La concezione dello Stato in Platone

di Emanuele Severino

Mario Mancini
8 min readApr 18, 2022

Vai agli altri articoli della serie “Grandi pensatori”

La “Repubblica”, 473

In Platone emerge nel modo più possente che l’epistéme si proietta inevitabilmente nella struttura dello Stato, il quale dunque non è affidato alle escogitazioni e pattuizioni dei singoli, ma ha esso stesso una struttura immodificabile ed eterna, per la quale è reso possibile all’uomo raggiungere il Bene, consistente nella contemplazione della verità, e realizzare la giustizia sulla terra.

La storia dell’epistéme è la storia stessa dello “Stato etico” — dello Stato cioè che mira alla realizzazione del Bene e di cui Platone ha dato l’immagine più grandiosa. Il tramonto dell’epistéme sarà insieme il tramonto dello Stato etico. Il tramonto dell’epistéme nella scienza moderna sarà cioè, insieme, il tramonto della concezione assolutistica nella concezione democratica dello Stato.

Nella seconda parte del “mito della caverna”, il prigioniero che è riuscito a liberarsi dalle catene e a uscire dalla caverna è il filosofo. Ricordando la sua vita precedente, la commisera e si reputa beato. Ma se egli ritorna nella caverna e tenta di liberare quanti vi sono rimasti, è inevitabile che egli appaia un intruso e un sovvertitore dell’ordine umbratile che vi regna, ed è quindi inevitabile che in nome di quest’ordine egli venga ucciso.

Eppure il filosofo conosce la verità; sì che se egli guidasse la vita che si svolge nella caverna, essa sarebbe il più possibile conforme alla verità e al bene.

Questa è la grande proposta di Platone: proprio perché la filosofia deve guidare la vita dell’uomo, la filosofia deve guidare gli Stati. «Non è possibile per gli Stati la cessazione dei mali e neppure per il genere umano, se i filosofi non regnano negli Stati, o quelli che ora chiamiamo re e principi non praticano genuina e buona filosofia, e se non si congiungono insieme potere politico e filosofia, e se non si estromettono con la forza tutti coloro che tendono solamente all’una o solamente all’altra.» (Repubblica, 473)

Solo apparentemente questo concetto è utopistico. In effetti le categorie del pensiero filosofico sono andate via via determinando la struttura di fondo dello Stato e della società occidentale, anche se in modi diversi da quello specificamente proposto dalla concezione politica di Platone.

La liberazione dell’uomo, che conduce dall’opinione alla verità, non può essere infatti un’avventura del singolo individuo che, come filosofo, si isola dalla società in cui vive: è la società stessa che deve organizzarsi in vista del raggiungimento della verità. Se la liberazione dell’uomo è un processo che non investe soltanto il singolo, ma l’intera comunità, si tratta allora di accertare come dev’essere costituito lo Stato, affinché in esso sia reso possibile il concreto rapporto che nella vita presente l’uomo può instaurare con la verità, ossia con la contemplazione dell’eterno mondo delle idee.

L’isolamento del filosofo (il suo non voler ritornare nella caverna) è inevitabile in quegli Stati che non si preoccupano di vivere conformemente alla verità e al bene — e sono tutte quelle forme di Stato con cui Platone aveva storicamente a che fare. Ma a questa critica negativa delle forme storiche dello Stato deve succedere una critica positiva, ossia un’azione pratica volta alla distruzione di quelle forme e alla edificazione della forma in cui sia massimamente presente Videa stessa dello Stato e che, in questo senso, si può chiamare Stato ideale.

In questa diversa situazione, il filosofo non può isolarsi: pur avendo sperimentato una forma di vita superiore a quella di reggitore dello Stato (la vita al di fuori della caverna), e anzi proprio per questa sua esperienza che non gli fa desiderare né il potere né la ricchezza, egli ha il dovere di porsi alla guida dello Stato (ossia di ritornare nella caverna e guidare gli uomini che la abitano), affinché il bene sia partecipato dall’intera comunità.

Nello Stato ideale si deve innanzitutto tener conto della natura con cui ogni uomo nasce e che è diversa in ciascuno. Infatti, se l’anima preesiste alla sua incarnazione, la natura e il carattere che l’uomo possiede nella sua vita sensibile sono proprio ciò che l’anima ha voluto essere incarnandosi, e questa volontà originaria è immodificabile nella vita presente.

Ognuno nasce pertanto con la natura di agricoltore o di artigiano, di poeta, di guerriero, di re, di filosofo. Ma non ogni natura umana può essere inserita nello Stato. Se infatti esso ha origine perché ciascuno di noi non basta a sé stesso, in esso dovrà esistere la classe dei produttori di beni (agricoltori, artigiani, commercianti), dei guerrieri, per la difesa dai nemici esterni, e dei reggitori-filosofi, ma non potrà esserci posto per tutte quelle nature che sono la degenerazione delle classi fondamentali (ad esempio i tiranni, i demagoghi, i sofisti), e che, come i poeti e gli artisti, allontanano il popolo dalla verità.

Custodi dello Stato, i guerrieri e i filosofi formano la classe dominante. Legato alla propria natura, ognuno nasce dominatore o dominato: nessun passaggio da una classe (cioè da una “natura”) all’altra. Come non esiste passaggio da un ulivo a un lupo e da un lupo a un uomo. D’altra parte la classe dominante non ha altro scopo che il bene dei dominati, come lo scopo del pastore è il bene del gregge. Pertanto i custodi dello Stato non debbono trasformarsi in oppressori della classe inferiore.

A tal fine si dovranno eliminare tutte le occasioni che possono alimentare la cupidigia e l’egoismo dei custodi; soprattutto sarà eliminata ogni forma di proprietà privata, e la famiglia stessa: nella classe dominante donne e figli saranno in comune e comune l’educazione. Sì che re saranno soltanto coloro che in filosofia, e in guerra saranno stati i migliori. “Aristocrazia” significa appunto “dominio dei migliori” ed è la forma perfetta di governo.

Vi è dunque una stretta analogia tra struttura dell’anima individuale e struttura dello Stato. Alla facoltà appetitiva corrisponde la classe dei produttori di beni, ossia di coloro che mirano alla soddisfazione dei bisogni materiali; alla facoltà passionale la classe dei guerrieri; a quella razionale quella dei filosofi. Pertanto la “temperanza” è la virtù propria della parte appetitiva dell’anima e della classe dei produttori di beni: consiste nel lasciarsi guidare dalla ragione, in modo che il godimento dei beni sensibili non divenga lo scopo ultimo della vita.

La “fortezza” è la virtù della facoltà passionale e della classe dei guerrieri e consiste nel saper affrontare, anche attraverso dolori, ciò che la ragione individuale e la classe dei filosofi reggitori dello Stato prescrivono. La “sapienza”, infine, è la virtù della facoltà razionale e della classe dei reggitori: essa è la capacità di guidare, nell’individuo, le facoltà e, nello Stato, le classi inferiori; e tale capacità si fonda sulla conoscenza della verità e del bene.

E come un individuo è giusto perché in lui le facoltà dell’anima svolgono il compito che è loro proprio, così nello Stato si realizza la giustizia — che dunque è la virtù suprema — perché ogni classe rispetta la propria natura; onde i reggitori guidano conformemente alla verità e le altre due classi seguono docilmente tale guida.

Se alla verità non si rapporta soltanto il singolo individuo, ma l’intera comunità, ciò non significa peraltro che tutti debbano diventare filosofi: lo impedisce la natura che ciascuno si trova ad avere. Nello Stato il culmine della pienezza umana può essere raggiunto soltanto da pochi. I molti si rapportano indirettamente alla verità: in quanto si lasciano guidare dai pochi che la posseggono.

L’educazione — che consiste nella predisposizione dei mezzi che consentono all’individuo di raggiungere la propria pienezza umana — è quindi diretta da pochi, cioè ai custodi dello Stato. Identica per maschi e femmine impartita non da privati ( come per lo più avveniva nel- l’antichità), ma dallo Stato il quale si occupa del futuro custode prima ancora che esso nasca, prestabilendo i matrimoni tra le nature migliori: (appartenenti alla classe dei custodi) ed eliminando coloro che nascono con imperfezioni.

I nati secondo gli accorgimenti dello Stato sono subito affidati a pubblici luoghi di educazione, dove non siano più conosciuti dai loro genitori carnali. In questo modo, all’interno della classe dei custodi, genitori di ogni giovane sono tutti gli adulti e ogni adulto ha come figli tutti i giovani. La dimensione e i modi della vita familiare restano così estesi all’intera classe degli uomini superiori.

Il generale criterio educativo è dato dall’armonico sviluppo del corpo e della mente (ossia dalla ginnastica e dalla “musica” — intesa appunto, quest’ultima, come educazione globale dell’anima), sì che né la cura del corpo né quella dell’anima devono essere fine a sé stessi.

Lo Stato ha cura innanzitutto di eliminare i pericoli che possono nascere da una cattiva educazione religiosa e dall’arte. Nei poemi di Omero, su cui è soprattutto basata l’educazione religiosa dei Greci, gli dèi hanno gli stessi vizi e debolezze dell’uomo e si instilla nei modi più sottili il terrore per la morte e per la vita nell’aldilà. È dunque un’educazione sbagliata, che allontana i giovani dalla verità e che nello Stato ideale deve essere sostituita da un’immagine appropriata degli dèi (essi sono buoni e non portano invidia agli uomini) e dell’oltretomba. Non si tratta ancora di educazione filosofica, ma anche a questo più elementare livello l’educazione deve lasciare intravedere il senso autentico della verità.

Per Platone, i poeti non solo raccontano molte e grandi menzogne, ma nelle loro opere la bellezza, invece di servire come via che conduca dal sensibile all’intelligibile, è il vincolo col quale essi chiudono l’uomo nel sensibile. L’amore per la bellezza, infatti, è sì dapprima amore per i bei corpi (quindi è amore sessuale), ma è anche insoddisfazione per la semplice bellezza sensibile ed è quindi tendenza alla bellezza delle anime e, infine, alla bellezza della verità.

Amore (Èros) esprime pertanto il senso stesso della filosofia. Nella poesia e nelle arti, invece, l’amore della bellezza si realizza in modo da impedire l’ascesa della bellezza intelligibile, perché poesia e arte costruiscono oggetti fatti a imitazione del mondo sensibile. Poiché questo è a sua volta imitazione del mondo intelligibile, poesia e arte, invece di condurre al modello intelligibile, di cui il mondo sensibile è imitazione, immergono l’uomo nelle imitazioni dell’imitazione, allontanandolo così dalla verità. Oltre alle concezioni mitologiche, anche l’arte e la poesia imitative debbono essere bandite dall’educazione dei custodi dello Stato.

I guerrieri che abbiano dimostrato particolari attitudini di intelligenza saranno educati per diventare filosofi e reggitori dello Stato. Dopo lo studio dell’aritmetica, geometria, astronomia e musica (come studio dei rapporti matematici dei suoni), quella piccola minoranza che mostrerà di saper cogliere l’uno nel molteplice sarà introdotta, non prima dei trent’anni, allo studio della dialettica. Dai trentacinque ai cinquant’anni i filosofi si avvicenderanno alla guida dello Stato.

II fallimento dell’educazione porta alla degenerazione dello Stato. La perfetta forma di governo — quella aristocratica — diventa allora “timocrazia” (dominio dell’ambizione): è la forma di governo degli Spartani. La corruzione della timocrazia porta all’“oligarchia” (dominio del censo) e la crisi di quest’ultima alla “democrazia” che elimina i privilegi economici dei pochi. A sua volta, per un movimento di reazione alla eccessiva libertà, la democrazia è distrutta dal peggiore dei domini: la tirannide, che soffoca ogni verità e libertà.

Da Emanule Severino, La filosofia del greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, Garzanti, Milano, 2004, pp. 142–147

--

--

Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

No responses yet