ciò che in precedenti età teneva all’erta lo spirito degli adulti è ora abbassato a cognizioni, esercitazioni e fin giuochi da ragazzi, riconosceremo nel progresso pedagogico, quasi in proiezione, la storia della civiltà.
Tale esistenza passata è proprietà acquisita allo spirito universale; proprietà che costituisce la sostanza dell’individuo e che, apparendogli esteriormente, costituisce la sua natura inorganica.
Mettendoci per questo riguardo dall’angolo visuale dell’individuo, la cultura consiste nella conquista di ciò che egli trova davanti a sé, consiste nel consumare la sua natura inorganica e nell’appropriarsela. Ma ciò può venire considerato anche dalla parte dello spirito universale, in quanto è sostanza; in tal caso questo si dà la propria autocoscienza e produce in se stessa il proprio divenire e la propria riflessione».
La fenomenologia è dunque il Protreptikon di Hegel. Poiché non c’è altro modo di elevarsi alla filosofía come scienza se non mostrandone il divenire, la fenomenologia, come divenire della filosofia, prepara e introduce il singolo alla filosofia: cioè tende a far sì che esso si riconosca e si risolva nello spirito universale.
Certezza sensibile e percezione
Il punto di partenza della fenomenologia è la certezza sensibile. Questa appare a prima vista come la certezza più ricca e più sicura; in realtà è la più povera.
Essa non rende certi che di una cosa singola, questa cosa, ma la cosa può essere un albero, una casa, ecc., di cui siamo certi, non in quanto albero o casa, ma in quanto questo albero o questa casa, cioè in quanto presenti qui e ora davanti a noi.
Ciò implica che la certezza sensibile non è certezza della cosa particolare, ma del questo, al quale la particolarità della cosa è indifferente e che perciò è un universale (un generico questo). Ora il questo non dipende dalla cosa ma dall’io che la considera. Perciò in fondo la certezza sensibile non è che la certezza di un io anch’esso universale, giacché anch’esso non è che questo o quell’io, un io in generale.
Se dalla certezza sensibile si passa alla percezione si ha lo stesso rinvio all’io universale: un oggetto non può essere percepito come uno, nella molteplicità delle sue qualità (per esempio, bianco, cubico, sapido), se l’io non prende su di sé l’affermata unità, se cioè non riconosce che l’unita dell’oggetto è da lui stesso stabilita.
Se infine si passa dalla percezione all’intelletto questo riconosce nell’oggetto solo una forza che agisce secondo una legge determinata. È condotto perciò a vedere nell’oggetto stesso un semplice fenomeno, a cui si contrappone l’essenza vera dell’oggetto, che è ultrasensibile.
Intelletto
Poiché il fenomeno è soltanto nella coscienza e ciò che è al di là del fenomeno o è un nulla o è qualcosa per la coscienza, la coscienza a questo punto ha risolto l’intero oggetto in se stessa ed è diventata coscienza di sé, autocoscienza. I gradi della coscienza — certezza sensibile, percezione, intelletto — si sono dileguati nell’autocoscienza.
Ma a sua volta l’autocoscienza, in quanto si considera come un oggetto, cioè come altro da sé, si scinde in autocoscienze diverse e indipendenti; e di qui nasce la storia dell’autocoscienza del mondo umano.
Signoria e servitù
La prima figura che allora si presenta è quella di signoria e servitù, propria del mondo antico. Le autocoscienze diverse devono affrontare la lotta, perché solo cosi possono giungere alla piena consapevolezza del loro essere.
La lotta implica un rischio di vita e di morte; ma non si risolve con la morte delle autocoscienze contendenti, bensì col subordinarsi dell’una all’altra nel rapporto servo-signore. In questo rapporto l’autocoscienza vincitrice si pone come libertà d’iniziativa di fronte al servo, che è legato al lavoro e alla materia.
Ciò accade finché il servo non giunge egli stesso alla coscienza della propria dignità e indipendenza; allora il signore cade e la responsabilità della storia resta affidata alla sola coscienza servile.
Stoicismo e scetticismo
Lo stoicismo e lo scetticismo rappresentano gli ulteriori movimenti di liberazione dell’autocoscienza. Ma nello stoicismo, la coscienza che vuol liberarsi dal vincolo della natura disprezzandolo, raggiunge solo una libertà astratta, giacché quel vincolo permane in quanto la realtà della natura non è negata.
Lo scetticismo nega questa realtà e perciò pone ogni realtà nella coscienza stessa. Ma questa coscienza è ancora la coscienza singola, che è in contrasto con altre coscienze singole, negando ciò che loro affermano, affermando ciò che loro negano. Con ciò l’autocoscienza (che è in sé una) è in contrasto con se stessa; e per questo contrasto dà luogo a una nuova figura, che è quella della coscienza infelice.
La coscienza religiosa medievale
La coscienza infelice interpreta il contrasto come la compresenza di due coscienze, una immutabile, che è quella divina, l’altra mutevole, che è quella umana. E questa la situazione propria della coscienza religiosa medievale. La quale, più che pensiero, è devozione, cioè subordinazione o dipendenza della coscienza singola dalla coscienza divina, da cui la prima riconosce di ricevere ogni cosa come un dono gratuito.
Questa coscienza devota culmina nell’ascetismo, in virtù del quale la coscienza riconosce l’infelicità e la miseria della carne e tende a liberarsene unificandosi con l’intrasmutabile (cioè con Dio). Ma in virtù di questa unificazione, la coscienza riconosce di essere essa stessa la coscienza assoluta: la quale non è più per essa nell’al di là, in Dio, ma in se stessa. E con questo riconoscimento comincia il ciclo del soggetto assoluto.
Il naturalismo del Rinascimento
Come soggetto assoluto l’autocoscienza è diventata ragione ed ha assunto in sé ogni realtà. Mentre nei momenti anteriori la realtà del mondo le appariva come alcunché di diverso e di opposto (come la negazione di sé) ora invece può sopportarla: perché sa che nessuna realtà è niente di diverso da essa. «La ragione, dice Hegel, è la certezza di essere ogni realtà».
Questa certezza tuttavia per divenire verità deve giustificarsi; e il primo tentativo di giustificarsi è «un inquieto cercare», che si rivolge da principio al mondo della natura. E questa la fase del naturalismo del Rinascimento e dell’empirismo.
Qui la coscienza crede, bensì, di cercare l’essenza delle cose, ma in realtà non cerca che se stessa; e quella credenza deriva dal non aver fatto ancora della ragione l’oggetto della propria ricerca.
Si determina cosi l’osservazione della natura che partendo dalla semplice descrizione, si approfondisce con la ricerca della legge e con l’esperimento; e che si trasferisce poi nel dominio del mondo organico, per passare infine a quello stesso della coscienza con la psicologia.
Hegel esamina lungamente a questo proposito due sedicenti scienze che erano di moda ai suoi tempi: la fisiognomica di Johann Caspar Lavater (1741–1801) che aveva la pretesa di determinare il carattere dell’individuo attraverso i tratti della sua fisionomia e la frenologia di Franz Joseph Gael (1758–1828) che pretendeva di conoscere il carattere dalla forma e dalle protuberanze del cranio.
In tutte queste ricerche, la ragione, pur cercando apparentemente altra cosa, cerca in realtà se stessa: cerca di riconoscersi nella realtà oggettiva che le sta dinanzi. I vagabondaggi della ragione hanno quindi termine quando essa giunge a tale riconoscimento; e vi giunge nella fase della eticità.
Hegel intende per eticità la ragione che è divenuta cosciente di sé in quanto si è realizzata nelle istituzioni storico-politiche di un popolo e soprattutto nello Stato. L’eticità è diversa dalla moralità che contrappone il dover essere (legge o imperativo razionale) all’essere cioè alla realtà, e ha la pretesa di ricondurre il reale all’ideale.
L’eticità è la moralità (cioè la ragione) che si è realizzata in forme storiche e concrete e che è quindi, sostanzialmente e pienamente, ragione reale o realtà razionale. Senonché prima di raggiungere l’eticità, l’autocoscienza errabonda subisce altre traversie.
La ricerca del piacere del Romanticismo
Delusa della scienza e della ricerca naturalistica essa, come il Faust di Goethe, si getta nella vita e va alla ricerca del piacere. «Le ombre della scienza, delle leggi, dei principi, che stanno tra essa e la sua effettualità, scompaiono come inerte nebbia che non può sostenere l’autocoscienza con la certezza della sua realtà. L’autocoscienza coglie la vita come viene colto un frutto maturo» (Fen., V, B, a).
Ma nella ricerca del piacere l’autocoscienza incontra un destino estraneo che la travolge inesorabilmente. Cerca allora di appropriarsi di questo destino sentendolo come una legge del cuore (e Hegel allude qui ai romantici). Ma la legge del cuore si urta contro la legge dì tutti, che le appare come una potenza superiore e nemica. Perciò cerca di vincere questa potenza con la virtù; e costituisce cosí una terza figura. Ma il contrasto tra la virtù, che è il bene astrattamente vagheggiato dall’individuo, e il corso del mondo, che è il bene realizzato e concreto, non può concludersi che con la sconfitta della virtù stessa.
«Il corso del mondo ottiene vittoria su ciò che, in contrapposizione ad esso, costituisce la virtù…; ma esso non trionfa di alcunché di reale…; trionfa del pomposo discorrere del bene supremo dell’umanità e dell’oppressione di questa, del pomposo discorrere di sacrificio per il bene e dell’abuso delle doti… L’individuo che dà ad intendere di agire per tali nobili scopi e ha sulla bocca tali frasi eccellenti, vale di fronte a sé come un’eccellente essenza, ma è invece una gonfiatura che fa grossa la testa propria e quella degli altri, la fa grossa di vento» (Ib., V, B, c).
La liberazione della coscienza dall’individualità
E così il corso del mondo ha sempre ragione; e lo sforzo della persona morale, in cui Kant poneva il termine più alto della dignità umana, appare a Hegel privo di senso. Non rimane all’autocoscienza che liberarsi definitivamente dall’individualità, della quale, in queste figure, è ancora carica ed oppressa.
Il primo passo è quello dell’azione per la quale l’individualità dà luogo ad un’opera che però subito le si contrappone come esterna ed entra nel circolo dei rapporti reciproci tra le diverse individualità.
L’opera o il compito dell’individuo non dipende, quanto alla sua riuscita, dall’individuo stesso; e allora questi si rinchiude nella coscienza della propria onestà, che gli garantisce aver egli voluto quel compito. Ancora una volta all’individuo qui sfugge la realtà, la presenzialità stessa del suo essere.
La questione dell’eticità
E questa realtà e presenzialità egli non può raggiungerla che in quella eticità in cui la ragione legislatrice ed esaminatrice delle leggi (che ancora pretenderebbe opporsi alla realtà di queste leggi) trova la sua correzione e il suo compimento.
«L’intelligente ed essenziale fare il bene, dice Hegel (Fen., V, C, c), è, nella sua più ricca e importante figura, l’intelligente e universale operare dello Stato — operare al cui paragone l’operare del singolo come singolo diviene qualcosa di cosi meschino che non vai quasi la pena di parlarne.
Quell’operare è di tanta potenza che se l’operare singolo gli si volesse contrapporre e volesse o affermarsi unicamente per sé come colpa o ingannare per amor di altro l’universale per quel che riguarda il diritto e la parte che esso ha in lui, questo singolo operare sarebbe del tutto inutile e verrebbe irresistibilmente distrutto».
Le leggi etiche più indubitabili: «dire la verità», «amare il prossimo» non hanno significato se non si conosce il giusto modo di realizzarle.
Il porsi nello Stato dell’autocoscienza
Ma questo giusto modo non è in potere dell’individuo di determinarlo; è già determinato nella sostanza stessa della vita associata, nel costume, nelle istituzioni e nello Stato. Solo col riconoscersi e col porsi nello Stato, l’autocoscienza depone, con l’individualità, ogni scissione interna, ogni infelicità, e raggiunge la pace e la sicurezza di sé.
Con ciò le romanzesche vicende dell’autocoscienza sono concluse; il ciclo della fenomenologia è esaurito. Hegel ha bensì aggiunto alla sua opera altre tre sezioni (lo spirito, la religione, il sapere assoluto) che anticipano il contenuto della filosofia dello spirito e in parte, della filosofia della storia. Ma questa aggiunta (come è stato chiarito da studi recenti) gli fu suggerita soltanto da ragioni editoriali, che costituiscono un’ironica intrusione dell’accidentale e del contingente in un dominio che, secondo Hegel, è quello della pura necessità.
Lo scopo protrettico dell’opera è a questo punto raggiunto: le figurazioni dell’autocoscienza, contrastata e infelice nell’individualità, sono esaurite. Essa è pronta ormai a considerare se stessa non nelle sue figure errabonde, ma nelle sue determinazioni immutabili e necessarie, nelle sue categorie.
Da Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, 3 volume, Torino, Utet, 1993, pp. 111–117