Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini nella critica del tempo
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In verità vi dico…
Il film è una fedele riproposizione del Vangelo secondo Matteo dal momento dell’Annunciazione alla Resurrezione di Gesù. Le tappe della vita di Gesù Cristo sono ripercorse senza variazioni nella storia, né cambiamenti anche testuali rispetto alla versione di san Matteo. Il Vangelo di Pasolini non intendeva mettere in discussione dogmatismi o miti, quanto far emergere l’idea della morte, uno dei temi fondamentali della sua poetica. Come negli altri film il regista si affida a un linguaggio sonoro ricercato per didascalizzare alcune delle vicende più significative del film.
Ecco dunque la Passione secondo Matteo di Bach e soprattutto la musica funebre massonica di Mozart — che accompagna tutta la passione di Gesù — a suggellare la propria immagine della morte: un evento necessario, per niente eroico e soprattutto ineluttabile. Il Vangelo, come quello di Matteo, disegna una figura di Cristo più umana che divina, un uomo con moltissimi tratti di dolcezza e mitezza, che però reagisce con rabbia all’ipocrisia e alla falsità.
Si tratta di un Cristo motivato dalla volontà di redenzione per coloro che subiscono le conseguenze della istituzionalizzazione della religione operata dai farisei che ne hanno fatto uno strumento di dominio politico e sociale. È un Cristo rivoluzionario che è venuto a portare la spada piuttosto che la pace. Il film fu apprezzato dai cattolici: l’Osservatore romano scrisse che si trattava di un film “fedele al racconto non all’ispirazione del Vangelo”. La critica di sinistra rispose freddamente: l’Unità si espresse in questi termini: “…il nostro cineasta ha soltanto composto il più bel film su Cristo che sia stato fatto finora, e probabilmente il più sincero che egli potesse concepire. Di entrambe le cose gli va dato obiettivamente, ma non entusiasticamente atto”.
Giovanni Grazzini
A ogni altra considerazione sul film che Pasolini ha tratto dal “Vangelo secondo Matteo” bisogna avanzare una premessa: l’azzardo ha avuto già il suo premio nel coraggio, nella buona fede, nella rigorosa aderenza al testo sacro. Non soltanto il film è assolutamente ortodosso, tanto che la “Pro Civitate Christiana” ha sentito il bisogno, con un certo candore, di rilasciare una dichiarazione per avallare la pellicola, ma ha persino i caratteri chiesti dallo schema conciliare ai mezzi di comunicazione sociale intesi a diffondere la parola evangelica.
Pasolini, che ha dedicato il suo film alla “cara, lieta, familiare memoria di Giovanni XXIII”, sta dunque per prepararci la sorpresa di una conversione? Per evitare equivoci ricordiamo le sue parole: “Io non credo che Cristo sia figlio di Dio, perché non sono un credente, almeno nella coscienza. Ma credo che Cristo sia divino: credo cioè che in lui l’umanità sia così alta, vigorosa, ideale, da andare al di là dei comuni termini dell’umanità”.
E confessò che per lui, scrittore razionalista, l’idea di fare un film sul Vangelo era frutto di “una furiosa ondata irrazionalistica”. “Voglio fare pura opera di poesia” Questo è dunque il versante dal quale il film va giudicato: come un’opera di poesia. Più esattamente, come un’illustrazione del testo di Matteo. Nel film, infatti, non c’è una parola scritta da Pasolini. Messosi di fronte il Vangelo, lo scrittore-regista ha cercato di individuarvi i passaggi più significativi, rinunziando a una restituzione integrale che avrebbe allungato di troppo la pellicola, e quelli ha inteso tradurli con immagini realistiche, descrizioni ambientali e forti tipizzazioni, integrati dalle scarse battute di dialogo tramandate dall’evangelista.
Ispirandosi alla tradizione figurativa tre e quattrocentesca italiana, in prevalenza a Piero della Francesca, scegliendo un commento sonoro nel quale si va da Bach a Mozart alle canzoni popolari e agli spirituals negri, collocando l’azione nei luoghi più aspri dell’Italia meridionale, Pasolini ha poi voluto dare un forte rilievo formale al complesso dell’opera, intesa, così ha detto, come un “racconto epico-lirico in chiave nazionalpopolare” Vale a dire come la storia di un mito religioso, quale fu vissuto da un popolo in miseria, oppresso da soldati stranieri e da una prepotente classe dirigente. Senza tuttavia riferimenti storici precisi (il film è così privo di preoccupazioni di verosimiglianza che sullo sfondo della deposizione, in una curva, si vede passare un pullman, e i personaggi, salvo il protagonista — che ha la voce di Enrico Maria Salerno -parlano con uno spiccato accento meridionale): anzi continuamente risolvendo i fatti e le parole in emozioni estetiche, grazie a un potere di visualizzazione che il testo di Matteo contiene in sommo grado, e il bravo regista vuole estrarre e volgere al dramma.
La trasfigurazione del reale è compiuta da Pasolini con lunghi silenzi: pur essendo condotto con modi realistici, ed echi moderni che giungono sino ad alludere agli squadristi fascisti nelle guardie di Erode, il film è in realtà tutto una sublime astrazione intellettuale. È un capolavoro di letteratura, che si appoggia su due pilastri: da un lato un testo carico di metafore, dall’altro una serie di tessere, figurativamente splendide, che per l’abbondanza delle ellissi non si compongono in mosaico narrativo.
Ammirabile per l’intelligenza del contrappunto fra la figura di Cristo (il giovane spagnolo Enrique Irazoqui, finalmente liberato dalla soggezione alla tradizione iconografica più vieta, che voleva Gesù biondo e con i capelli sciolti sulle spalle), ardente nella propria certezza di essere il figlio di Dio, alto e magro, di parola elegante, e le figure dei suoi rozzi apostoli, spinti dalla fede ma talvolta ancora perplessi tra la sicumera dei farisei, ornati di alti turbanti, e la spontanea attesa del popolo lacero; acceso di virtù propriamente cinematografiche in sequenze come il rimorso e il suicidio di Giuda; talvolta felice nel serrare nell’immagine pregnante il senso poeticamente rivoluzionario del testo evangelico, il film ha però scarsa forza avvincente per la frantumazione del racconto, che procede a sbalzi, sulla metà quasi arranca, e solo si riprende sul finale, con la fulminea scena della crocifissione e della resurrezione.
Chi volesse cercare le cause dell’impaccio del film, di quel ripiegarsi in una compostezza formale che non si dispiega in libero canto, dovrebbe rifarsi alla sua ambigua impostazione. Combattuto fra ideologia e sentimento, Pasolini ha tentato di recuperare al suo laicismo i caratteri della religiosità, ma poiché l’operazione ha un accento volontaristico, gli è sfuggito quel carattere precipuo che è il senso del mistero. Egli ha cercato di ispirarsi a Ordet di Dreyer, ma a differenza di quest’ultimo l’intuizione del Vangelo gli si è presentata sotto forma colta, con un corredo figurativo e musicale di estrazione dotta.
Quando Cristo dice che il regno dei cieli appartiene piuttosto ai poveri di spirito si rivolge anche a questi traduttori della Parola in un visibile caduco. E s’intende che queste riserve non intaccano la grande novità dell’opera, la bellezza della fotografia di Tonino Deili Colli, l’acume di certe soluzioni, come la serie di dissolvenze per l’irruente discorso della montagna, la straordinaria evidenza espressiva dei primi piani (fra gli attori, non tutti professionisti, figurano i poeti Alfonso Gatto, Rodolfo Wilcock, Francesco Leonetti, e la scrittrice Natalia Ginzburg), la suggestività dei paesaggi, l’incisività di alcune figure, come quella della giovane Maria e dell’angelo del Signore.
Fra i meriti del film metteremmo anche l’idea di situare il processo e la condanna di Gesù in una prospettiva lontana, quasi a significarne l’inverosimiglianza agli occhi degli apostoli posti in primo piano, se pure in questo continuo collaudare il dramma sull’emotività dei discepoli il film non rivelasse la debolezza di volere misurare nei testimoni l’altezza del suo protagonista. Che è una forma di pudore, ma anche un sintomo di freddezza.
Le polemiche che hanno accompagnato il Vangelo, sul grado di sincerità di Pasolini, sull’eco che vi risuona di un connubio clerico-marxista, esulano da un giudizio obiettivo sul film, anche perché in qualche caso denunciano quello stato di minorità culturale che trova una tipica espressione nell’incapacità di staccare la figura dell’autore dalla sua opera.
Si potrà, anzi si deve, discutere sull’opportunità di portare sullo schermo Gesù Cristo, cui forse giova, perché se ne colgano tutte le implicazioni umane e divine, conservare un senso di mistero; e sulla liceità di accentuare, con una interpretazione realistica che dà alla sua predicazione toni da comizio, il significato di un messaggio sociale il quale va inserito in un più ampio quadro ideologico e morale; e infine sulla convenienza di raccontare non tanto la vita e la parola di Cristo quanto, come ha fatto Pasolini, il mito di Cristo quale fu ed è inteso dai diseredati.
È indubbio tuttavia che l’esperimento di Pasolini ha un notevolissimo valore di stimolo, distrugge la tradizione oleografica riallacciandosi al più robusto filone dell’arte d’ispirazione religiosa, e conferma l’immenso fascino esercitato dalla figura di Gesù in un mondo che ne sembra tanto lontano.
In sede più rigorosamente stilistica la qualità plastica del film, la straordinaria scelta dei volti, cui è affidato il compito — non volendo aggiungere parole al testo di Matteo — di riempire con semplice e potente espressività i vuoti fra le brevi battute di dialogo, collocano questo Vangelo cinematografico in una sorta di laica e moderna pinacoteca che rivela, insieme al gusto per il genere realista del suo ordinatore, una inquieta ricerca del divino nella suprema armonia con cui può comporsi l’umano.
Da Corriere della Sera, 5 settembre 1964
Tullio Kezich
Tentato dal Vangelo di Matteo, di cui ci aveva anticipato tramite Bach alcune vibrazioni nella colonna musicale di Accattone, Pasolini si è preoccupato di darne un’interpretazione canonica. Come ormai tutti sanno il suo film è stato girato in Italia: c’è una sovrapposizione del meridione sulla Palestina, di Matera su Gerusalemme, delle plebi cavernicole di ieri su quelle di oggi.
Pasolini è partito dai “maggi” e dalle sacre rappresentazioni popolari, ma vi ha sommato tutta la sua vasta e sicura conoscenza figurativa, il suo amore per il “pastiche” culturale. Si è ingegnato a sommare le più varie derivazioni sui moduli di fondo del neorealismo italiano: ha citato Dreyer e Eisenstein, Mantegna e Masaccio, Prokofiev e gli spirituals.
Ha ritenuto, forte di una robusta preparazione e di un gusto sicuro, che nessun materiale antico o moderno fosse estraneo alla composizione del suo Vangelo. E ha sottolineato, in tal modo, la tendenza ecumenica. È toccato a Pasolini, peccatore confesso, cattolico tormentato dal dubbio, marxista angosciato, di darci uno dei pochi film religiosi del cinema italiano. Da tutti i tentativi precedenti il Vangelo pasoliniano si stacca per il netto rifiuto dell’agiografia, per la passione contemporanea che alimenta le sue immagini.
Non si può fare un film come questo senza amare profondamente Gesù Cristo. In un certo senso, tuttavia, la sacralità dell’argomento ha intimorito Pasolini, l’ha sottratto alla tentazione di darci delle pagine scelte liberamente commentate. Il film vuol riassumere tutto il primo vangelo tenendo conto del pubblico al quale è destinato: evita con estremo rigore ogni pretesto di scandalo, ogni sospetto di eterodossia.
Al di là dell’ammirazione per un film civilissimo, ci rimane insomma il rimpianto di un Vangelo più personale e spregiudicato. Le note alte che l’autore tocca riguardano la sua vicenda privata. È evidente, anche se mai blasfemia, l’identificazione di Pasolini con Cristo: perciò il regista ha voluto dare a molti personaggi il volto di letterati amici (da Gatto a Socrate, dalla Ginzburg a Siciliano, da Leonetti a Wilcock) e vedere nella Madonna la propria madre, Susanna Pasolini.
Questo personaggio, fiorito da un affetto tenerissimo, è la punta poetica del film; è la Maria del testo sacro e la mamma dell’autore, ma insieme l’immagine di una delle innumerevoli madri dolorose del nostro Sud. Per contrasto a una Maria vivente, il Cristo del giovane spagnolo Enrique Irazoqui ha soltanto dignità figurativa.
Sembra un ritratto di El Greco, ma nei discorsi implacabili di cui trabocca il sacro testo non riesce a commuoverci. La voce educata che gli presta Enrico Maria Salerno, dicitore impeccabile, appartiene a un Vangelo letto dal pulpito, più accademico e rasserenato.
E lo stile di Pasolini, altre volte ribelle come nelle scene esemplari del processo colte con il linguaggio del “cinema verité”, deve farsi abile, sostenere con invenzioni e trovate il grande assente, un interprete in grado di mimare la statura dei personaggio. Forse questo Cristo un po’ freddo riflette l’ambiguità di fondo di tutta l’impresa, l’irrisolto problema sulla natura umana o divina di Gesù. Pasolini, che non ha voluto impostare il suo discorso sulla figura del Cristo storico, scopre una tensione commovente verso una fede infantile e ingenua come i miracoli del film. Ma il suo vangelo apocrifo, quello davvero pasoliniano, l’autore ce l’ha già dato con La ricotta.
Da Tullio Kezich, Il cinema degli anni sessanta, 1962–1967, Edizioni Il Formichiere
Edoardo Bruno
Dopo l’episodio di Rogopag, La ricotta e, soprattutto, dopo il breve, intenso, illuminante film di montaggio La rabbia, con quel profilo dolcissimo e familiare dedicato a Papa Giovanni, la poesia dolorosa di Pier Paolo Pasolini doveva approdare ai temi di un’epica religiosa che riflettessero i caratteri popolari e nazionali, ideologici e civili del suo impegno.
Il Vangelo di Matteo, la sua esposizione scarna, realistica, è servito a Pasolini da tessuto sul quale distendere una testimonianza su avvenimenti raccontati con l’ansia di un’antica cronaca. La scelta del più storicistico tra gli evangelisti (“a ciascun giorno il proprio affanno”) è conseguenza di una scelta d’impostazione, di un bisogno di rendere se non teoricamente almeno nei fatti, possibile quell’ incontro marxismo-cattolicesimo, che sta drammaticamente alla base della esistenza contemporanea.
Pasolini ha intenzionalmente dedicato questa sua opera alla lieta, familiare figura di Papa Giovanni, sottolineandone l’impegno per un dialogo modernamente inteso.
Ma Vangelo secondo Matteo è opera anche stilisticamente ragguardevole; la poetica già definita con Accattone, e Mamma Roma, qui si consolida; attorno al personaggio di Gesù, Pasolini crea una presenza terrena, estremamente solida. I grandi avvenimenti si susseguono incalzanti, lo stile mantiene il carattere cronachistico, come nel Francesco rosselliniano.
La realtà si dilata oltre il dato geografico; la rappresentazione ricorda il carattere popolare delle sacre rappresentazioni paesane, pur non essendovi estranei gli apporti figurativi di Piero della Francesca o del Masaccio, mai dati come semplice imitazione esteriore.
La concretezza espressiva traduce il rigore poetico di una esemplare ricerca di umanizzazione. Ogni scena, ha questa dimensione memorabile, che accende di grandi fermenti, muove alla definizione di un mondo antico, cosciente della sua ansia di affermarsi e di vivere. La presenza di Cristo è vista sotto questo profilo impietoso, con la carica rivoluzionaria dì chi muove nella storia tra la gente, consapevole di durare oltre l’età breve, di chi avverte la propria predestinazione, l’indifferenza, l’incomprensione altrui.
Il passaggio di Cristo attraverso questo mondo di miseria di pregiudizi, di umiliazione è visto come il passaggio di un vento rinnovatore, suscitatore dì tempesta e di ribellioni. Non quelle strumentali contro il potere immediato (“date a Cesare quei che è di Cesare”), ma quelle più profondamente innovatrici contro la società degli ipocriti, dei sepolcri imbiancati, delle caste dei potenti.
L’interpretazione pasoliniana è legata alla definizione storicistica di una società arretrata, chiusa in classi (la strage degli innocenti, con quei militi vestiti come le prime camicie nere, che si auentano con violenza contro tutti gli inermi, ha una forza drammatica esemplare, cui le note di Prokovieff, di Alessandro Newsky danno un andamento ampio e solenne).
I sassi di Matera hanno offerto figurativamente uno scenario di forte evidenza: là si apre la rappresentazione; là Giuseppe vede la prima volta l’angelo nunziante, che accompagnerà anche oltre l’arco della esistenza terrena la vita di Gesù. Pasolini ha rappresentato questo angelo con intenzioni realistiche, ha visto nei suoi grandi occhi di fanciulla una presenza non trascendente. Il sovrannaturale è dato con l’ingenua visione dei semplici; nel tono di un cronista che registra le verità umilmente, prendendo atto di una realtà che può essere immaginosa, ma che non viene accettata come miracolistica.
Rivivere sotto questa prospettiva gli avvenimenti della vita di Cristo, è stato per Pasolini un impegno critico, una necessità espressiva, conseguente alla scelta. L’avvenimento incalza l’avvenimento con un ritmo serrato; senza indulgere, senza momenti di contemplazione, la sua poesia ha trovato nel tratto popolaresco la soluzione e la spiegazione figurativa: si pensi all’episodio bellissimo di Salomé dove il capriccio della fanciulla e lo stupito assenso di Erode non vanno oltre il racconto ma definiscono, attraverso la scelta dei personaggi, una situazione che contiene in germe tutte le possibili interpretazioni.
Da Filmcritica n. 147–148 (1964)
Gian Luigi Rondi
Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, nonostante i molti consensi ricevuti, non può non lasciare perplessi: sia da un punto di vista cinematografico, sia da un punto di vista religioso.
Da un punto di vista cinematografico, infatti, si limita ad essere la trasposizione letterale di alcuni episodi della vita di Gesù così come li espone l’Evangelista Matteo, con la stessa cronologia, gli stessi personaggi e quasi gli stessi dialoghi. Questa trasposizione, però, se serve ad illustrare visivamente gli episodi, non serve né a chiarirli, né soprattutto, a dar loro vita drammatica su uno schermo.
Il Vangelo, infatti, anche per il suo particolarissimo tipo di forma letteraria, non è una sceneggiatura e, perciò, non può agevolmente trasformarsi in un film se ci si ferma solo ad una sua esteriore trascrizione. Pasolini, invece, prendendo le sequenze dei suoi versetti così come sono, e rifiutandosi di sceneggiarle, non solo non ci ha detto nulla della Palestina e del tempo storico in cui visse Gesù, ma non ci ha detto neanche nulla di tutto quello che accadde realmente in Palestina quando Gesù vi iniziò la sua predicazione; tacendoci, nello stesso modo, i motivi che spinsero gli Apostoli a seguire il Messia, e quelli che spinsero poi Giuda a tradirlo; e tacendoci anche quasi tutto di Gesù: di Gesù personaggio di un dramma, s’intende.
Di conseguenza, chi non conosce il Vangelo e l’interpretazione che ne dà la Chiesa, non capisce quasi mai quello che succede nel film, o lo capisce solo dal di fuori; chi, invece, lo conosce, dato che si trova di fronte ad un film e non ad una Lectura Evangelii, si attende anche quello che il Vangelo non dice, ma che ogni suo passo suggerisce e propone; e naturalmente non lo trova.
Come ha sostituito, Pasolini, questa assenza pressoché totale di drammatizzazione degli avvenimenti evangelici? Con una formula solo figurativa che in più punti può anche convincere, ma che, insistiamo, proprio per la mancanza di un vero racconto animato da veri personaggi, svela il più delle volte valori solo esteriori e formali: le immagini, infatti, generalmente grezze e disadorne, sono quasi sempre accese dal contrasto fra i seguaci di Gesù — vestiti con abiti realistici, fuori da ogni tempo e da ogni moda — e i seguaci del Sinedrio, vestiti, invece, secondo le fogge suggerite dalla pittura italiana del Quattrocento.
Questo contrasto, che è anche la chiave stilistica del film, non stride del tutto, così come non stride quando il regista lo affida allo scabro realismo di una cornice fintamente palestinese che, con campagne desolate, grotte e città dirute, arriva ad imporsi con una certa verosimiglianza, ma non basta, con la sua compiaciuta calligrafia e le sue composizioni corali ad effetto, a ripagarci della verità e della realtà –umane e insieme divine — di cui sono stati volutamente privati i singoli personaggi e tutti i loro atti.
Si aggiunga, a questo, un inadeguato sonoro: le musiche, tutte classiche o religiose — dalla Polifonia a Bach, dalla “Messa Negra” agli Spirituals, dai Canti Russi a quelli Latini — si fondono qua e là con efficacia alle immagini e ai fatti esposti, ma le voci degli interpreti di contorno volutamente inesperte e non curate, rozze e spesso inceppate da una troppo letteraria e nient’affatto parlata traduzione italiana del testo di Matteo, stonano sovente in modo fastidioso, specie se messe a contrasto con gli accenti generalmente ispirati, ma qua e là un po’ troppo accademici e sostenuti, con cui un noto attore ha doppiato il giovane esordiente incaricato di dar volto a Gesù.
Quanto al significato religioso del film, se ci ha lasciati perplessi, i motivi, semplicissimi, sono questi: questa vita di Cristo, Pasolini, non l’ha raccontata come Papini, da convertito, cioè . L’ha raccontata da non credente e dandoci, perciò, dei fatti evangelici — pur riprodotti nella loro forma letterale — una versione da non credente.
Gli angeli, i miracoli, la divinità di Cristo, la sua Resurrezione, egli li ha esposti come se esponesse un mito, lasciando che vi credessero solo quanti prestano fede ai miti (si veda, in questo senso, tutta la voluta primitività da Cantata pastorale di certi miracoli, da quello del lebbroso a quello, finale, della Resurrezione, con quel pietrone grossolanamente smosso quasi da un deus ex machina, come nel vecchio teatro).
In secondo luogo, pur esponendo soggettivamente un mito e pur tenendosi oggettivamente al dettato delle Scritture, egli ha tentato, del Cristo, anche una sua dubbia e personale interpretazione, riproducendo solo certi passi del Vangelo (soprattutto i più controversi e difficili) e trascurandone certi altri, con il risultato che il suo Cristo, nonostante la bella pagina del Sermone della Montagna, è il più delle volte un maledicente Profeta che non ha cuore di figlio, che distrugge con una imprecazione il fico da cui non ha avuto nutrimento e che in punto di morte sembra molto più in preda alla disperazione che non all’abbandono.
In conclusione non si possono negare al film, sia pure da un punto di vista visivo e nell’ambito dell’evocazione di un’atmosfera, delle pagine di un certo rilievo; queste pagine, però, raramente si impongono, in sede drammatica, con risultati genuini e raramente, anche quando sembrano rispettare la lettera del Vangelo, ne rispecchiano lo spirito, i significati, il messaggio.
Da Il Tempo, 3 ottobre 1964
Filippo Sacchi
Giorni fa lessi su un grande foglio di informazioni la lettera di una lettrice, a proposito del Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini, che mi parve sintomatica come prima testimonianza di un certo ordine di reazioni dello spettatore, reazioni che senza avere per sé valore estetico possono pure determinare il suo giudizio.
La lettrice manifestava la sua grande delusione, che diceva condivisa da altri, per essersi trovata di fronte a un Gesù bruno con gli occhi neri, contrariamente non soltanto alle immagini nelle chiese, ma (aggiungeva) alla descrizione fattale dal suo confessore, secondo cui Gesù era biondo con gli occhi blu. Così rammentava di averlo visto anche nel film americano Il re dei re. Perché cambiarlo?
Questa perplessità, diciamo così fisionomica, non è che una delle tante perplessità che il film è destinato a sollevare nelle folle dei credenti, almeno nei paesi come il nostro, più ancorati a una certa tradizione di immobilismo iconografico. Non c’è dubbio che, dopo aver signoreggiato la tradizione artistica per secoli, producendo nel loro corso capolavori di significato universale, appena toccate nel secolo scorso le soglie del mondo moderno, l’iconografia religiosa è andata rapidamente deteriorandosi come fatto creativo, scadendo nella pura e semplice trascrizione commerciale dei moduli consacrati.
E se è vero che, attraverso mostre e premi, si è tentato di sollecitare pittori e scultori d’oggi all’arte sacra, non è men vero che, ogni volta che arrivano a dignità creativa, le loro opere sono talmente lontane dagli schemi presenti alla immaginazione dei fedeli che restano prodotti isolati, davanti ai quali l’umile credente passa, tacendo senza consentire.
Naturalmente Pasolini doveva sapere benissimo ciò che faceva scegliendo di proposito questo Cristo (al secolo Enrique Irazoqui doppiato da Salerno) bello e fiero, ma così contrario alla tradizione, magro, felino, olivastro con occhi nerissimi dal taglio orientale, quasi iranico, Coperto di una misera tunica a brandelli, assolutamente agli antipodi dei bellissimi Redentori, maestosi nell’incedere, drappeggiati entro manti regali, con viso severo e al tempo stesso clemente, incorniciato da una biondissima barba e una fluente capigliatura ricadente ad anelli, come un imperatore svevo.
E doveva sapere ciò che faceva presentandoci così la Madonna, una povera, ignara contadinella, senza mantello stellato e senza aureola. Tutta la tradizione pittorica è calcolatamente ignorata. Ricordatevi com’è sempre stato rappresentato l’episodio di Salomè: la reggia tutta d’oro, l’immenso festino, il monarca carico di porpora e di pietre preziose, la tentatrice impudica che danza nuda sotto serici veli. E confrontate qui: questo squallido palazzotto polveroso e diroccato, questa compagnia di dignitari straccioni, questo Erode melenso, e soprattutto questa Salomè sparuta, insignificante e bambina, con un abitino economico, che ballonzola male al suono di un piffero stonato!
Insomma, sei secoli di iconografia presi a schiaffi. Naturalmente non è per fare apposta un dispetto a Rembrandt o a Guido Reni. Risponde a tutto un modo di interpretare il racconto evangelico. Questo sarebbe il Vangelo visto dalla parte dei poveri, il Vangelo per i perseguitati e gli assetati di giustizia, e quindi un Vangelo di protesta, di rottura con una tradizione accomodante, sempre pronta a diluire la severità del Verbo nel giulebbe accomodante e nella compiacenza decorativa.
La rottura iconografica, insomma, vuol coinvolgere, qui, un’altra e più profonda rottura. Il fatto nuovo, stavolta, che dà all’esperienza di Pasolini un valore che supera ogni interesse critico o produttivo, è la clamorosa adesione a questo film del mondo cattolico ufficiale. Ebbene sarà estremamente importante, secondo me, vedere alla fine, quanta parte della massa dei credenti, pur con quell’avallo gerarchico, riuscirà ad accettare sino in fondo non soltanto questa versione scenica che capovolge tutta la loro figurazione anteriore, ma con essa il messaggio rivoluzionario, direi quasi sovversivo, che vi è implicito. È il problema fondamentale che pone il film.
Dopo tutte le esegesi del tempo della Mostra, non è il caso di indugiare nella analisi cinematografica. Dirò che, a una visione ripetuta, rimangono tutti gli squilibri del film, dovuti alla sua intima discrepanza di struttura.
Mentre, infatti, la prima e la terza parte, cioè all’ingrosso la Natività e la Crocifissione offrendo una materia eminentemente drammatica, consentono al regista di tradurre il racconto in azione diretta, la parte di mezzo, quella in cui si tratta di inserire i testi della predicazione di Gesù, lo costringe fatalmente a continue soste discorsive, che, per quanto animate con carrellate e patetici primi piani alla Dreyer, e sfondi di aspre, deserte solitudini, restano statiche e oratorie. Comunque, tirate le somme, un film potentemente popolare, con dentro un afflato reale che si traduce in vividi squarci e liriche illuminazioni. E un regista indubitabile.
8 novembre 1964
Mario Soldati
Non certo il primo, ma il primo vistoso segno della propria «vocazione» religiosa, Pietro Paolo (e non fu predestinazione questo nome stesso? o addirittura conseguenza della conscia deliberazione di chi glielo impose, nome che sembrò auspicare nel neonato Pasolini quella unità, invano attraverso i secoli cercata, degli insegnamenti dei due grandi opposti apostoli di Cristo?), il primo vistoso segno della propria vocazione, Pasolini lo dette con la celebre invettiva contro Papa Pacelli:
«… Proprio non lontano da dove tu sei vissuto, / in vista della bella cupola di San Pietro…/ …un mucchio di misere costruzioni, non case ma porcili. / Bastava soltanto un tuo gesto, una tua parola, / perché quei tuoi figli avessero una casa: / tu non hai fatto un gesto, non hai detto una parola… / Migliaia di uomini sotto il tuo pontificato, / davanti ai tuoi occhi, san vissuti in stabbi e porcili./…Lo sapevi, peccare non significa fare il male: / non fare il bene, questo significa peccare. / Quanto bene tu potevi far! / E non l’hai fatto: / non c’è stato un peccatore più grande di te».
Nessuno, oggi, o piuttosto ieri (sì, ieri: perché da Papa Giovanni in poi dobbiamo dire che è un altro giorno) si sarebbe scagliato con tanta violenza contro un Pontefice se non un credente, o almeno un desideroso di credere. Nessuno, se non un’anima anelante a un altro Pontefice.
Moltissimi altri segni, c’erano. Tutto il grosso libro di versi L’Usignolo della Chiesa Cattolica. E il lungo brano del sogno del film Accattone: d’una religione altrettanto vistosa ma forse più poetica che in qualunque composizione letteraria dello stesso autore: basti ricordare l’orrore presago di quel mondo ridotto a macerie, sotto cui son sepolti freschi cadaveri ignudi, e l’ombra e la luce che dividono il declivio del cimitero di campagna, e la straordinaria trovata di abolire il commento musicale e il parlato, e di sfruttare, come commento, l’angoscia stessa del silenzio innaturale di una sala di sincronizzazione, appena interrotto, in primissimo piano, dall’ansare febbrile del povero Accattone che sta sognando.
Dunque, è venuto un altro Pontefice. Eccome se è venuto. Pasolini ha premesso al suo ultimo film, Il Vangelo secondo Matteo la dedica: «Alla cara, lieta, familiare ombra di Giovanni XXIII». Ma Giovanni XXIII è andato così avanti, e così oltre i desideri e le idee dello stesso Pasolini, che il film, malgrado le sue molte bellezze e i suoi profondi incanti, non è abbastanza moderno per la dedica: e proprio questo è il suo guaio, e il guaio di tutto Pasolini.
Torniamo indietro. Torniamo un momento a Carlo Levi, maestro o suggeritore a Pier Paolo nella scelta dell’ambientazione lucana, e in infinite altre sottili intenzioni e scelte. La Madonna da vecchia, nel Vangelo, è interpretata dalla madre dello stesso Pasolini. E così, nel grande quadro La morte di Rocco Scotellaro che Levi dipinse per il padiglione lucano di Italia ’61, la figura della madre di Rocco è modellata sulla vecchia madre di Levi stesso. S
enza contare che Rocco è, in un certo senso, una reincarnazione di Cristo: un Cristo che è andato oltre Eboli, e nel quale Levi si identifica, proprio come Pasolini si identifica nel Cristo di Matteo. Le due madri vecchie che fanno da Madonne sono una spia abbastanza chiara di questa doppia identificazione.
Appena uscì il Cristo di Carlo, anch’io, con tutti gli altri, lo ammirai entusiasticamente. E come no? Un libro così vivo; così fluente, così chiaro. Tuttavia, feci una riserva: e la feci, oltre che per iscritto, a voce, direttamente a Carlo stesso. Cercando nella storia della nostra letteratura qualche cosa di congeniale, mi era venuta a mente la prosa, non meno fluida, non meno viva, non meno chiara, di un altro piemontese, anche lui, come Levi, scrittore, pittore e uomo politico, e quando trattò una materia sostanzialmente non troppo diversa: le pagine dei Ricordi, dove D’Azeglio racconta del suo lungo soggiorno nei paesi della campagna romana e dei Castelli e descrive le antiche costumanze, la vita, la superstizione di quella gente.
Nonostante la vicinanza con la capitale dello Stato pontificio, la Ciociaria del 1830 non era, infatti, molto più progredita della Lucania di un secolo dopo. Ma che cosa c’era, di così profondamente diverso, tra la magia popolare descritta dall’Azeglio e la magia popolare descritta da Carlo Levi? C’era, da parte dell’Azeglio, che pure fu persona religiosa e ottemperante alle pratiche di Santa Romana Chiesa, una piena accettazione delle facoltà razionali quali potevano essere esercitate un secolo fa: senso storico e buon senso: non diremo che l’Azeglio irridesse alle superstizioni, ma certo non ne parlava tremante e ancora meno connivente, soltanto pietoso: come, in fondo, si dovrebbe parlare di ogni miseria umana.
Da parte del Levi, che oltre a essere scrittore e pittore e uomo politico, è anche medico, e perciò, in qualche modo, scienziato, e che per lunga consuetudine con le letture più serie e più moderne è allenato agli studi storici e filosofici e credente nella storia, e che certamente non osserva nessuna pratica religiosa, di nessuna confessione, da parte di Levi, invece, assistiamo a un curioso smarrimento allorché dice della maga e delle magie lucane: come se ci credesse anche lui.
Intendiamoci, provare un brivido è normalissimo, e non c’è niente di male. Ciò che mi sapeva leggermente di trucco era l’insistenza con cui il brivido era registrato, e l’accurata assenza di ogni riflessione incredula che tuttavia, nell’intimo, un uomo come Levi non poteva non fare. In altri termini, avevo l’impressione che, per ottenere un effetto letterario, anche se di grande gusto e misura, Levi «ci marciasse un pochino»: non fosse, insomma, interamente sincero e onesto verso il lettore.
Bene. Lo stesso, credo, si può dire di Pasolini e del suo Vangelo. Egli è incerto e perplesso, tra fede e scetticismo: tra misticismo e razionalismo: tra la religione confessata e la religione della storia. Stavo per scrivere «la religione degli avi» e poi ho scritto «la religione confessata», perché se c’è un argomento dove dobbiamo attenerci allo spirito e non alla lettera, questo è proprio la religione: l’insegnamento di Papa Giovanni è tutto qui.
E se pensiamo alla «vera» religione dei nostri avi religiosi, se ricordiamo concretamente la vita dei nostri nonni che abbiamo conosciuto, non sono le loro pratiche e le loro preghiere che ancora ci commuovono: ma il modo, il fervore, la fede con cui si accostavano ai Sacramenti e pregavano. L’importante non sta nelle formule. Le formule devono essere cambiate, se è necessario cambiarle perché la fede, il fervore, il modo, la sincerità delle preghiere resti eguale. Pasolini è incerto, tra le due vie. Niente di strano. Tutti lo siamo. Lo strano consiste nel fatto che lui, come già Levi, «ci marci»: speculi su questa incertezza, la sfrutti a scopi letterari o spettacolari. Purtroppo, «ci marciamo» anche noi: anche noi, tutti, siamo colpevoli. Non possiamo, certo, scagliare la prima pietra. Meno che meno, io. Ma mi sembra che Pier Paolo faccia, di questa intima perplessità, quasi una professione.
È ingenuo, Pasolini, ed è, insieme, scanzonatissimo. È pieno di istinti e di passioni; ed è carico, insieme, di cultura. Geme di tutti i desideri; e, insieme, si ricorda di tutti i libri che ha letto, e li ha letti tutti. Ma anche questo va bene, e anche questo non sarebbe un guaio. Il guaio è, semplicemente, che lui non fa nessuno sforzo, ma proprio nessuno nessuno, non dico per giungere, neanche per avviarsi a una composizione, a una sintesi. Il Pietro e il Paolo che sono in lui sembra che non possano mai fondersi in un nome solo: i due sensi della religione, quello naturale ed evolutivo (Pietro) e quello dogmatico (Paolo) sembrano, in lui, destinati a una straziante, perenne separazione: straziante perché l’ingegno di Pasolini è sommo, e non può non soffrirne: perenne perché la sua cattiva volontà è altrettanto somma: o, piuttosto, è assoluta la sua mancanza di buona volontà per superare questo fondamentale manicheismo, e cercare, sia pure da lontano, sia pure velleitariamente, una qualunque unità.
Nel film del Vangelo, assistiamo, scena per scena, alla riprova di questa interpretazione del genio pasoliniano: doppio genio: buon genio e cattivo genio insieme. Tutte le volte che le immagini sono discrete, allusive, tremanti e pudiche del mistero che nascondono, come nel meraviglioso inizio, siamo lì per gridare al capolavoro. Nell’inizio, Pier Paolo ha avuto la grande trovata dell’immobilità per esprimere o, meglio, per suggerire il miracolo della Concezione: niente altro se non una serie di quadri, con personaggi che si fissano l’un l’altro, assolutamente muti e immobili: Maria, Giuseppe, l’angelo.
Una trovata davvero poetica, ancora più forte di quella del silenzio nel sogno di Accattone. Ma poi, ma poi… Ma poi, Pier Paolo non esita a contraffare, col trucco cinematografico, alcuni miracoli. Non dico che il trucco sia mal riuscito. Dico che lo spettatore, anche il più volenteroso, anche il più credente, in quel momento pensa non soltanto al miracolo di Cristo, ma anche al trucco cinematografico. E questo, se Pier Paolo ci pensava un po’ di più, se faceva quel piccolo sforzo che ho detto, lo avrebbe certamente evitato.
Il pudore è il segno più sicuro di chi crede, come di chi ama. L’immagine spavalda, la dichiarazione brutale sono sempre il segno di uno stato d’animo meno acceso. E quando diciamo «chi crede», preghiamo il lettore di capire che anche la fede non è, non può essere, non deve essere qualche cosa di immobile attraverso i secoli: anche la fede, come tutto il resto, è nella storia. E la fede di un uomo in buona fede non è, oggi, nei suoi fenomeni visibili e nei suoi oggetti sensibili, la fede di un uomo di buona fede nei secoli addietro.
È la stessa, sì, ma nello slancio, nella direzione dell’anima: in quel «sensus Christi», che esisteva anche prima di Cristo, e che esiste anche là, dove Cristo è un ignoto, presso centinaia di milioni di esseri umani, nelle sterminate terre dell’India e della Cina.
Pietro, San Pietro. Confesso che a San Pietro, tra tutti gli apostoli di Cristo, è sempre andata, più che a ogni altro, la mia simpatia, il mio amore. E non mi è mai riuscito di trattenere le lagrime, rileggendo la fine del capitolo 26 di Matteo, o udendolo raccontare da un pulpito, o vedendolo in qualche rappresentazione di filodrammatici, o in qualche film della Passione. Sì, anche nei peggiori film, a quel punto, piangevo: e la maggioranza degli spettatori, puntualmente, piangeva con me.
«Pietro, intanto, era seduto fuori, nel cortile. Una serva gli si avvicinò dicendo: “Anche tu eri con Gesù il Galileo!”. Ma egli negò dinanzi a tutti, dicendo: “Non so quel che dici”. Uscito nel portico, un’altra lo vide e disse a quanti erano là: “Costui era con Gesù il Nazareno!”. Di nuovo, egli negò con giuramento: “Non conosco quest’uomo!”. Poco dopo, gli astanti si avvicinarono e dissero a Pietro: “Anche tu sei davvero di quelli, perché il tuo modo di parlare ti tradisce”. Allora cominciò a imprecare su di sé e giurare: “Non conosco quest’uomo!”. E subito un gallo cantò. E Pietro si ricordò di ciò che aveva detto Gesù: “Prima che il gallo canti, mi negherai tre volte”. E uscito fuori, pianse amaramente».
Non conosco nulla di più commovente, nella letteratura mondiale. Nulla di più consolante, anche, nulla di più ottimista. Il pianto di Pietro è un simbolo, è una garanzia di salvezza per tutta l’umanità.
Attendevo Pasolini a quel punto. A differenza degli altri apostoli e degli altri personaggi, scelti, tutti, con straordinaria felicità, Pietro non mi convinceva. E anche la scena in cui Gesù predice a Pietro il canto del gallo, non era stata tra le più felici. Non importa. Attendevo Pasolini a quel punto. Lo attendevo con ansia e con amore. Volevo, sì, volevo piangere. E sapevo che se Pasolini fosse riuscito a farmi piangere in quel punto, ebbene, avrebbe avuto partita vinta. Tutto il pubblico avrebbe, allora, seguito in lacrime il film fino alla fine. Bella, dunque, l’uscita di Pietro dal portico, bello quel viottolo serpeggiante, segreto, stretto tra i poveri muri degli orti. Bello, bello, ma… ma il canto del gallo quasi non si ode, e quello che è molto peggio, il pianto di Pietro non ci commuove affatto. Perché?
Ci ho pensato e ripensato, a questo perché. A Venezia, ne ho anche parlato, a lungo, con René Clair. René Clair, dirà Pasolini, non era il tipo più adatto per una conversazione del genere. Eppure, anche lui, come me, era rimasto, fino a quel punto del film, estremamente disposto alla commozione. Bisogna forse supporre che, a quel punto sublime, eppure così semplice, della narrazione evangelica, per la prima volta non ci si commuove perché, nel fondo fondo, Pasolini è rimasto freddo? Bisogna, ahimè, supporlo: non c’è scampo.
Vediamo tutti i meriti, le bellezze, le sottigliezze, le glorie del film. La genialissima scelta dei tipi, e l’altrettanto geniale scelta dei commenti musicali: Mozart, soprattutto, che con la sua perfezione basta a infondere il senso del divino nella giusta umiltà e nella giusta rozzezza degli avvenimenti rappresentati. E le straordinarie sequenze della Passione, riprese a bella posta come dalla mano di un maldestro operatore di attualità che fosse stato inviato là, in Palestina, a Gerusalemme, in quel giorno di subbuglio. Qui, l’intelligenza di Pasolini è stata davvero ispirata.
Ha capito che l’evento era troppo alto per cercare di rappresentarlo con bellezza. Che qualunque messa in scena sarebbe stata, appunto, soltanto una messa in scena: una più o meno ben congegnata coreografia. E ha tentato il grande colpo di fare vero: vero come se la Passione fosse vera, e il povero operatore riuscisse a mala pena a darne un’idea, con la sua traballante Arriflex a mano, forse a sedici millimetri, e di lontano, e attraverso la barriera delle schiene e dei corpi dei curiosi… Formidabile. E così la crocifissione, e la Madonna che fissa con gli occhi il martirio del figlio, perché vuole anche lei soffrire il più possibile. Sono pezzi indimenticabili. Peccato che tutto il film non sia così.
Peccato che Pier Paolo non si sia ricordato che l’unico vero modo di essere religioso sarebbe stato quello di essere soltanto umano, soltanto razionale, soltanto «storico». Eppure lo sapeva benissimo. Lo aveva perfino detto, abbastanza chiaramente, nella poesia che chiude il volume dell’Usignolo: Ma c’è nell’esistenza qualcos’altro che amore per il proprio destino. E un calcolo senza miracolo che accora o sospetto che incrina. La nostra storia morsa di puro amore, forza razionale e divina.
Il corsivo è mio, mi scusi Pier Paolo, ed è intenzionale. La Chiesa, forse, non avrebbe dato l’imprimatur a un film onesto fino in fondo. Ma, in primo luogo, Pasolini e il suo produttore Bini erano abbastanza abituati a lottare per ottenere gli imprimatur: avrebbero potuto benissimo rischiare. E poi, come dicevamo, la Chiesa, dopo Papa Giovanni, è ormai molto più avanti di tutti noi. Come disse l’abate benedettino Mabillon, paleografo e filologo della fine del Seicento: «La religione ha soltanto due nemici: il troppo e il troppo poco; e, dei due, il troppo è mille volte il più pericoloso».
22 novembre 1964
Da Cinematografo, Sellerio Editore, Palermo, 2006
Giovanna Grassi
Il Vangelo secondo Matteo sarà nelle nostre sale proprio mentre in Europa comincerà la seconda ondata delle diatribe sul lavoro di Gibson, che sta risvegliando un enorme interesse per la fede negli States e nella cattolica America Latina dove sono ritornati sugli schermi film come Jesus (da anni è il più visto in tutte le missioni cattoliche del mondo), Barabba con Cristo-Roy Mangano, La più grande storia mai raccontata con Max Von Sydow-Cristo, Ben Hur, Ponzio Pilato con John Barrymore-Gesù, Jesus Christ Superstar e The Day Christ Died con l’incoronato da spine Chris Sarandon.
In Usa e nel mondo sta per essere rilanciato, «come antidoto irriverente» di humour anglosassone il film dei Monty Python Brian di Nazareth. A Hollywood, intanto, si registra un rilancio del filone religioso-spirituale da parte di molti produttori e distributori mentre i canali tv sono pieni di repliche di sceneggiati religiosi, dal giorno della «prima» di The Passion: Judas, Il Re dei Re…
Come sottolineava nei giorni scorsi il “New York Times”: «Gibson, dopo essersi sporcato le mani di tanto sangue, adesso se le ritrova piene d’oro e tutti gli stanno dando carta bianca per un secondo film su temi religiosi». In tanti sperano di imitare il successo al box office.
La Columbia-Sony produrrà The Apostles ed entrerà presto in produzione Daughter of God dal libro di Lewis Perdue, che analizza i rapporti tra l’arte e la teologia cristiana. Si aspetta la commedia Lamb, the Gospel According to Biff-Christ Childhood Past dove il protagonista deve scrivere un nuovo Vangelo per i giovani. A Los Angeles è appena stato rilanciato su schermo Imax I Dieci Comandamenti di De Mille, in Canada e nel Nord America si rivede Jesus of Montreal di Denys Arcand.
Ieri mattina, al fianco di Confalonieri e di Giampaolo Letta vicepresidente della Medusa, c’era il produttore della pellicola pasolinana, Alfredo Bini, che ha rammentato una miniera di aneddoti: «Pasolini voleva fare un film sulla parabola di Lazzaro, in omaggio al fratello ucciso a Porzus. Pier Paolo ed io avevamo alle spalle i processi per la Ricotta, nessuno voleva dare finanziamenti al Vangelo. Ci inventammo di tutto per contenere i costi e convincere Pasolini a non girare in Palestina. Suggerii lo scenario di Matera e, tanti anni dopo, Gibson mi ha chiesto suggerimenti e “soffiate”».
Il presidente del Centro Sperimentale, Francesco Alberoni, ha detto: «Pasolini era una forza della natura e questo film è diventato un pilastro della cinematografia mondiale». In platea erano presenti alcuni interpreti: Ninetto Davoli, Paola Tedesco, che bambina interpretò sullo schermo la danza di Salomè chiedendo la testa dell’apostolo Giovanni, e altri. Mancava il Cristo, l’allora studente spagnolo a Roma Enrique Irazoqui, che, oggi 59enne professore di Letteratura, nel pomeriggio ha risposto al telefono dalla Spagna al “Corriere”: «Fui scelto quando già era stato scritturato per Gesù un prete tedesco. Fu un periodo meraviglioso, vissuto a fianco di Moravia, di Elsa Morante… Fu lei, ora lo posso svelare, a scegliere le musiche, a voler mescolare ai temi di Bach la Missa Luba congolese, i Canti Rivoluzionari Russi. Non ho alcun desiderio di vedere il film di Gibson. Nessuno come Pier Paolo, è mai riuscito, in assoluta sincerità, tra forma e sostanza, a restituire al popolo la figura di Cristo».
È vero: si ricorda come il laico Pasolini, attaccato da molti per il Vangelo (film molto amato da Mel Gibson) e sostenuto da gran parte della critica marxista d’allora, disse. «Il film vuole essere anche un violento richiamo alla borghesia, lanciata verso un futuro che è la distruzione degli elementi antropologicamente umani, classici e religiosi. Forse è perché sono così poco cattolico che ho potuto amare tanto il Vangelo e farne un film».
Da Il Corriere della Sera, 26 marzo 2004
Oscar Cosulich
«Dopo aver prodotto quel gran film religioso che era La ricotta (in Rogopag), Pasolini e io eravamo stati condannati, rispettivamente, a sei e quattro mesi di carcere per oltraggio alla religione», ricorda divertito il produttore Alfredo Bini. «Naturale che quando proposi di realizzare il Vangelo mi abbiano preso per matto». E invece Bini è riuscito nell’intento producendo Il Vangelo secondo Matteo, diretto da Pasolini nel 1964 e appena restaurato (al costo di 10 mila euro) da Mediaset e dal Centro sperimentale di cinematografia. Il film, dopo l’anteprima di martedì all’Auditorium Parco della musica, circolerà dal 9 aprile fino a maggio nelle principali città italiane (compresa Napoli), distribuito da Medusa.
Alla conferenza stampa di presentazione del restauro erano presenti Fedele Confalonieri, presidente Mediaset, Giampaolo Letta di Medusa e Francesco Alberoni del Centro sperimentale proprio mentre, per una curiosa coincidenza, l’Associazione Vittorio De Sica annunciava il restauro del Tetto (1956), a dimostrare un nuovo interesse della nostra cinematografia verso le opere dei suoi maestri.
Il ritorno in sala del Vangelo secondo Matteo va a sovrapporsi all’uscita italiana della Passione di Cristo di Mel Gibson, che ha già stracciato ogni record d’incasso negli Stati Uniti e che, va ricordato, è stato girato a Cinecittà e, in esterni, proprio a Matera, dove già Pasolini aveva girato le scene del Golgota.
«Quello con Gibson sarà un bel duello», sottolinea Confalonieri, «la visione e lo sfarzo tecnologico hollywoodiano contro la povertà di mezzi e la poesia di Pasolini». Nel film appariva anche un giovane Enzo Siciliano, nei panni dell’apostolo Simone, che così ricorda l’esperienza: «Per Pasolini questo film significava rivendicare in maniera molto forte di essere non un cattolico, ma un cristiano. Il Vangelo è a pieno titolo l’antesignano di tutti i film su Cristo, checché ne dica Zeffirelli. La Passione di Cristo di Gibson non mi suscita particolare emozione perché intorno a quest’opera c’è molto can-can mediatico, mentre il film di Pier Paolo e il suo restauro hanno valore in sé».
È sempre Alfredo Bini, però, a ricondurre il cinema alle sue atmosfere più naturali, ricordando alcuni curiosi dietro le quinte delle riprese: «Avevamo il problema di far camminare Cristo sulle acque» racconta il conduttore «e già si parlava di chiamare un tecnico da Londra, con costosissimi macchinari speciali. Io, allora, sono andato a Ostia, ho messo una tavola a pelo d’acqua e la cinepresa sul livello del mare. Sfido chiunque a dire che il trucco si possa intuire». Inarrestabile, Bini rivela anche i retroscena della lunga sequenza del «discorso della montagna»: «Pier Paolo l’aveva girato una prima volta a Tivoli e non funzionava, allora abbiamo provato nei Sassi di Matera e non ci convinceva ancora, abbiamo riprovato in Puglia ed è stato pure peggio. Insomma, alla fine ho fatto costruire uno chassis di legno di 2/300 metri agli Studi De Paolis, ho messo un telo nero, un tecnico delle luci per fare i lampi, due ventilatori per il vento e un attrezzista con un secchio d’acqua a schizzare Gesù mentre parla. Il nostro cinema è questo, non certo le grandi tecnologie degli americani». E del «Vangelo» pasoliniano si parlerà anche a Radiotre Suite da lunedì alle 19.30 per dieci puntate.
Da Il Mattino, 26 marzo 2004
Cristina Borsatti
Ad un anno di distanza dall’episodio La ricotta, che costò a Pier Paolo Pasolini l’accusa di vilipendio alla religione, apparve alla Mostra di Venezia, e poi nelle sale italiane, Il vangelo secondo Matteo. Era il 1964, e il film fu accolto dall’allora Papa Giovanni XXIII, al quale l’opera è dedicata, e dal mondo cattolico, con grande attenzione. Per quella sua disarmante bellezza, per quel suo taglio poetico e per quel suo silenzioso respiro mistico, capace com’è di produrre una sorta di stordimento. Un film, va detto, che spiazzò molti critici marxisti che non capirono «la svolta di Pasolini».
Da allora sono passati quarant’anni, festeggiati nel migliore dei modi. Con un restauro, voluto e realizzato da Mediaset e dal Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, e con la notizia del suo ritorno nelle sale. Un’operazione voluta dal presidente di Mediaset Fedele Confalonieri, dal vicepresidente e amministratore delegato di Medusa Film, Giampaolo Letta, e dal Presidente del Centro sperimentale, Francesco Alberoni.
«Non è un caso — spiega Confalonieri — che siano trascorsi esattamente quarant’anni dall’uscita di questo film, né una coincidenza il contemporaneo lancio negli Stati Uniti di The Passion of the Christ di Mel Gibson». Questo è il ventunesimo film che Mediaset restaura. Il prossimo? «Non escludo — ha annunciato Confalonieri — che possa essere Il grido di Antonioni».
Tutti titoli che fanno, e che faranno parte, di un impegno che ha preso il nome di Cinema Forever, che ha l’intento di salvaguardare e promuovere capolavori del nostro cinema che altrimenti andrebbero lentamente scomparendo. Di questa importante iniziativa ha parlato ieri Francesco Alberoni, che si è detto entusiasta al partecipare all’operazione. «Si tratta di un lavoro collettivo che ha un alto valore culturale. Come centro sperimentale, speriamo di contribuire sempre più attivamente anche grazie all’allestimento di un laboratorio dedicato al digitale».
Quanto alla distribuzione, Giampaolo Letta di Medusa Film ha annunciato per il 30 marzo l’anteprima a Roma del Vangelo” di Pasolini, cui seguiranno proiezioni in tutte le maggiori città italiane.
All’anteprima di ieri mattina a Roma erano presenti anche alcuni dei protagonisti del film: il produttore Alfredo Bini, la “Salomè” Paola Tedesco, il “pastorello” Ninetto Davoli e l’interprete di Giuda Otello Sestili. Dalle loro voci è emerso il ricordo di Pasolini, ma anche curiosi aneddoti e un grido di speranza per il nostro cinema.
«Avevamo poche risorse — ha ricordato Bini — ma abbiamo dato vita ad un’opera capace di lasciare il segno». Merito anche del fatto che allora «furono risolti molti problemi dovuti all’assenza di mezzi puntando sulla semplicità. Era un momento creativo, come tutti i dopoguerra. Per questo Il Vangelo secondo Matteo è stato un ottimo esempio di produzione di qualità con un budget modestissimo, circa 90 milioni di lire».
Già: a interpretare Salomè fu chiamata la figlia dell’amministratrice di produzione, la parte di Cristo fu affidata a uno studente giunto per caso dalla Spagna per incontrare Pasolini, e una tavola di legno permise a Enrique Irazoqui di camminare sulle acque senza bisogno di ricorrere a costosissimi effetti speciali. L’incantevole Matera sostituì invece la lontana Palestina.
Da Avvenire, 26 marzo 2004
Fabio Ferzetti
Un Vangelo in bianco e nero interpretato da attori non professionisti fra cui sottoproletari, scrittori (Gatto, Ginzburg, Leonetti, Siciliano, Wilcock), un futuro filosofo (Agamben) e la madre dell’autore nel ruolo della Madonna. Un Gesù giovane e aguzzo che sembra uscito da un quadro di El Greco o di Georges Rouault, mentre nella realtà era uno studente spagnolo in esilio. Un film austero e sapiente, tutto girato fra Basilicata, Puglia e Calabria, perché Pasolini non pensò nemmeno un minuto di ricreare la Palestina del I secolo, ma ne cercò l’equivalente in quel Sud arcaico e pastorale che era al centro della sua personale mitologia.
Tutto questo e molto di più è Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, che si riaffaccia restaurato in un pugno di sale mentre lo “spottone” pulp di Mel Gibson invade gli schermi come una forza d’occupazione. Naturalmente il paragone fra i due film non ha senso. Nel ’64 infatti il mondo non era sull’orlo di una guerra di religione; Pasolini inoltre era un poeta e da poeta affrontò il testo di Matteo, lanciandosi in ogni sorta di sperimentazione per cercare le soluzioni stilistiche più adeguate.
Addio dunque alla famosa sacralità di Accattone, che sarebbe stata retorica applicata a un soggetto simile, e via con zoom, carrellate, teleobiettivi, tecniche quasi documentarie che danno al suo Vangelo quell’andatura “rubata” ancor oggi così commovente.
Mai la parola di Gesù avrebbe avuto tanta forza al cinema, né l’avrebbe ritrovata in seguito. Mai passi così noti e commentati («Il mio film è la vita di Cristo più duemila anni di storie sulla vita di Cristo») sarebbero apparsi così umili, quotidiani, concreti. Pochi sguardi feriti, una fuga lungo un orto, e si consumano lo sconcerto e il prodigio della maternità di Maria. Un fischio alla pecorara e parte la strage degli innocenti. Una corsa a perdifiato, ed ecco Giacomo e Giovanni. Mentre i ricchi, i potenti, i sacerdoti, vivono nei fantasiosi costumi di Danilo Donati, incastonati con naturalezza davvero miracolosa fra i Sassi di Matera e i castelli di Puglia.
Naturalmente il Vangelo di Pasolini non era fatto per piacere a tutti, e se a Venezia fu premiato fra gli sputi fascisti, solo il coraggio del produttore Alfredo Bini vinse l’indifferenza ostile delle banche. Visto oggi ci riporta a un’epoca remota, quando il cinema lo facevano gli uomini, non le macchine; e il dibattito culturale non aveva l’isteria malata, quasi militarizzata di oggi. Curiosamente ma non troppo, nel tempo Pasolini continuò a cambiare idea al suo riguardo (un film «ambiguo e sconcertante» arrivò a definirlo). Forse temendo di aver messo in quel Cristo sferzante troppo di sé.
Da Il Messaggero, 9 aprile 2004
Maurizio Porro
Come cura omeopatica e contraltare alla violenza di Gibson, torna in sala il capolavoro spirituale del laico Pasolini restaurato da Mediaset, riportando a gran splendore pittorico la fotografia di Delli Colli e il décor magnifico di Donati con i riferimenti alla pittura del ‘400.
Anche qui gli immobili, proletari sassi di Matera e i volti eterni della povera gente a far da sfondo geo-sociale al Vangelo più antico, prezioso ed epico, quello di Matteo e non di Braveheart. Non si coprono solo le ultime 12 ore ma tutta la vita di un Gesù brechtiano che predica arrabbiato la giustizia. Polemiche 40 anni fa, prima, durante e dopo la Mostra di Venezia: ma come, un Vangelo dallo scrittore dei ragazzi di vita? L’autore sceglie la rivoluzionaria, eterna bellezza delle parole del Vangelo (la violenza c’è, nel discorso della Montagna), chiamando come complici amici, parenti e intellettuali e offrendo, preveggente autobiografia, all’amata madre il ruolo della sofferente Madonna.
Questo Vangelo è figlio di un’epoca, dedicato alla lieta memoria di Giovanni XXIII, contro cui «gioca» l’integralista film americano. Stupisce ancora la semplice violenza del messaggio, la religione passata al vaglio marxista che non perde fiducia negli uomini. Pasolini porta in dote la profondità interiore cui arriva la cinepresa se materialmente in mano a un poeta che tramanda voglia di pace e di spada, proprio secondo Matteo, nel ricordo, era il ’63, di quella crocefissione laica e dolorosa della sua magnifica e religiosissima Ricotta.
Da Il Corriere della Sera, 10 aprile 2004
Alberto Papuzzi
La notizia è di quelle che allargano il cuore e rendono più lieve attraversare la vita quotidiana: Il Vangelo secondo Matteo, opera cinematografica di Pier Paolo Pasolini che vinse il premio speciale della giuria alla Mostra del cinema di Venezia del 1964 (e che si prese anche gli insulti dei neofascisti), è stato restaurato — grazie a un progetto del Centro sperimentale di Cinematografia di Roma, con la collaborazione di Mediaset — e quarant’anni dopo la realizzazione sarà presentato, nella versione restaurata, all’Auditorium di Roma la sera del 30 marzo.
Dopodiché entrerà nella normale programmazione. Ciò significa che nella settimana santa The Passion di Mel Gibson, che com’è noto uscirà sugli schermi italiani il 7 aprile, non avrà il monopolio della rappresentazione filmica del processo e della morte di Gesù Cristo, che i credenti compendiano nell’immagine del sacrificio, compiuto dal Dio che si è fatto Uomo. La pellicola hollywoodiana, dall’impianto spettacolare, di cui si parla dall’inizio dell’anno sulla stampa internazionale e nei programmi televisivi, sia per gli effetti granguignoleschi sia per l’ispirazione fondamentalista, dovrà fare i conti con un’opera scabra, se non povera, girata con attori non professionisti in mezzo ai Sassi di Matera, con la madre del regista nei panni della Madonna anziana e Natalia Ginzburg nelle vesti di Maria di Betania.
Perché il confronto allarga il cuore? Per la ragione che di fronte al film su Cristo girato da una star di Hollywood, si conferma l’impressione di essere in una società sempre più prigioniera dello spettacolo — anche senza tornare alle pagine di Guy Débord –; pazienza, tuttavia, se questa corrosione si chiama per esempio Grande Fratello o se la pervasività della comunicazione mediatica ci precipita in un Truman Show.
Ma quando s’impadronisce degli aspetti più autentici della spiritualità, come il rapporto coi Vangeli e con Cristo, così per i credenti come per gli agnostici, nel quadro di astute operazioni di marketing (come uscire con The Passion il mercoledì santo, alla vigilia dei tre giorni che nelle chiese cattoliche si rispecchiano nella lettura del Passion, il monopolio spettacolare diventa una cappa.
Perciò la soddisfazione che ci sia almeno un confronto e una competizione, con un’opera opposta nella concezione e nell’estetica, qual era il pasoliniano Vangelo secondo Matteo, il cui fine non è stupire o shoccare — ai bei tempi si sarebbe detto «épater le bourgeois» –, bensì riprodurre, con quanto di autenticità risulta possibile in un’opera d’arte, la testimonianza evangelica, cercando, soprattutto, di ricavare emozioni per il pubblico da un contrasto: fra una semplicità giovannea nello stile della narrazione e una fedeltà alla inesplicabilità del mistero religioso. In fondo che ci sia una possibilità di scelta, fra Gibson e Pasolini, è anch’essa una questione di mercato, senza dimenticare che lo stesso Gibson ha reso un omaggio, non sappiamo se consapevole, al maestro italiano girando una parte del suo film anche lui fra i Sassi di Matera.
Da La Stampa, 18 marzo 2004
Georges Sadoul
Il Vangelo di Matteo è raccontato da Pasolini sullo sfondo dei poveri paesi calabresi, con un Cristo duro e polemico, in immagini di grande bellezza figurativa, che non escludono neanche brani di “cinema diretto”. Volutamente ieratico e “classico”, il film è tuttavia ibrido e insoddisfacente, per la sua visione generale, mescolanza di marxismo e cattolicesimo interpretati in modo del tutto “pasoliniano”. Dedicato a Giovanni XXIII. Comunque il migliore delle dozzine di film agiografici ispirati alla Passione.
Da Dizionario dei film, Firenze, Sansoni, 1968