La critica di Freud al Comunismo
di Sigmund Freud
In questo brano de Il disagio della civiltà, Freud sottolinea la naturale tendenza dell’uomo all’aggressività e il prevalere degli elementi pulsionali nella ricerca del principio di piacere e quindi della felicità.
L’idea, propria del comunismo, di dover rimuovere lo stato di infelicità dell’uomo nella società attraverso un’azione trasformativa a livello sociale, come l’abolizione della proprietà priva o la condivisione della ricchezza, appare a Freud quanto mai fallace.
È interessante seguire il suo discorso a questo riguardo. Un discorso che coinvolge molti altri aspetti.
Buona lettura.
[…] l’uomo non è una creatura mansueta, bisognosa d’amore, capace al massimo di difendersi quando è attaccata; è vero invece che occorre attribuire al suo corredo pulsionale anche una buona dose di aggressività. Ne segue che egli vede nel prossimo non soltanto un eventuale soccorritore e oggetto sessuale, ma anche un oggetto su cui può magari sfogare la propria aggressività, sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, abusarne sessualmente senza il suo consenso, sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, umiliarlo, farlo soffrire, torturarlo e ucciderlo.
Homo homini lupus: chi ha coraggio di contestare quest’affermazione dopo tutte le esperienze della vita e della storia? Questa crudele aggressività è di regola in attesa di una provocazione, oppure si mette al servizio di qualche altro scopo, che si sarebbe potuto raggiungere anche con mezzi meno brutali.
In circostanze che le sono propizie, quando le forze psichiche contrarie che ordinariamente la inibiscono cessano d’operare, essa si manifesta anche spontaneamente e rivela nell’uomo una bestia selvaggia, alla quale è estraneo il rispetto per la propria specie.
Chiunque rievochi le atrocità delle trasmigrazioni dei popoli, delle invasioni degli Unni o dei cosiddetti Mongoli sotto Genghiz khan e Tamerlano, del sacco di Gerusalemme ad opera dei pii Crociati, e ancora gli orrori stessi dell’ultima guerra mondiale, dovrà umilmente rassegnarsi a riconoscere la veridicità di quanto sopra esposto.
L’esistenza di questa tendenza all’aggressione, che possiamo scoprire in noi stessi e giustamente supporre negli altri, è il fattore che turba i nostri rapporti col prossimo e obbliga la civiltà a un grande dispendio di energia. Per via di questa ostilità primaria degli uomini tra loro, la società civile è continuamente minacciata di distruzione. Gli interessi della comunione di lavoro non bastano a tenerla unita: i moti pulsionali disordinati sono più forti degli interessi razionali.
La civiltà deve far di tutto per porre limiti alle pulsioni aggressive dell’uomo, per rintuzzarne la vivacità mediante formazioni psichiche reattive. Di qui l’impiego di metodi intesi a provocare negli uomini identificazioni e relazioni amorose inibite nella meta, di qui le restrizioni della vita sessuale, di qui, anche, il comandamento ideale di amare il prossimo come sé stessi, che ha la sua effettiva giustificazione nel fatto che nulla contrasta in modo altrettanto stridente con la natura umana originaria.
Nonostante tutto, questo sforzo della civiltà non ha finora ottenuto gran che. La civiltà spera di prevenire i peggiori eccessi della forza bruta conferendo a sé stessa il diritto di impiegare la violenza contro i criminali, ma la legge non può mettere le mani sulle manifestazioni più discrete e raffinate dell’aggressività umana. Per ciascuno di noi viene il momento di lasciar cadere come illusorie le speranze che ha riposto in gioventù nei propri simili, e di sperimentare quanto la vita gli è resa aspra e gravosa dalla loro malevolenza.
Nel contempo sarebbe ingiusto accusare la civiltà di voler escludere dalle attività umane il conflitto e la contesa. Essi sono indubbiamente indispensabili, ma il contrasto non è necessariamente inimicizia, esso è solo abusato pretesto per quest’ultima.
I comunisti pensano di aver trovato la via per liberarci dal male. L’uomo è senza alcun dubbio buono, ben disposto verso il suo prossimo, ma l’istituzione della proprietà privata ha corrotto la sua natura. Il possesso dei beni privati dà a certuni il potere esponendoli alla tentazione di maltrattare il vicino; d’altra parte chi è escluso dal possesso necessariamente si ribella in odio al suo oppressore.
Se si abolisse la proprietà privata, se tutti i beni fossero messi in comune e tutti potessero prendere parte al loro godimento, malevolenza e ostilità tra gli uomini scomparirebbero.
Soddisfatti tutti i bisogni, nessuno avrebbe più ragione di vedere nell’altro un nemico; tutti si addosserebbero volentieri il lavoro necessario. Non è affar mio la critica economica del sistema comunista; non posso sapere se l’abolizione della proprietà privata sia opportuna e proficua.
Ma sono in grado di riconoscere che la sua premessa psicologica è un’illusione priva di fondamento.
Con l’abolizione della proprietà privata si toglie al desiderio umano di aggressione uno dei suoi strumenti, certamente uno strumento efficace ma, ne sono certo, non il più efficace. Quanto alle differenze di potere e prestigio, che l’aggressività sfrutta a proprio uso e consumo, nulla è stato in esse mutato, e nulla cambia dunque nell’essenza dell’aggressività.
Essa non è stata creata dalla proprietà, dominava quasi senza restrizione nei tempi primordiali, quando la proprietà era ancora estremamente ridotta, già si palesa nel comportamento dei bambini, quando la proprietà ha appena abbandonato la forma anale originaria, costituisce il sostrato di ogni relazione tenera e amorosa tra esseri umani, con l’unica eccezione, forse, di quella tra la madre e il figlio maschio.
Se si sopprime il diritto personale ai beni materiali, il privilegio rimane nelle relazioni sessuali, ove diviene inevitabilmente fonte di grandissima invidia e rabbiosa ostilità tra esseri umani che per altri rispetti sono stati messi sullo stesso piano.
Se si abbattesse anche questo elemento e si pervenisse alla completa liberazione della vita sessuale, se si abolisse cioè la famiglia, cellula germinale della civiltà, pur non potendosi prevedere le nuove vie che imboccherebbe l’evoluzione della civiltà, una cosa sarebbe certa: che questo aspetto incancellabile della natura umana la seguirebbe anche colà.
Chiaramente non è facile per gli uomini rinunciare al soddisfacimento di questa loro tendenza a essere aggressivi; senza di essa non si sentirebbero tranquilli. Il vantaggio di un ambito piuttosto circoscritto di civiltà, il quale consente alla pulsione di sfogarsi animosamente contro coloro che ne sono al di fuori, non è affatto disprezzabile. È sempre possibile riunire un numero anche rilevante di uomini che si amino l’un l’altro fin tanto che ne restino altri per le manifestazioni di aggressività.
Mi sono interessato una volta del fenomeno per cui comunità limitrofe e affini tra loro anche per altri versi si osteggiano e si scherniscono a vicenda, come gli Spagnoli e i Portoghesi, i Tedeschi del sud e del nord, gli Inglesi e gli Scozzesi, e molti altri. Denominai questo fenomeno “narcisismo delle piccole differenze”, il che non contribuì molto alla sua spiegazione.
Sappiamo ora che si tratta di un comodo, relativamente innocuo soddisfacimento dell’inclinazione aggressiva, in virtù del quale è facilitato l’accordo tra i membri di una comunità. Il popolo ebraico, disperso per ogni dove, si è acquistato in questo modo meriti altissimi rispetto alle civiltà dei popoli che lo hanno ospitato; purtroppo tutti i massacri degli Ebrei nel Medioevo non sono bastati a rendere quest’epoca storica più pacifica e sicura per i loro compagni cristiani.
Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità cristiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo Stato fosse impregnato di religione.
Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto con apprensione che cosa si metteranno a fare i Sovietici dopo che avranno sgominato la loro borghesia.
Se la civiltà impone sacrifici tanto grandi non solo alla sessualità ma anche all’aggressività dell’uomo, allora intendiamo meglio perché l’uomo stenti a trovare in essa la sua felicità. Di fatto l’uomo primordiale stava meglio, poiché ignorava qualsiasi restrizione pulsionale. In compenso la sua sicurezza di godere a lungo di tale felicità era molto esigua.
L’uomo civile ha barattato una parte della sua possibilità di felicità per un po’ di sicurezza.
Non dimentichiamo poi che nella famiglia primigenia solo il capo godeva di questa libertà pulsionale; gli altri vivevano in una repressione schiavistica. Il contrasto tra una minoranza che godeva dei benefici della civiltà e una maggioranza che non ne godeva era dunque, in quei primordi della civiltà, portato agli estremi.
Quanto ai primitivi oggi viventi, sappiamo ormai, dopo accurate indagini, che la loro vita pulsionale non è affatto da invidiarsi per la sua libertà; essa soggiace a restrizioni di altra specie, ma forse più rigorose ancora di quelle dell’uomo civile moderno. Quando giustamente protestiamo contro lo stato attuale della nostra civiltà, accusandolo di appagare troppo poco le nostre esigenze di un assetto vitale che ci renda felici, di lasciar sussistere molto dolore che probabilmente potrebbe essere evitato, quando con critica spietata ci sforziamo di mettere a nudo le radici della sua imperfezione, sicuramente esercitiamo un nostro giusto diritto e non ci mostriamo nemici della civiltà.
Possiamo aspettarci di ottenere cambiamenti nella nostra civiltà con l’andare del tempo, tali che soddisfino meglio i nostri bisogni e sfuggano a questa critica. Ma forse ci abitueremo anche all’idea che ci sono difficoltà inerenti all’essenza stessa della civiltà e che esse resisteranno di fronte a qualsiasi tentativo di riforma. Oltre agli obblighi, cui siamo preparati, concernenti la restrizione pulsionale, ci sovrasta il pericolo d’una condizione che potremmo definire così:
“La miseria psicologica della massa”.
Questo pericolo incombe maggiormente dove il legame sociale è stabilito soprattutto attraverso l’identificazione reciproca dei vari membri, mentre le personalità dei capi non acquistano quell’importanza che dovrebbero avere nella formazione di una massa.
La presente condizione della civiltà americana potrebbe offrire una buona opportunità di studiare questo temuto male della civiltà. Ma evito la tentazione di addentrarmi nella critica di tale civiltà; non voglio destare l’impressione che io stesso ami servirmi dei metodi americani.
In nessuno dei miei lavori ho avuto mai come questa volta la sensazione di descrivere una materia universalmente nota, di consumare carta e inchiostro e dar tanto da fare al compositore e allo stampatore per esporre cose risapute.
Perciò sarei lietissimo di cogliere la palla al balzo, se risultasse davvero che nel riconoscimento d’una particolare pulsione aggressiva indipendente è implicita una modificazione della teoria psicoanalitica delle pulsioni. Vedremo che non è così, che si tratta soltanto di precisare meglio e di perseguire minutamente una svolta di pensiero che è stata compiuta da tempo.
Di tutte le parti della teoria analitica che si sono venute sviluppando, la dottrina delle pulsioni è più di ogni altra faticosamente proceduta a tastoni.
Eppure essa era così indispensabile per completare il quadro, che bisognava in qualche modo riempire la lacuna. Nella assoluta perplessità iniziale, mi fornì un appiglio l’aforisma del poeta filosofo Schiller che “fame e amore” tengono insieme la compagine del mondo.
La fame poteva essere assunta come rappresentante di quelle pulsioni che vogliono conservare il singolo individuo; l’amore va in cerca degli oggetti e la sua funzione principale, favorita in ogni maniera dalla natura, è la conservazione della specie.
Così all’inizio la contrapposizione fu tra pulsioni dell’Io e pulsioni oggettuali. Per l’energia di queste ultime, ed esclusivamente per essa, introdussi il termine “libido”; il contrasto divenne dunque quello tra pulsioni dell’Io e pulsioni “libidiche” dell’amore (inteso nel senso più ampio) dirette verso l’oggetto.
Veramente, una di queste pulsioni oggettuali, quella sadica, si distingueva per la sua meta tutt’altro che amorosa e aveva del pari evidentemente molti lati in comune con le pulsioni dell’Io, non potendo nascondere la sua stretta affinità con le pulsioni di appropriazione senza mire libidiche; ma queste contraddizioni furono superate: il sadismo apparteneva chiaramente alla vita sessuale, ove il gioco della crudeltà poteva sostituire quello della tenerezza.
La nevrosi apparve come l’esito di una lotta fra gli interessi dell’autopreservazione e le richieste della libido, una lotta in cui l’Io aveva riportato la vittoria, ma a prezzo di gravi patimenti e rinunzie.
Ogni analista concederà che ancor oggi tutto questo non si dimostra affatto come una concezione antiquata ed erronea.
Cionondimeno una modificazione si è resa indispensabile da che la nostra ricerca si è indirizzata dal rimosso al rimovente, dalle pulsioni oggettuali all’Io. Importanza decisiva ha avuto l’introduzione del concetto di narcisismo, cioè del concetto che anche l’Io è investito dalla libido, della quale è anzi la dimora originaria e rimane in una certa misura il quartier generale.
Questa libido narcisistica si volge agli oggetti, divenendo così libido oggettuale, ma può tornare a trasformarsi in libido narcisistica.
Il concetto di narcisismo ha permesso d’intendere analiticamente le nevrosi traumatiche, così come molte affezioni vicine alla psicosi e la psicosi stessa. Non fu necessario abbandonare l’interpretazione delle nevrosi di traslazione come tentativo dell’Io di proteggersi contro la sessualità, ma fu messo in pericolo il concetto di libido. Infatti, dal momento che anche le pulsioni dell’Io erano libidiche, sembrò per un certo tempo inevitabile rassegnarsi a far coincidere la libido con l’energia pulsionale in senso lato, come già C.G. Jung aveva sostenuto in precedenza.
Pure rimaneva in me qualcosa come una convinzione, non ancora dimostrabile, che le pulsioni non potessero essere tutte della medesima specie. Il passo seguente lo feci in Al di là del principio di piacere (1920), quando fermai l’attenzione per la prima volta sulla coazione a ripetere e sul carattere conservativo della vita pulsionale.
Partendo da speculazioni sull’origine della vita e da paralleli biologici, trassi la conclusione che, oltre alla pulsione a conservare la sostanza vivente e a legarla in unità sempre più vaste, dovesse esistere un’altra pulsione ad essa opposta, che mirava a dissolvere queste unità e a ricondurle allo stato primordiale inorganico. Dunque, oltre a Eros, una pulsione di morte; la loro azione comune o contrastante avrebbe permesso di spiegare i fenomeni della vita. Non fu facile, allora, documentare l’attività di questa ipotetica pulsione di morte. Le manifestazioni dell’Eros erano quanto mai appariscenti e chiassose; per contro si poteva supporre che la pulsione di morte lavorasse in silenzio all’interno dell’organismo verso la sua dissoluzione, ma di ciò naturalmente non si poteva esser certi.
Più promettente mi sembrava l’idea che parte della pulsione si dirigesse verso il mondo esterno e diventasse quindi visibile come pulsione all’aggressione e alla distruzione. La pulsione medesima, in tal modo, sarebbe piegata al servizio dell’Eros, nel senso che l’essere vivente distruggerebbe qualcos’altro, animato o inanimato, invece di sé stesso.
Viceversa, la limitazione di questa aggressività verso l’esterno dovrebbe intensificare l’autodistruzione, che in ogni caso procede sempre. Al tempo stesso questo esempio favorì la congettura che le due specie di pulsioni di rado, e forse mai, appaiano isolate, ma sempre si frammischino in proporzioni diverse, assai variabili, rendendosi in tal modo irriconoscibili al nostro giudizio.
Il sadismo, da tempo noto come pulsione parziale della sessualità, sarebbe una siffatta lega particolarmente salda della brama amorosa con la pulsione distruttiva, mentre nella sua controparte, il masochismo, avremmo la congiunzione della distruttività rivolta all’interno con la sessualità; per questo tramite l’impulso altrimenti impercettibile diventa appunto perspicuo e palpabile.
L’ipotesi della pulsione di morte o distruttiva ha incontrato opposizione persino in circoli psicoanalitici; so che spesso si preferisce ascrivere tutto ciò che nell’amore si trova di pericoloso e ostile a un’originaria bipolarità della sua stessa natura.
Da principio avevo sostenuto solo a titolo sperimentale le concezioni testé illustrate, ma col passare del tempo esse hanno acquistato sopra di me un tale potere che non posso più pensare diversamente. Nel campo teorico le ritengo incomparabilmente più utili di qualsiasi altra possibile concezione; senza ignorare o far violenza ai fatti, ci offrono quella semplificazione alla quale aspiriamo nel lavoro scientifico.
Ammesso che nel sadismo e nel masochismo abbiamo sempre avuto sott’occhio manifestazioni della pulsione distruttiva rivolta verso l’esterno e verso l’interno, strettamente frammischiate all’erotismo, non riesco proprio a capire come abbiamo potuto trascurare la presenza ubiquitaria dell’impulso aggressivo e distruttivo non erotico, omettendo di assegnargli il posto che gli spetta nell’interpretazione della vita (la smania distruttiva diretta verso l’interno, quando non è tinta d’erotismo, generalmente elude la nostra percezione).
Ricordo come io stesso rifuggii all’idea d’una pulsione distruttiva quando emerse per la prima volta nella letteratura psicoanalitica e quanto tempo mi ci volle prima che fossi disposto ad ammetterla. Che altri mostrassero e mostrino tuttora lo stesso atteggiamento di rifiuto, mi sorprende meno. “I bambini non ascoltano volentieri” quando si parla della tendenza innata dell’uomo al “male”, all’aggressione, alla distruzione e perciò anche alla crudeltà.
Dio li ha creati a Sua immagine e somiglianza, così che a nessuno piace sentirsi ricordare com’è difficile far coincidere l’esistenza innegabile del male — la quale tale rimane nonostante le proteste della Christian Science — con la Sua onnipotenza e suprema bontà.
Il diavolo sarebbe un’ottima scappatoia per scagionare Dio, economicamente avrebbe la stessa funzione di scarico che spetta all’ebreo nel mondo degli ideali ariani. Ma poi? Dio può essere chiamato a rispondere tanto dell’esistenza del diavolo quanto del male che questi incarna.
Visto che le cose sono così difficili, è consigliabile per chiunque, al momento debito, fare un profondo inchino di fronte alla natura profondamente morale dell’uomo: gli gioverà per ottenere il favore popolare e molto gli sarà perdonato.
Il nome libido può ancora essere usato per le manifestazioni della forza dell’Eros, allo scopo di distinguerle dall’energia della pulsione di morte. Dobbiamo confessare che ci è molto più difficile cogliere quest’ultima, in un certo senso la indoviniamo soltanto nello sfondo, dietro l’Eros, e addirittura ci sfugge se non si svela frammischiandosi ad esso.
Nel sadismo, dove la pulsione di morte storce al suo significato la meta erotica pur soddisfacendo completamente il desiderio sessuale, noi riusciamo a discernere nel modo più chiaro la sua natura e la sua relazione con l’Eros. Ma anche dove essa fa la sua comparsa senza alcuna mira sessuale, anche nel più cieco furore distruttivo, non si può misconoscere che al soddisfacimento della pulsione di morte si riallaccia un godimento narcisistico elevatissimo, poiché essa offre all’Io l’appagamento dei suoi antichi desideri d’onnipotenza.
Temperata e imbrigliata, in certo qual modo inibita nella meta, la pulsione distruttiva diretta verso gli oggetti procura all’Io il soddisfacimento dei suoi bisogni vitali e il dominio della natura. Poiché l’ipotesi della sua esistenza poggia soprattutto su fondamenti teorici, è indiscutibile che essa non è del tutto al sicuro da obiezioni teoriche.
Ma così ci appare adesso, allo stato presente delle nostre conoscenze; la ricerca e la riflessione futura ci recheranno le delucidazioni definitive. Per tutto ciò che segue, mi atterrò dunque al convincimento che la tendenza aggressiva sia nell’uomo una disposizione pulsionale originaria e indipendente; torno ora all’asserzione che la civiltà trova in essa il suo più grave ostacolo.
A un certo punto, nel corso di questa disamina, credemmo di capire che l’incivilimento fosse un processo peculiare al quale l’umanità è sottoposta e a quest’idea restiamo fedeli. Aggiungiamo che si tratta di un processo al servizio dell’Eros, che mira a raccogliere prima individui sporadici, poi famiglie, poi stirpi, popoli, nazioni, in una grande unità: il genere umano.
Perché ciò debba accadere non lo sappiamo; è appunto opera dell’Eros.
Queste moltitudini devono essere legate l’una all’altra libidicamente; la sola necessità, i vantaggi del lavoro in comune non basterebbero a tenerle insieme. Ma a questo programma della civiltà si oppone la naturale pulsione aggressiva dell’uomo, l’ostilità di ciascuno contro tutti e di tutti contro ciascuno.
Questa pulsione aggressiva è figlia e massima rappresentante della pulsione di morte, che abbiamo trovato accanto all’Eros con il quale si spartisce il dominio del mondo. Ed ora, mi sembra, il significato dell’evoluzione civile non è più oscuro.
Indica la lotta tra Eros e Morte, tra pulsione di vita e pulsione di distruzione, come si attua nella specie umana. Questa lotta è il contenuto essenziale della vita e perciò l’evoluzione civile può definirsi in breve come la lotta per la vita della specie umana.
E questa battaglia di giganti vorrebbero placare le nostre bambinaie con la “canzone del premio celeste”.
Tratto da: Sigmund Freud, Il disagio della civiltà e altri saggi, Bollati Boringhieri, Torino, 1971, pp. 278–289.