L’“Ulisse”: un monologo

di Carl Gustav Jung

Mario Mancini
37 min readMar 13, 2022

✎ Think|Tank. Il saggio del mese [marzo 2022]

Vai agli altri saggi della serie “Think | Tank
Vai agli altri articoli della serie “Grandi pensatori”

“Painting Ulysses” è una mostra basata sui 18 episodi del romanzo di James Joyce. Le opere, dipinte da Aidan Hickey in occasione del 100° anniversario della pubblicazione dell’Ulisse, saranno esposte al James Joyce Centre, North Great George’s Street, Dublino, da febbraio a giugno 2022.

La genesi dello scritto di Jung

Sulla genesi del presente scritto si danno tre versioni differenti. L’allora direttore della Casa editrice Rhein di Zurigo, Daniel Brody, dopo aver ascoltato, nel 1930 a Monaco, la conferenza di Jung su “Psicologia e poesia” in un successivo colloquio con l’autore gli propose di pubblicare un contributo su Joyce sul primo numero della rivista letteraria che la sua Casa editrice aveva in progetto di realizzare.

Jung consegnò a Brody l’articolo, ma quest’ultimo, dopo aver constatato che Jung aveva trattato Joyce e l’Ulisse da un punto di vista principalmente clinico e apparentemente con poca benevolenza, inviò l’articolo allo stesso Joyce per averne l’approvazione.

Joyce gli telegrafò: Niedrigerhängen (“Appendere più in basso”), citando alla lettera l’ordine dato da Federico II Grande, il quale di fronte a un manifesto che lo attaccava aveva ingiunto di appenderlo più in basso, in modo che fosse al di sotto del campo visivo.

A causa delle tensioni politiche venutesi a creare in Germania, la Casa editrice Rhein dovette rinunciare al progetto della rivista, Brody rimandò l’articolo a Jung, il quale dopo averlo rielaborato e averne mitigata l’asprezza di tono, lo pubblicò nel 1932 sulla “Europäische Revue”.

Altre due versioni sulla genesi dello scritto sono rispettivamente quella di Patricia Hutchins (Il mondo di James Joyce, trad, it., Lerici, Milano 1960), la quale sostiene che Brody avesse commissionato a Jung un’Introduzione alla terza edizione tedesca dell’Ulisse pubblicata dall’editore Rhein nel 1930, e infine quella dello stesso Joyce il quale, in una lettera inviata da Parigi il 27 settembre 1930 ad Harriet Shaw Weaver, afferma che Jung era stato invitato a scrivere una Prefazione alla traduzione tedesca del volume di Stuart Gilbert su Joyce (1930).

Ad ogni modo, Jung inviò a Joyce una copia della versione riveduta del suo saggio, accompagnata da una lettera che è pubblicata nella raccolta Esperienza e mistero, trad. it. (Boringhieri, Torino 1982) pp. 24 sg. Traduzione di Paolo Santarcangeli e Maria Anna Massimello. Leggibile anche il coda a questo articolo.

Questo saggio letterario, apparso per la prima volta nella “Europäische Revue”, non è, come anche quello su Picasso che lo segue, uno studio scientifico. L’ho accolto ugualmente nella presente raccolta perché l’Ulisse è un documento umano essenziale e caratteristico dei nostri tempi e perché le mie opinioni a questo proposito costituiscono a loro volta un documento psicologico che mostra come vengano applicate in pratica a una materia concreta certe mie idee che rivestono un’importanza non trascurabile nelle mie opere. Dal mio saggio è assente non solo ogni intento scientifico, ma anche qualsiasi scopo didattico; il lettore è quindi pregato di considerarlo come un’espressione, libera e soggettiva, delle mie opinioni.

Il titolo si riferisce a James Joyce e non all’ingegnoso eroe dell’antichità omerica, che fu soggetto a molte peripezie e seppe sottrarsi con l’astuzia e l’azione all’ostilità e alle vendette di uomini e dèi, ritornando dopo un viaggio travagliato al focolare domestico. Con un’esatta contrapposizione al suo antico omonimo, l’Ulisse di Joyce rappresenta una coscienza inattiva, puramente recettiva, anzi soltanto un occhio, un orecchio, un naso, una bocca, un nervo tattile, esposti senza capacità di scelta e senza inibizioni alla rombante, caotica, folle cateratta degli eventi psichici e fisici, registrati in modo pressoché fotografico.

L’Ulisse (1922) è un libro che scorre per 735 pagine: è un flusso di tempo di 735 ore, o giorni, o anni che consistono in un solo, assurdo giorno qualunque, il 16 giugno 1904 a Dublino, giorno senza importanza in cui, tutto sommato, non accade proprio nulla.

Il flusso comincia e finisce nel nulla.

Si tratta forse di un’unica verità strindberghiana di durata interminabile, intricatissima e (con grande spavento del lettore) mai esaurita, sull’essenza della vita umana? Forse sì; ma certamente si tratta di una verità sulle diecimila superfici e sulle centomila ombreggiature della vita.

In tutte queste 735 pagine, per quanto io riesca a vedere, non si avvertono ripetizioni, neppure una sola beata isola di riposo, su cui il lettore ben disposto, ebbro di ricordi, potrebbe soffermarsi per considerare con una certa soddisfazione la via percorsa, mettiamo, dopo un centinaio di pagine; e basterebbe il ricordo di qualche piccolo luogo comune, amichevolmente infilatosi in un punto inaspettato; no, vi scorre un flusso spietato e ininterrotto, con una rapidità o continuità che nelle ultime quaranta pagine si esalta fino alla mancanza di interpunzione, per esprimere nel modo più crudele un vuoto soffocante, teso o gonfiato oltre il limite della sopportazione.

Quel vuoto, eminentemente disperato, costituisce il tono fondamentale del libro. Esso non solo comincia e finisce nel nulla, ma consiste di tanti nulla. Tutto è diabolicamente nullo in esso; è un parto certamente brillante dell’inferno, qualora si voglia considerare il libro dal punto di vista del virtuosismo tecnico.

Avevo una volta un vecchio zio, uomo di mentalità oltremodo retta. Una volta egli mi fermò per la strada e mi chiese: “Sai quale tormento infligge il diavolo alle anime nell’inferno?” Risposi di non saperlo ed egli continuò: “Le fa aspettare.” E detto ciò se ne andò.

Mi sovvenni di quell’osservazione quando tentai per la prima volta di fendere L’Ulisse di Joyce. Ogni frase del libro è un’attesa incompiuta; rassegnato, alla fine il lettore non s’aspetta più nulla, ma con nuovo orrore s’accorge di avere ragione: in realtà non accade nulla, non succede niente: eppure una segreta attesa ci trascina da una pagina all’altra, in contrasto con la nostra rassegnazione.

Le 735 pagine che non contengono nulla non consistono affatto di fogli bianchi, anzi sono fittissime. Si legge, si legge, si legge e si crede di capire ciò che si legge.

A volte, come se si attraversasse un vuoto d’aria, si cade in una frase nuova, ma una volta raggiunto il giusto grado di sottomissione, ci si abitua a tutto. Continuai anch’io la lettura, con la disperazione nel cuore, fino alla pagina 135, e per ben due volte mi addormentai sul libro.

L’incredibile versatilità dello stile di Joyce agisce in modo monotono e ipnotico. Non vi è nulla che si muova incontro al lettore, tutto lo abbandona e lo lascia con un palmo di naso. Tutto vive come per sé, ma non certo contento di sé, bensì in maniera ironica, sarcastica, velenosa, sprezzante, triste, disperata, amara, e si accaparra in modo deleterio la simpatia del lettore, a meno che il sonno soccorritore non interrompa pietosamente quella dispersione di energia.

Giunto a pagina 135 caddi definitivamente in un sonno profondo, dopo alquanti eroici tentativi di accostarmi al libro e di “rendergli giustizia”, come si suol dire. Mi risvegliai dopo parecchio tempo e, per un certo chiarimento delle mie idee, cominciai a leggere il libro a ritroso, risalendolo dalla fine. Risultò che tale metodo valeva quanto quello ordinario; il libro può anche essere letto a ritroso, poiché manca in esso un avanti o un indietro, l’alto e il basso. Tutto potrebbe essere stato o potrà essere nell’avvenire.

Qualsiasi conversazione contenuta nel libro può anche essere letta a ritroso, senza tema di distruggere l’esito finale. Nella sua globalità essa non porta ad alcun esito finale: ogni frase costituisce un punto finale. Si può anche smettere nel bel mezzo di una frase — la prima parte di quella frase avrà sempre abbastanza raison d’être per essere o parere vitale.

Tutto il libro possiede un carattere vermicolare: la testa tagliata diventa coda e viceversa.

Questa straordinaria e inquietante caratteristica dello spirito di Joyce dimostra come la sua opera appartenga alla classe degli animali a sangue freddo e in particolare a quella dei vermi, i quali, se fossero capaci di far letteratura, userebbero il sistema del gran simpatico per scrivere, dato che non possiedono un cervello.

Suppongo che presso Joyce si tratti di un caso non molto diverso, ossia di un pensiero viscerale collegato a una larga soppressione dell’attività del cervello, in questo caso limitata essenzialmente alla percezione. Non si può non ammirare senza riserve l’attività delle sfere sensoriali in Joyce: ciò che egli vede, ode, assapora, odora e tocca, internamente ed esternamente, è sorprendente oltre ogni misura.

Ogni comune mortale si contenta di solito, in quanto specialista delle sfere sensoriali o percettive, dell’ambito esterno o di quello interno; Joyce li conosce entrambi. Le ghirlande delle serie di associazioni soggettive s’intrecciano alle figure oggettive di una strada di Dublino; ciò che è oggettivo e ciò che è soggettivo, l’interno e l’esterno, si compenetrano reciprocamente e continuamente, sì che nonostante la chiarezza della singola immagine non si riesce mai a sapere se si tratta di una tenia dell’ordine fisico oppure di quello trascendentale.

La tenia è un cosmo di vita a sé stante, dotato di una prolificità prodigiosa; questa non è certo una immagine molto bella, ma non mi sembra inadatta per qualificare un capitolo di Joyce. La tenia non sa fare altro che creare nuove tenie, ma di queste ne produce in numero infinito.

Il libro di Joyce potrebbe avere 1470 pagine o un multiplo di quel numero, e l’infinito non sarebbe ugualmente diminuito di una sola goccia, l’essenziale non sarebbe ancora pronunciato.

Ma siamo poi sicuri che Joyce voglia dire alcunché di essenziale? Questo antico pregiudizio ha ancora ragione di esistere di fronte a lui? Secondo Oscar Wilde l’opera d’arte è una cosa assolutamente inutile. Ai tempi nostri neppure i filistei della cultura avrebbero più nulla da obiettare a questa tesi; ma il loro cuore continua ad aspettarsi dall’opera d’arte un che di “essenziale”. Sennonché dove potremmo trovarlo in Joyce? Perché egli non lo dice? Perché non l’offre al lettore, additandolo con un gesto espressivo — una semita (via) sancta ubi stulti non errent?

Ebbene, ammetto di essermi sentito istupidito e arrabbiato. Il libro non mostrava segno di venirmi incontro, non compiva il più lieve tentativo per introdursi nelle mie simpatie, e ciò fa sempre sorgere nel lettore un fastidioso senso d’inferiorità.

Evidentemente il filisteismo culturale mi è a tal punto entrato nel sangue da farmi ingenuamente presumere che ogni libro voglia dirmi qualche cosa e voglia essere compreso; ciò è manifestamente un antropomorfismo mitologico, proiettato sull’oggetto, nella fattispecie sul libro! E poi, questo libro, sul quale non è possibile formulare una qualsiasi opinione — quintessenza della fastidiosa sconfitta di un lettore intelligente, il quale, in fin dei conti… (per usare lo stile suggestivo di Joyce stesso).

In fin dei conti, ogni libro ha un contenuto e rappresenta qualche cosa; ma io sospetto che Joyce non abbia voluto “rappresentare” nulla. Che il libro abbia finito col rappresentare lui? Ecco il perché di quella solitudine assoluta, di quella procedura senza testimoni, di quella scortesia irritante di fronte al lettore coscienzioso?

Joyce mi ha indispettito.

(Non si dovrebbe mai porre a confronto il lettore con la propria stupidità; ma l’Ulisse ha saputo farlo.)

Uno psicoterapeuta come me fa sempre della terapia, anche di fronte a sé stesso. Quindi “irritazione” vuol dire: “Non sei riuscito a scorgere che cosa c’è dall’altra parte.” Si segua perciò il proprio dispetto e si ponga dinanzi a sé stesso ciò che ha fatto sorgere quel malumore: questa noncuranza, questa insensibilità di fronte al tentativo benevolo, comprensivo, benigno ed equo di un rappresentante intelligente e colto del pubblico, questo solipsismo m’innervosisce.

È uno stare a sé, una fredda non-relazione dello spirito, che sembra procedere dalle regioni dei sauri, una conversazione nelle e con le proprie viscere; si tratta appunto di quell’uomo di pietra, di quel Mosè dalle corna di pietra, dalla barba di pietra, dalle viscere pietrificate, che volta la schiena con petrosa indifferenza sia alle pignatte che al pantheon egiziano, offendendo con ciò malignamente tutti i sentimenti di simpatia del lettore.

Da questo petroso mondo infero sorge la visione di una tenia peristaltica, dai movimenti ondosi, che agisce in maniera monotona, in conseguenza della sua eterna produzione proglottidica. È vero che nessuna proglottide è uguale all’altra, ma esse si somigliano da poter essere scambiate L’una con l’altra. In ogni pur minima parte del libro Joyce è sé stesso e in pari tempo l’unico contenuto di quel brano. Tutto è nuovo e in pari tempo è quanto esisteva dall’inizio. Supremo legame alla natura! Grande ricchezza e grande… noia!

Joyce mi annoia fino alle lacrime; ma si tratta di una noia cattiva, pericolosa, di una noia che neppure la peggiore banalità potrebbe produrre.

È la noia della natura, il desolato fischiare del vento sulle rocce delle Ebridi, il sorgere e il tramontare del sole nel Sahara, il mormorio del mare — una “musica di motivi wagneriani”, come dice giustamente Curtius, eppure una eterna ripetizione. Nonostante una sorprendente varietà, noi troviamo in Joyce dei motivi (involontari?). Egli non vorrebbe forse averne nessuno, poiché la causalità, la finalità, i valori non hanno nella sua opera posto né senso.

Ma i motivi tematici sono inevitabili; sono come lo scheletro di ogni avvenimento spirituale, anche quando ci si sforzi, come Joyce fa con coerenza, di estrarre l’anima dagli accadimenti.

Ogni cosa è come priva dell’anima, il sangue caldo si è raffreddato e con un diaccio egoismo scorrono gli eventi… e quali eventi! Certo nulla di amabile, di riconfortante e di promettente; soltanto cose grigie, orribili, spaventose, patetiche, tragiche e ironiche, tutte esperienze che provengono dal lato d’Ombra, talmente caotiche che bisogna cercare col lumicino relazioni tematiche.

Eppure essi esistono, anzitutto sotto forma di risentimenti inconfessati di natura personalissima, resti di una storia giovanile troncata violentemente, rovine della storia spirituale in genere, esibite nel loro misero e nudo “essere-così” dinanzi agli occhi di una folla stupefatta. Gli antefatti religiosi, erotici e familiari si rispecchiano sulle torbide superfici del flusso degli eventi; si rende manifesta perfino la scissione della personalità dell’autore in Bloom, l’uomo delle sensazioni, comune e materiale, e in Stephen Dedalus, uomo dello spirito, allo stato pressoché gassoso, speculativo; e il primo non ha figli e il secondo non ha padre, come veniamo a sapere.

Può darsi che esistano segreti ordinamenti o corrispondenze tra i capitoli — e ci sono a tale proposito delle supposizioni apparentemente motivate — ma se ci sono, sono nascoste tanto bene che sulle prime io non ho potuto osservarle. Nella mia incapacità, irritato com’ero, non me ne sarei interessato, così come non mi sarei interessato della monotonia di una qualsiasi mediocre commedia umana.

L‘Ulisse, che io ebbi in mano già nel 1922 e che avevo messo da parte dopo breve lettura, perché ne ero deluso e irritato, mi annoia oggi come allora.

Perché ne scrivo, dunque? Avrei potuto tacerne, come di fronte a una qualsiasi altra forma di surréalisme (che cos’è il surrealismo?) che superi la mia capacità d’intendimento. Io scrivo di Joyce perché un editore è stato tanto incauto da domandarmi che cosa io pensi di lui, ossia dell’Ulisse, sul quale, come tutti sanno, le opinioni sono tutt’altro che concordi. Certo, il caso di un libro che raggiunga la decima edizione, mentre il suo autore è esaltato da certuni e condannato da altri, è unico.

Resta fermo che il libro sta al centro di tante discussioni, e questo uno psicologo non lo può trascurare. Joyce esercita un’influenza notevolissima sui suoi contemporanei. Ecco perché, più di tutto, ho cominciato a studiare l’Ulisse. Se quel libro fosse scomparso senza chiasso nelle profondità dell’oblio, non l’avrei più tirato fuori: infatti esso mi aveva molto irritato e poco divertito e mi ricordava soprattutto una noia minacciosa: temevo infatti che esso non fosse che il parto di un estro creatore negativo: su di me agiva in modo soltanto negativo.

Ma io ho dei pregiudizi. Sono uno psichiatra e ciò vuol dire che ho dei pregiudizi professionali di fronte a tutti i fenomeni psichici. Ne metto il lettore sull’avviso: la mediocre tragicommedia umana, il freddo lato d’Ombra dell’esistenza, il torbido grigiore del nichilismo psichico sono per me come il pane quotidiano, una melodia consumata, insipida e senza attrazione.

Non ne resto commosso, perché mi sono trovato troppe volte nella necessità di cercarne il rimedio per ragioni professionali. Debbo sempre “farci qualcosa” e posso spendere la mia compassione solo quando non mi si volga la schiena. Ma l’Ulisse mi volge la schiena. Esso vuole cantare all’infinito la sua melodia infinita, quella melodia che conosco fino alla sazietà, insieme al sistema sempre uguale del pensiero viscerale e dell’attività mentale limitata alla mera percezione sensoriale; quello è uno stato che vuole confermare sé stesso e non mostra alcuna disposizione per la ricostruzione. (Il lettore si sente fastidiosamente trascurato.) La distruttività sembra elevata a scopo in sé.

Ma, come se questo non bastasse, c’è poi la sintomatologia! Sentiamo cose fin troppo note: ecco gli scritti interminabili del malato di mente, operante con una coscienza frammentaria e quindi colpito da una completa assenza di giudizi e dall’atrofia dei valori.

Si verifica invece un aumento dell’attività sensoriale: osservazione attentissima, memoria fotografica delle percezioni, curiosità dei sensi rivolta tanto verso l’interno, quanto verso l’esterno, prevalere dei motivi retrospettivi e dei risentimenti, mescolanza delirante di elementi psichici soggettivi con la realtà obiettiva, un’esplosione che, irta di neologismi, di citazioni frammentarie, di associazioni uditive e linguistico-motorie, di bruschi trapassi e di sospensioni di significato, non ha il minimo riguardo per il lettore, e un’atrofia del sentimento!28 che non arretra dinanzi ad alcuna assurdità e a nessun cinismo.

Anche i profani si accorgeranno facilmente dell’analogia tra lo stato mentale schizofrenico e l’Ulisse, anzi, la somiglianza è tale da indurre facilmente il lettore infastidito a mettere da parte il libro con una diagnosi di “schizofrenia”.

Anche per uno psichiatra l’analogia è sorprendente; ma egli non mancherebbe di rilevare che nel libro spicca l’assenza di un segno distintivo caratteristico delle produzioni dei malati di mente, ossia la stereotipia. L’Ulisse è tutto fuorché monotono nel senso della ripetizione. (Ciò non è in contraddizione con quanto si è detto in precedenza. In genere, parlando dell’Ulisse, è impossibile incorrere in contraddizioni.)

L’esposizione è coerente e scorrevole, tutto è in movimento e nulla è fissato; è come se tutto fosse portato da un vivo fiume sotterraneo che palesi resistenza di una tendenza unitaria e di una scelta rigorosissima: segno indiscusso dell’esistenza di una volontà personale unitaria e di un’intenzione diretta a uno scopo!

Le funzioni spirituali, lungi dall’essere spontanee e disordinate, appaiono sottoposte a controlli severissimi. Le funzioni percettive, la sensazione e l’intuizione, sono sempre preferite, mentre le funzioni del giudizio, il pensiero e il sentimento, sono represse con uguale coerenza e appaiono come meri contenuti o come puri oggetti della percezione.

Nonostante la frequente tentazione di cedere dinanzi all’emergere della bellezza, è mantenuta la tendenza generale a tracciare un ritratto negativo dello spirito e del mondo. Questi sono tratti che noi non riscontriamo nel malato di mente consueto; rimarrebbe perciò l’ipotesi di una malattia mentale inconsueta: ma, nei confronti di quest’ultima, allo psichiatra viene a mancare ogni criterio di giudizio. L’anormalità mentale può anche consistere in uno stato di salute incomprensibile per l’intelligenza media, oppure in una forza spirituale superiore.

Non mi passerebbe mai per la mente di considerare l’Ulisse come un prodotto schizofrenico; e poi con ciò non si otterrebbe nulla, dato che a noi interessa sapere per quale ragione quel libro abbia avuto tanto successo e non se l’autore sia più o meno schizofrenico.

L’Ulisse non è il prodotto di un cervello malato, come non lo è l’arte moderna. Esso è “cubista” nel senso più profondo, poiché dissolve l’immagine della realtà in un quadro immensamente complesso, il cui tono fondamentale è dato dalla malinconia dell’obiettività astratta.

II cubismo non è una malattia, ma una tendenza, e importa poco se riproduce la realtà in un modo grottescamente obiettivo o grottescamente astratto. Il quadro clinico della schizofrenia non offre che una mera analogia, poiché apparentemente lo schizofrenico possiede la stessa tendenza ad alienarsi dalla realtà o, viceversa, ad alienare da sé la realtà.

Tuttavia nello schizofrenico non si tratta solitamente di un’intenzione manifesta, bensì di un sintomo che deriva necessariamente dall’originaria disgregazione della personalità in tanti frammenti (i cosiddetti “complessi autonomi”).

Nell’artista moderno tale tendenza non è dovuta a malattia individuale, ma costituisce invece un fenomeno dei tempi; l’artista non obbedisce a un impulso individuale, bensì a una corrente collettiva, la quale non ha certo la sua origine direttamente nella coscienza, bensì nell’inconscio collettivo della psiche moderna. Poiché si tratta di un fenomeno collettivo, esso si esplica in maniera identica nei campi più diversi, nella pittura come nella letteratura, nella scultura come nell’architettura. (D’altronde non è senza significato che uno dei padri spirituali di questo fenomeno, Van Gogh, fosse realmente un malato mentale.)

La deformazione della bellezza e del senso per mezzo di una grottesca obiettività o di una non meno grottesca irrealtà costituisce nel malato una conseguenza dello sfacelo della personalità, ma nel caso dell’artista si tratta di un intento creativo.

Ben lontano dallo sperimentare e soffrire nella sua opera l’espressione della disgregazione della propria personalità, l’artista moderno scopre nell’elemento distruttivo la vera unità della sua personalità artistica.

Il rovesciamento mefistofelico del senso in non-senso, della bellezza in bruttezza, la somiglianza quasi dolorosa del non-senso col senso, la bellezza addirittura eccitante del brutto, esprimono un atto creativo quale la storia dello spirito non ha ancora conosciuto, anche se in linea di principio esso non è nuovo in sé e per sé.

Possiamo osservare qualcosa di simile nella perversa modificazione stilistica di Amenofi IV, nello sciocco simbolismo dell’agnello dei primi cristiani, nella miserevole figura umana dei primitivi anteriori a Raffaello e nei soffocanti ghirigori del barocco morente.

Nonostante le loro grandissime diversità, tutte queste epoche palesano una specie di intima parentela: sono periodi di incubazione creativa, il cui senso non può essere spiegato se non in modo assolutamente insoddisfacente, attraverso un esame causale. Questi fenomeni psicologici collettivi rivelano il loro significato soltanto se vengono considerati come anticipazioni, ossia sotto un profilo teleologico.

L’epoca di Amenofi (Ekhnatòn) fu la culla del primo monoteismo, salvato al mondo dalla tradizione ebraica. Il barbarico infantilismo del cristianesimo primitivo significava semplicemente la trasformazione dell’Impero romano in una teocrazia. I pittori italiani primitivi erano i precursori di una mai vista bellezza fisica, scomparsa dal mondo fin dalla prima antichità. Il barocco è l’ultimo stile vivo della Chiesa e anticipa, mediante la sua autodistruzione, il superamento dello spirito dogmatico medievale ad opera dello spirito scientifico.

Un Tiepolo, che arriva alla zona di pericolo della raffigurazione pittorica, ben lungi dall’essere un fenomeno di decadenza dal punto di vista della personalità artistica, mira con interezza creativa a una dissoluzione resasi necessaria. L’abbandono dell’arte e della scienza dei loro tempi non costituì per i cristiani primitivi un inaridimento, bensì un arricchimento umano.

Ecco perché possiamo riconoscere un valore e un senso positivamente creativo tanto all’Ulisse quanto all’arte ad esso spiritualmente affine.

Senz’altro eccellente è la distruzione dei canoni di bellezza e di senso, validi fino ad allora, che viene compiuta dall’Ulisse. Esso offende il sentimento tradizionale, violenta la solita attesa del senso e del contenuto, schernisce tutte le sintesi. La sola intenzione di volervi fiutare una sintesi o una “configurazione” sarebbe un atto di malevolenza, perché, se si riuscisse a dimostrare in quel libro resistenza di tendenze tanto poco moderne, si proverebbe pure che esso è inficiato di un grave difetto estetico. Tutto il male che possiamo dire dell’Ulisse è una prova delle sue qualità; infatti noi ne parliamo male per un risentimento dell’individuo non moderno, il quale non vuole vedere ciò che “gli dèi” ancora “velano pietosamente”.

Gli elementi indomabili e inafferrabili che insorsero con dionisiaca profusione in Nietzsche, inondando il suo intelletto psicologico (che si sarebbe senz’altro inchinato dinanzi all’ancien régime), scaturiscono finalmente in forma pura negli artisti moderni. Perfino i passi più tenebrosi della seconda parte del Faust, lo Zarathustra e sicuramente anche in Ecce Homo volevano raccomandarsi al mondo in un modo o nell’altro; ma solo i moderni sono riusciti a creare un’arte a rovescio o il rovescio dell’arte, ossia un’arte che non si raccomanda, né a bassa né ad alta voce, un’arte che dice chiaramente che cos’è che non vuole partecipare al gioco, un’arte che si esprime con quella restia non-volontà che già s’infiltrava, timidamente ma in modo evidentemente disturbatore, nell’espressione di tutti i predecessori dei moderni (non dimentichiamo Hölderlin!), facendo sbriciolare i vecchi ideali.

Certo l’esame di un solo campo non consente di riconoscere chiaramente di che cosa si tratti. Noi non ci troviamo di fronte a un attacco sferrato una volta tanto in un punto determinato, bensì di fronte a un sovvertimento pressoché universale dell’uomo moderno, il quale evidentemente si libera da tutto un mondo antico.

Poiché non ci è purtroppo possibile scrutare nel futuro, ignoriamo fino a quale punto apparteniamo al Medioevo, inteso nel suo significato più profondo. Non mi stupirei se, ove fosse possibile vederci dal superiore angolo visuale del futuro, noi ci trovassimo immersi in esso fino al collo; infatti solo così si potrebbe spiegare in modo soddisfacente resistenza di libri o di opere d’arte sul tipo dell’Ulisse.

Sono come drastiche purghe, la cui piena efficacia cadrebbe nel nulla se non incontrassero una corrispondente resistenza, tenace e ostinata. Sono drastici nell’ordine psicologico, aventi senso solo ove si tratti di un materiale tenacissimo o durissimo. Hanno in comune con la teoria di Freud di scavare con fanatica unilateralità il terreno sotto i valori che stanno già per crollare.

Con l’apparenza di un’obiettività pressoché scientifica e usando anzi in parte una terminologia “scientifica”, l’Ulisse è di un’unilateralità prettamente ascientifica, è negazione pura: ma in quanto tale creativo.

È una distruzione creatrice e non un erostratico atto teatrale; è uno sforzo molto serio di mettere sotto il naso dei contemporanei un’altra realtà, ma con la ingenuità innocente dell’obiettività artistica. Nulla vieta che si giudichi pessimistico il libro, benché alla fin fine, all’incirca sull’ultima pagina, spunti tra le nuvole una luce di redenzione.

Non è che una sola pagina contro 734 sorte tutte quante dall’Orco. Qua è là brillano stupendi cristalli in mezzo alla melma nera, e ciò dovrebbe bastare anche a una persona non moderna per convincerla che Joyce è un “artista”, che egli — cosa tutt’altro che evidente presso gli artisti oggi operanti — “sa fare”; che anzi è un maestro, un maestro che, in vista di scopi superiori, rinunzia religiosamente al suo mestiere precedente.

Pur nel suo rivolgimento — da non confondersi con una “conversione” — Joyce è rimasto un fedele cattolico e impiega la sua dinamite, in gran parte, per le Chiese e per le strutture psicologiche prodotte o influenzate dalle Chiese. Il suo “contromondo” coincide con l’atmosfera da alto Medioevo e interamente provinciale, essenzialmente cattolica dell’Erin, dell’Irlanda, che cerca spasmodicamente di gioire della propria autonomia politica.

Da tutti i paesi stranieri in cui soggiornava scrivendo l’Ulisse, l’autore non cessò di guardare fedelmente alla Madre Chiesa e alla sua Irlanda; la terra straniera gli serviva solo come un’ancora per assicurare la sua navicella dal maelstrom delle reminiscenze e dei risentimenti irlandesi. Ma, quantomeno nell’Ulisse, il mondo non lo ha mai toccato, neppure come tacita premessa.

Ulisse non cerca la sua Itaca, bensì proprio al contrario compie sforzi disperati per sbarazzarsi della sua nascita irlandese.

Ecco dunque un comportamento di interesse esclusivamente locale, che dovrebbe lasciare indifferente il resto del mondo.

Eppure non succede così! Quel fenomeno locale appare più o meno universale, a giudicare dal suo effetto sui contemporanei. Esso deve quindi ben attagliarsi ai contemporanei; bisogna che ci sia una vasta comunità di uomini moderni, se si è riusciti a divorare, dal 1922 in poi, dieci edizioni dell’Ulisse.

Bisogna che il libro dica o riveli addirittura qualche cosa che quegli uomini non sapevano o non sentivano. Anziché annoiarli maledettamente, il libro li fa progredire, li ristora, li istruisce, li converte o, viceversa, li trasporta evidentemente in uno stato desiderabile, ché altrimenti bisognerebbe ricorrere all’ipotesi dell’odio più feroce, per spiegare come mai una persona riesca a leggere quel libro dalla prima all’ultima pagina con attenzione e senza soccombere a fatali attacchi di sonno.

Sospetto perciò che l’Irlanda medievale e cattolica abbia un’estensione a me finora sconosciuta, un’estensione immensamente più vasta di quella segnata dalle ordinarie carte geografiche. Quel Medioevo cattolico mi sembra anzi, insieme ai suoi Dedalus e Bloom, in certo modo universale; ossia, bisogna che vi siano, in certo senso, delle classi sociali talmente soggette — al pari dell’Ulisse — a una localizzazione spirituale, che si debba ricorrere agli esplosivi di Joyce per infrangere il loro ermetico isolamento. Io sono convinto che noi siamo ancora profondamente radicati nel Medioevo; non c’è nulla da fare; ed ecco perché abbiamo bisogno di profeti negativi sul tipo di Joyce (o di Freud): per mostrare ai medievali contemporanei, completamente soggetti ai pregiudizi, l’“altra faccia” della realtà.

Naturalmente questo compito immane sarebbe svolto malamente da chi tentasse di rivolgere con cristiana benevolenza i suoi occhi recalcitranti al lato d’Ombra del mondo. Ciò condurrebbe solo a una “visione” assolutamente non partecipe. No — in ciò Joyce è un vero maestro — questa rivelazione può nascere soltanto da un atteggiamento ad essa consono; solo così si scatenerà il gioco delle forze emotive negative.

L’Ulisse mostra come si debba compiere quella “sacrilega presa a rovescio” di cui ci aveva parlato Nietzsche; Joyce la opera freddamente e obiettivamente, in un modo talmente “sdivinizzato” come Nietzsche non se lo sarebbe mai sognato.

E tutto ciò col tacito ma giustissimo presupposto che l’azione fascinatrice dell’ambiente spirituale non abbia nulla in comune con l’intelligenza ma tutto con l’umore!

Non ci si lasci traviare dalla considerazione che Joyce ci mostra un mondo terribilmente desolato, senza Dio e senza spirito, e che non si possa perciò capire come vi sia della gente che riesce a trarre dal libro alcunché di confortante. Per quanto strano ciò possa suonare, il mondo dell’Ulisse è migliore del mondo di coloro che sono legati irrimediabilmente all’oscurità della loro nativa provincia dello spirito.

Anche se prevalgono gli elementi malvagi e distruttivi, questi convivono accanto e forse più in alto del “bene”, del “bene” tradizionale che si rivela in realtà come un tiranno impaziente, come un illusorio sistema di preconcetti che decurta con molta crudeltà la possibile ricchezza della vita reale ed esercita, su tutti coloro che sono dannati ad esso, una costrizione del pensiero e della coscienza che a lungo andare riesce intollerabile.

“Rivolta di schiavi nella morale” sarebbe un motto nietzscheano non inadatto all’Ulisse. Per coloro che sono legati, l’elemento liberatorio è dato dal riconoscimento “obiettivo” del proprio mondo e del proprio “essere fatti così”. Come il comunista da salotto si compiace della sua barba lunga, così lo spirito che sia legato al proprio mondo è felice di poter dire obiettivamente, una volta tanto, come sia fatto quest’ultimo. Per coloro che sono abbacinati, coprire la luce è un beneficio; per i prigionieri, il deserto sconfinato è un paradiso.

Il non dover più essere bello e buono e intelligente è addirittura una redenzione per l’uomo medievale, poiché per l’uomo d’Ombra gli ideali non sono atti creativi o fari posti sulle montagne, bensì carcerieri e carceri; sono come una polizia metafisica, inventata originariamente sul Sinai, ad opera di Mosè, tirannico conduttore di orde selvagge, e imposta all’umanità con abile inganno.

Considerato dal punto di vista causale, Joyce è una vittima dell’autorità cattolica; dal punto di vista teleologico, è un riformatore, a cui per intanto riesce solo la negazione; un protestante che, in attesa di meglio, vive della sua protesta.

Caratteristica dell’uomo moderno è però l’atrofia del sentimento, che secondo quanto ci dice una lunga esperienza sorge solitamente come una reazione contro il troppo sentimento e soprattutto quando si sono avuti troppi sentimenti falsi. L’insensibilità dell’Ulisse permette di dedurne un disperato sentimentalismo. Siamo dunque ancora tanto sentimentali?

Ecco un’altra domanda alla quale soltanto un lontano futuro potrebbe fornire una risposta soddisfacente! Eppure noi possediamo più di un riferimento per affermare che la nostra frode sentimentale ha assunto proporzioni certamente indebite. Si pensi soltanto alla parte addirittura catastrofica dei sentimenti popolari in tempo di guerra! Si pensi alla nostra cosiddetta umanità! Nessuno più di uno psichiatra potrebbe spiegare fino a quale punto tutti gli uomini sono vittime, impotenti ma indegne di compassione, dei propri sentimenti. Il sentimentalismo è una sovrastruttura della brutalità. L’insensibilità ne è il necessario contrapposto, inevitabilmente colpito dagli stessi difetti.

Il successo dell’Ulisse prova che anche l’insensibilità insita in esso agisce in modo positivo; bisogna quindi inferirne resistenza di un eccesso di sentimenti, la cui mitigazione sembra giovevole all’individuo.

Io sono profondamente convinto che noi siamo prigionieri non solo del Medioevo, bensì anche del sentimentalismo; quindi ci riuscirà plausibile che dalla nostra cultura debba sorgere un profeta dell’insensibilità compensatoria. I profeti non sono mai simpatici e non hanno modi compiti; però si dice che sappiano talvolta colpire nel segno.

Come si sa, ci sono profeti maggiori e minori; la storia dirà a quale categoria appartenga Joyce. L’artista è il portavoce dei segreti spirituali del suo tempo; involontario come ogni profeta autentico e spesso incosciente come un sonnambulo. Egli crede di parlare di sé: ma la parola gli è conferita dallo spirito del tempo, e ciò che questo dice è, perché opera.

L’Ulisse è un “documento umano” del nostro tempo ed è anche di più: è un segreto. È vero che esso può liberare coloro che sono legati spiritualmente e che la sua freddezza fa agghiacciare fino al midollo ogni sentimentalismo, anzi ogni sentimento normale; ma questi effetti salutari non ne esauriscono la natura.

L’osservazione che lo stesso Maligno gli ha fatto da padrino è una battuta interessante, ma non soddisfacente. Nell’Ulisse c’è vita, e la vita non è mai esclusivamente malvagia e distruttrice. Per quanto tutto ciò che si riesce a cogliere in questo libro sia negativo e dissolvente, si finisce col presentire un che di inafferrabile, uno scopo recondito che gli conferisce un significato e, con ciò, della bontà.

Che in fin dei conti questo variopinto tappeto di parole e di immagini sia “simbolico”? Non certo — per carità! — un’allegoria, ma un simbolo quale espressione di qualche elemento di cui non si riesce a cogliere la natura? Se così fosse, dovrebbe pur trasparire dallo strano tessuto un significato nascosto, si dovrebbero udire, di quando in quando, suoni già uditi in altri tempi e luoghi, magari in rari sogni o nella oscura saggezza di popoli dimenticati. Non posso negare questa possibilità, ma non so trovarne la chiave.

Il libro mi sembra anzi scritto con una coscienza lucidissima; non è un sogno né una manifestazione dell’inconscio. Possiede un’intenzionalità più forte e una tendenza più assoluta che non lo Zarathustra di Nietzsche o la seconda parte del Faust di Goethe. Ecco probabilmente perché l’Ulisse manca il carattere simbolico.

Eppure si avverte in esso uno sfondo archetipico; dietro a Dedalus e a Bloom si nascondono indubbiamente le eterne figure dell’uomo spirituale e dell’uomo sensuale. Mrs Bloom nasconde forse un’Anima irretita nel mondo di qui, e Ulisse stesso sarebbe l’eroe; ma l’opera non accenna affatto a quegli sfondi, bensì mette in evidenza la coscienza più vasta e illuminata.

Evidentemente il libro non è né intende affatto essere simbolico. Se, ciò malgrado, lo fosse in certe sue parti, sarebbe un segno che nonostante tutte le precauzioni l’inconscio ha giocato un suo tiro all’autore. Infatti “simbolico” vuol dire che nell’oggetto, sia esso spirito o mondo, si cela un elemento di natura inafferrabile e potente; e l’uomo compie uno sforzo disperato per dar forma di parola al segreto che sta fuori di lui. Per tale scopo egli è obbligato a rivolgersi all’oggetto con tutte le sue forze spirituali e trapassare i veli splendenti per riportare alla luce l’oro gelosamente nascosto in profondità ignote.

Ma ciò che ci impressiona maggiormente nell’Ulisse è che dietro mille veli non si nasconde nulla, che esso non si rivolge né allo spirito né al mondo, e che freddo come la luna, guardando da cosmiche lontananze, esso lascia che scorra la commedia del divenire, dell’essere e del morire. Io spero davvero che l’Ulisse non sia un’opera simbolica, perché se così fosse, avrebbe fallito lo scopo. Quale segreto, nascosto ansiosamente, potrebbe essere coperto con tanta impareggiabile cura nel corso di 735 pagine insopportabili? Meglio non perdere tempo e fatica a cercare inutilmente; non deve esservi nascosto nulla, ché altrimenti la nostra coscienza sarebbe nuovamente riportata nello spirito e nel mondo, perpetuando i signori Dedalus e Bloom, e sarebbe ingannata dalle infinite superfici.

L’Ulisse vuole evitare proprio questo; vuole essere un occhio lunare, una coscienza staccata dall’oggetto, libero dagli dèi e dalla voluttà, libero da ogni legame dell’amore e dell’odio, della convinzione e del pregiudizio.

L’Ulisse non lo dice, ma lo fa: la meta che traspare dietro il muro di nebbia di questo libro è il distacco della coscienza.

Ecco la nuova coscienza del mondo che si rivela non a chi ha letto diligentemente le 735 pagine, ma a chi ha contemplato il proprio mondo e il proprio spirito per 735 giorni con gli occhi dell’Ulisse. Questo periodo di tempo va inteso simbolicamente — “un tempo, vari tempi, e la metà d’un tempo”; — ha da essere un tempo abbastanza lungo, una durata indeterminata in cui possa prodursi la trasformazione. Il distacco della coscienza: in Omero, l’eroe stupendamente paziente, Odisseo, che passa lo stretto di mare fra Scilla e Cariddi, fra le Simplegadi dello spirito e del mondo; nell’Ade di Dublino, “un lieve volantino accartocciato” in preda ai flutti della Liffey, fra Padre John Conmee e il Viceré dell’Irlanda:

“Elia, canotto, lieve volantino accartocciato, veleggiava verso est lungo le fiancate delle navi e dei pescherecci, in mezzo a un arcipelago di sugheri, di là della New Wapping Street oltre il traghetto di Benson, e lungo il tre alberi Rosevean proveniente da Bridgewater con un carico di mattoni” [p. 337].

Questo distacco della coscienza, questa spersonalizzazione della personalità non potrebbe essere l’Itaca dell’Odissea di Joyce?

Si potrebbe supporre che in un mondo fatto di tanti “nulla” non resti che l’Io, James Joyce. Ma si è visto comparire forse tra tutti gli infelici “Io-Ombra” un solo Io reale? Certo, tutte le figure dell’Ulisse sono dotate di un’insuperabile realtà; esse non potrebbero neppure essere diverse da quel che sono; sono “sé stesse” sotto tutti gli aspetti, eppure non possiedono un Io, un centro umano acutamente cosciente, non possiedono quell’isola dell’Io, circondata dal caldo sangue del cuore, tanto minuscola ma tanto essenziale.

Tutti i vari Dedalus, Bloom, Harry, Lynch, Mulligan, e com’altro si chiamano, parlano e agiscono come in un sogno comune che non ha principio né fine e che esiste solo in quanto “Nessuno”, un Odisseo invisibile, lo sogna. Nessuno lo sa, eppure ognuno vive solo perché lo vuole un dio.

Così è la vita, ed è per questo che le figure di Joyce sono a tal punto reali: vita somnium breve. Ma quell’io che tutti li contiene non compare mai, non si tradisce mai né con un giudizio, né manifestando partecipazione, e neppure con un antropomorfismo. L’Io del creatore di quelle figure non si ritrova più ed è come se si fosse disciolto nelle innumerevoli figure dell’Ulisse.

Eppure, ed anzi proprio per ciò, tutto quanto, perfino l’interpunzione mancante del capitolo finale, è Joyce stesso.

La sua coscienza staccata, contemplante, che abbraccia con indifferenza e con un solo sguardo la coesistenza atemporale degli avvenimenti del 16 giugno 1904, deve dire a quel fenomeno: “Questo sei tu”, tu in senso superiore: non l’Io ma il Sé, poiché soltanto il Sé può contenere l’Io e il non-Io, il mondo sotterraneo, le viscere, le imagines et lares e il cielo.

Ogni volta che leggo l’Ulisse, mi viene in mente l’immagine cinese di uno yogin dal cui capo escono le venticinque figure. Quell’immagine rappresenta lo stato spirituale dello yogin che sta per liberarsi del suo Io per passare nello stato più pieno e obiettivo del Sé, nello stato del “disco lunare che riposa solitario”, del sat-chit-ananda, concetto dell’essere-non-essere, ultima meta della via orientale alla redenzione, la perla più preziosa della sapienza indiana e cinese, cercata ed esaltata nei millenni

Il lieve volantino accartocciato nuota “verso est”, verso l’Oriente. Quel volantino compare tre volte nell’Ulisse, misteriosamente collegato ogni volta con la parola “Elia”. Due volte è detto: “Elia viene.” In realtà Elia compare nella scena del bordello (opportunamente accostata da Middleton Murry alla notte di Valpurga) e spiega in slang americano il segreto del volantino-biglietto:

“Ragazzi, a voi ora. L’ora di Dio è 12 25. Dite alle mamme che ci sarete. Passate subito l’ordine e avrete giocato l’asso buono. Aggregatevi a noi sui due piedi! Prendete i biglietti con coincidenza per l’eternità, vettura diretta. Ancora una parola. Siete un dio o una zollaccia da cani? Se il secondo avvento avvenisse a Coney Island, siamo noi pronti? Florry Cristo, Stephen Cristo, Zoe Cristo, Bloom Cristo, Kitty Cristo, Lynch Cristo, sta a voi di intuire quella forza cosmica. Abbiamo fifa forse del cosmo? No. Mettetevi dalla parte degli angeli. Siate dei prismi. Lo avete in voi, quel certo non so che, l’io più alto. Potete trovarvi spalla a spalla con un Gesù, un Gautama, un Ingersoll [corsivo di Jung]. Siete entrati tutti in vibrazione? Vi dico di sì. Una volta che rinfilate, miei fedeli, la gita di piacere in paradiso diventa una cosa risaputa. Ci siamo? È un tonico davvero. Il liquido più caldo che abbiate mai ingozzato. È la torta intera con in più la marmellata. È la trovata più sensazionale. È immensa, extralusso. Vi rinfranca. [pp. 672 sg.]

Si vede che cosa è accaduto: il distacco della coscienza umana e di conseguenza il suo accostamento alla coscienza “divina” — fondamento e vetta artistica dell’Ulisse — subisce una diabolica deformazione nel bordello, in quella ubriaca caverna di pazzi, quando il pensiero ne viene espresso nelle vesti della formulazione verbale tradizionale. Ulisse, l’uomo paziente e tante volte fuorviato, cerca la sua isola natia, cerca sé stesso, forzando la sua via attraverso le confusioni dei diciotto capitoli e liberandosi dal folle mondo delle illusioni; ma “guarda da lontano” e non partecipa.

Con ciò egli compie il medesimo percorso del Buddha o di Gesù, ossia supera il mondo dei folli, si libera dai contrari; questa era anche l’ambizione di Faust. E come Faust si dissolve nell’Eterno Femminino, così anche nell’Ulisse viene data l’ultima parola a Mrs Bloom — che Stuart Gilbert chiama giustamente “terra verdeggiante” — con un monologo senza interpunzione; spetta a lei la grazia di fare risuonare l’armonioso accordo finale, dopo lo strepito di tante diaboliche dissonanze.

In Joyce Ulisse è il dio creatore, vero demiurgo che ha saputo liberarsi dall’avviluppamento nel suo mondo di natura spirituale e fisica, così che riesce a contemplare quel mondo con coscienza distaccata.

Il rapporto fra l’uomo Joyce e l’Ulisse è simile a quello tra il Fauste Goethe o a quello tra Zarathustra e Nietzsche. Ulisse è il Sé superiore, che torna alla sua patria divina dopo essere stato ciecamente inviluppato nel mondo.

Nel libro non compare nessun Ulisse, il libro stesso è Ulisse, in Joyce un microcosmo, nello stesso tempo il mondo del Sé e il Sé di un mondo. Ulisse può ritornare solo dopo avere voltato le spalle al mondo dello spirito e a quello del fisico. Il fondamento più profondo dell’immagine del mondo dell’Ulisse è ben questo:

“È il 16 giugno 1904, giorno comune per tutto il mondo, in cui vengono dette e compiute, senza sosta, senza principio e senza meta, tante cose, per opera di uomini potenziali, senza rilievo, come in sogno, in modo umbratile, sotterraneo, ironico, negativo, brutto, diabolico… ma vero” — un’immagine del mondo che potrebbe provocare dei brutti sogni oppure un’atmosfera da cosmico Mercoledì delle Ceneri o magari quel sentimento che il Creatore poteva avere il 1° agosto 1914. Certo, dopo l’ottimismo del settimo giorno della creazione, nel 1914 il demiurgo avrà trovato qualche difficoltà per continuare a identificarsi con la propria creazione.

L’Ulisse fu scritto fra il 1914 e il 1921 e ciò non fu certo di incentivo a ispirare una visione del mondo particolarmente serena o a stringere amorevolmente questo mondo al proprio seno (né da allora le cose sono migliorate!)

Nessuna meraviglia quindi che il Creatore ispiri all’artista un’immagine negativa del suo mondo, negativa in modo blasfemo, negativa al punto che la censura dei paesi anglosassoni dovette impedire lo scandalo della contraddizione con il racconto della Creazione, decidendo semplicemente di proibire il libro! Con ciò il demiurgo misconosciuto si trasformò in Odisseo che cerca la sua patria.

Nell’Ulisse non vi è molta traccia di sentimento, e ogni esteta ne sarà lieto. Ma supponiamo che la coscienza dell’Ulisse non fosse una fredda luna, ma un Io nel possesso di una mente giudicante e di un cuore capace di sentimento, allora il cammino attraverso i diciotto capitoli, più che un dispiacere, sarebbe un vero calvario, e al calare della sera ogni viandante, vinto dal dolore e dall’insensatezza di questo mondo, portato alla disperazione, cadrebbe fra le braccia della Grande Madre, che significa il principio e la fine della vita.

Sotto il cinismo dell’Ulisse si nasconde una grande pietà, si soffre un mondo che non è né buono né bello, ma anzi, ciò che è peggio, disperato, perché scorre attraverso una quotidianità eternamente ripetuta, trascinando la coscienza umana nella sua folle danza attraverso le ore, i mesi e gli anni.

L’Ulisse ha osato effettuare la cesura tra la coscienza e l’oggetto della coscienza. Esso si è distaccato dalla partecipazione, dall’avviluppamento e dall’abbacinamento e può perciò tornare alla sua patria. Esso è ben di più che l’espressione di un’opinione soggettiva, personale, poiché il genio creatore non è mai uno ma molti, e parla perciò, nel silenzio dell’anima, ai molti per i quali esso è senso e destino allo stesso modo come lo è per l’artista unico.

Mi sembra quindi che tutto ciò che vi è di negativo, di “freddo”, di bizzarro e di comune, di grottesco e di infernale nell’opera di Joyce, ne costituisca le virtù positive, degne di lode.

L’orrenda noia e la spaventosa monotonia di un linguaggio indicibilmente ricco, dalle mille e mille faccettature, trascinantesi per capitoli simili a una tenia, sono di un’epica grandiosità e formano un vero Mahabharata delle insufficienze di un mondo umano nascosto negli angoli e dei suoi sfondi folli e demoniaci: “Da fogne, fessure, pozzi neri, mucchi d’immondizie, si alzano da ogni parte fumi stagnanti” [p. 587]. In quel pantano si specchiano — come nei sogni — con una distorsione blasfema, le supreme ed estreme idee religiose. (Un parente campagnolo dell’Ulisse, uomo metropolitano, è Alfred Kubin nell’Altra parte.)

Posso accettare di buon grado anche questo; infatti non si può negarlo. Al contrario: l’apparizione dell’escatologia nella scatologia prova la verità enunciata da Tertulliano: Anima naturaliter Christiana. Ulisse si mostra un buon Anticristo e prova con ciò la solidità del suo cristianesimo cattolico. Egli non è soltanto cristiano ma — e ciò è un maggior titolo di vanto — buddhista, scivaita e gnostico:

“(Con voce ondosa .) (…) Bianchi yogin degli dèi. Pimandro occulto di Ermete Trismegisto. (Con stridula voce di vento tempestoso.) Punarjanam patsypunjaub! Non mi voglio far pigliare per il bavero. Qualcuno ha detto: attenzione alla sinistra, il culto di Śakti. (Con grida di procellaria.) Śakti, Śiva! Padre oscuro e celato! (…) Aum; Baum! Pyjaum! Sono la luce del focolare, sono il burro cremante sognoso”. [pp. 675 sg.]

Altissimo e antichissimo bene spirituale, conservatosi pur nelle bassure della concimaia: non è forse commovente e significativo? Non esiste nessun buco nell’anima attraverso cui lo spirito divino potrebbe espirare definitivamente la sua vita nel mondo della puzza e della lordura. L’antico Ermete, il padre di ogni eretica via traversa, aveva ragione: “Come sopra così sotto.”

Stephen Dedalus, l’uomo spirituale dalla testa d’uccello, si è irretito nel fetido fango dell’alvo terrestre, quando ha voluto trasvolare nel troppo rarefatto regno dell’aria; e ha ritrovato nell’Infimo quel Supremo a cui sfuggiva. “E fuggissi pure fino all’estremo limite del mondo…’’: la proposizione che dovrebbe conseguire costituisce la probante bestemmia di Ulisse. O meglio: Bloom, il fiutafatti sensuale, perverso e impotente, sperimenta nella profondità della lordura ciò che non ha mai provato: la trasfigurazione in Dio-uomo.

Lieta novella: quando saranno scomparsi dal firmamento celeste i segni eterni, il porco che va alla ricerca dei tartufi li ritroverà nella terra; infatti i segni sono incisi in modo imperdibile e indistruttibile, nell’alto come nel basso: ma non si troveranno mai nella tiepida posizione di mezzo, maledetta da Dio.

Ulisse è assolutamente oggettivo e assolutamente onesto e, quindi, degno di fede. Possiamo perciò fidarci della sua testimonianza, che ci manifesta la potenza e la nullità dello spirito e del mondo.

Solo Ulisse è significato, vita e realtà; in lui sta la reale fantasmagoria dello spirito e del mondo, circondata e racchiusa da tanti “Io” e “non-Io”. Io vorrei chiedere ora a Joyce se si è accorto di essere una rappresentazione, un pensiero, forse un complesso di Ulisse; se si è accorto che in tutte le pagine Ulisse sta intorno a lui come un Argo dai cento occhi e ha pensato per lui un mondo insieme a un contro-mondo, perché lui abbia degli oggetti senza i quali non riuscirebbe a essere cosciente del proprio Io.

Non so né mi riguarda che cosa l’autore mi potrebbe rispondere, anzi ciò non mi deve neppure interessare se voglio fare della metafisica per mio conto. E l’Ulisse induce alla metafisica, quando si vede come riesca a pescare in modo pulito il microcosmo del 16 giugno 1904 di Dublino dal caotico macrocosmo della storia del mondo, preparandolo poi su una lastrina di vetro, con tutte le sue particolarità appetitose o disgustose, per descriverlo finalmente con stupenda acribia, con l’atteggiamento dello spettatore completamente indifferente.

Vediamo strade e case, una coppietta che va a spasso… un vero signor Bloom prende cura della sua ditta di pubblicità, un vero Stephen formula degli aforismi filosofici: potremmo forse incontrare a qualche angolo di strada il signor Joyce in persona. Perché no? Egli è non meno reale del signor Bloom, e potrebbe essere pescato, preparato e descritto anche lui (ad esempio come ritratto dell’artista da giovane, come Dedalus).

Chi è dunque Ulisse? È senza dubbio il simbolo di ciò che riassume e forma l’unità dei singoli fenomeni di tutto il libro: Mr Bloom, Stephen, Mrs Bloom, compreso Mr James Joyce. Si rifletta bene: un essere che non è soltanto un’incolore anima collettiva e che non consiste soltanto in un numero imprecisato di anime individuali indocili e non omogenee tra loro, bensì anche di case, di tramvie, di chiese, della Liffey, di alcuni bordelli e di un volantino accartocciato che scende verso il mare; e che ciò malgrado possiede una coscienza percipiente e riproducente.

Questa cosa impensabile induce a riflettere, specie perché non si può mai procedere per dimostrazioni e ci si deve perciò contentare di supposizioni. Io debbo confessare il mio sospetto che, quale Sé più ampio, il soggetto da mettere sotto il vetrino, di fronte a tutti gli oggetti, sia Ulisse, l’essere che si comporta come se fosse Mr Bloom o una tipografia o un volantino accartocciato, mentre in realtà non è che il “padre oscuro e celato” dei suoi oggetti.

“Io sono il sacrificatore e la vittima”, oppure, nel linguaggio del mondo sotterraneo: “Sono la luce del focolare, sono il burro cremante sognoso.” Se Egli si volge al mondo con un abbraccio d’amore, fioriscono tutti i giardini:

“Oh e il mare il mare qualche volta cremisi come il fuoco e gli splendidi tramonti e i fichi nei giardini dell’Alameda sì e tutte quelle stradine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e i geranii e i cactus… [p. 1025].”

Ma se Egli volta al mondo le spalle, il desolato giorno qualunque dell’intero creato continua la sua corsa: labitur et labetur in omne volubilis aevum.

Nella sua vanità, il demiurgo creò prima un mondo che gli parve perfetto; poi, quando rivolse gli occhi verso l’alto, vide una luce che non aveva creato lui. E allora tornò nella sua patria. Ma ciò facendo, la sua virile forza creatrice si mutò in docilità femminile ed egli dovette confessare:

Quello che è inattingibile qui diviene evidenza.
Quello che è indicibile qui si è adempiuto.
L’Eterno Femminino
ci trae verso l’alto.
[Goethe, Faust , pt. 2 , “Gole montane”, p. 1057.]

Sotto il vetrino, sulla terra giacente nelle profondità, nell’Irlanda, a Dublino, al numero 7 di Eccles Street, nel suo letto, mentre si sente cogliere dal sonno, il 17 giugno 1904, alle due di mattina all’incirca, la voce della licenziosa Mrs Bloom dice:

“Oh e il mare il mare qualche volta cremisi come il fuoco e gli splendidi tramonti e i fichi nei giardini dell’Alameda sì e tutte quelle stradine curiose e le case rosa e azzurre e gialle e i roseti e i gelsomini e i geranii e i cactus a Gibilterra da ragazza dov’ero un Fior di montagna sì quando mi misi la rosa nei capelli come facevano le ragazze andaluse o ne porterò una rossa sì e come mi baciò sotto il muro moresco e io pensavo be’lui ne vale un altro e poi gli chiesi con gli occhi di chiedere ancora sì e allora mi chiese se io volevo sì dire di sì mio fior di montagna e per prima cosa gli misi le braccia intorno sì e me lo tirai addosso in modo che mi potesse sentire il petto tutto profumato sì e il suo cuore batteva come impazzito e sì disse sì voglio Sì”. [pp. 1122 sg.]

O Ulisse, tu sei un vero libro di devozione per l’uomo dalla pelle bianca che ha fede nell’oggetto e che è dannato ad esso!

Tu sei un esercizio, un’ascesi, un rituale tormentoso, un procedimento magico, diciotto alambicchi d’alchimia in catena, e in essi si distilla con acidi, con vapori velenosi, col freddo e col caldo, l’omunculo di una nuova coscienza del mondo!

Tu non dici né tradirai nulla, Ulisse; ma agisci. Non c’è più bisogno che Penelope tessa un drappo senza fine: ora essa sta lieta nei giardini del mondo, perché suo marito è tornato dai vagabondaggi e dagli errori. Un mondo è trascorso e un altro mondo è nato.

Poscritto : Ecco che ora procedo discretamente con la lettura dell’ Ulisse.

Carl Gustav Jung, Opere complete, Bollati Boringhieri, Torino, Edizione Kindle, 2015, pp. 5962–5992.

[Titolo originale: “Ulysses”. Ein Monolog. Apparso per la prima volta in: “Europäische Revue” (Berlino), vol. 8 (settembre 1932) e incluso quindi in: Wirklichkeit der Seele (Rascher, Zurigo 1934); trad. it. Realtà dell’anima (Boringhieri, Torino 1963).

Carl Gustav Jung (1875–1961) iniziò la sua attività nel 1900 nel famoso ospedale «Burghölzli» di Zurigo, sotto la guida di Eugen Bleuler, uno dei grandi maestri della psichiatria dinamica. Durante questi «anni di apprendistato» mise a fuoco la sua nozione di realtà psichica ed elaborò alcuni strumenti per la comprensione dei disturbi mentali. Nel 1907 entrò in contatto con Freud, con cui stabilì uno stretto rapporto umano e scientifico, assumendo una posizione di primo piano nel movimento psicoanalitico, ma nel 1912 la pubblicazione di Trasformazioni e simboli della libido segnò la rottura del loro sodalizio e il distacco di Jung dalla psicoanalisi. Ne seguì un lungo periodo di «malattia creativa», caratterizzato da un serrato corpo a corpo con l’inconscio e le sue immagini archetipiche, di cui dà testimonianza il Libro rosso. Esperienza decisiva da cui si cristallizzarono, negli anni della maturità, il sistema della psicologia analitica (dottrina dell’inconscio collettivo e degli archetipi, tipologia psicologica, energetica psichica e processo di individuazione, principio di sincronicità) e un’eccezionale messe di indagini storico-religiose, soprattutto nei campi dell’alchimia, dell’astrologia e del pensiero orientale. Le Opere di Jung sono pubblicate da Bollati Boringhieri a cura di Luigi Aurigemma (24 voll., 1965–2007).

Carl Gustav Jung a James Joyce

Hotel Elite, Zurigo 27 settembre1932

Caro Signore,
Il suo “Ulisse” ha presentato al mondo il profondo problema della psicologia e io, più volte, sono stato chiamato a discuterne in qualità di esperto.

L’ “Ulisse” è un vero osso duro. Mi ha costretto a effettuare insoliti ragionamenti seguendo anche logiche stravaganti (dal punto di vista di uno scienziato).

Il suo libro nel complesso mi ha dato parecchi problemi e mi ha fatto rimuginare per circa tre anni sino a quando sono riuscito finalmente a capirlo. Ma devo dirLe che le sono profondamente grato, sia a Lei che alla sua grande opera, perché leggendolo ho imparato molto. Probabilmente non sarò mai completamente sicuro di poter dire se mi piaccia o no, perché richiede un eccessivo uso di nervi e di materia grigia. D’altronde, anche io non so se Lei sarà soddisfatto di ciò che ho scritto sull’Ulisse. Non potevo non raccontare al mondo quanto mi sono annoiato, quanto ho brontolato, come l’ho maledetto e quanto l’ho ammirato.

Le quaranta pagine finali sono come un saggio di psicologia. Immagino che la madre del diavolo sappia cosa ci sia dentro la psicologia di una donna, sicuramente non io.

Dunque, ora Le consiglio questo mio piccolo saggio. Lo legga come il tentativo divertente di un perfetto sconosciuto che si è smarrito nel labirinto del suo Ulisse e ne è uscito per pura fortuna. In ogni caso potrà evincerne come il suo Ulisse abbia ridotto uno psicologo apparentemente equilibrato.

EsprimendoLe la mia più profonda stima, caro signore, prendo commiato.

Cordiali saluti,

C. G. Jung

--

--

Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.