Il secondo Wittgenstein: la malattia del linguaggio

di Emanuele Severino

Mario Mancini
3 min readFeb 26, 2022

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Il principio di tolleranza

Mantenere, all’interno del linguaggio scientifico, certe proposizioni invece di altre è solo il risultato di una convenzione adottata per poter conseguire determinati scopi nel lavoro scientifico. Questa prospettiva ’’convenzionalistica”, che diventerà dominante nello sviluppo del neopositivismo, sarà estesa da Carnap anche alle proposizioni logiche.

Ciò significa che non esiste una logica assoluta (come ritengono Frege, Russell e Wittgenstein), ma che esistono infinite logiche, ognuna delle quali può essere scelta in vista di certi scopi.

In questa possibilità consiste il ’’principio di tolleranza”, formulato da Carnap.

In direzione analoga si sviluppa anche la riflessione di Wittgenstein, che rinuncia al primitivo progetto di controllare i linguaggi ’’naturali” degli uomini mediante il linguaggio perfetto della logica, e assegna alla filosofia il compito di chiarire i problemi che sorgono dagli infiniti giochi linguistici in cui il linguaggio si trova originariamente spezzato e che la filosofia tenta vanamente di ridurre a unità e di depurare dalle sue imperfezioni.

Tanti malattie per tanti linguaggi

Come in altri settori della filosofia contemporanea (si pensi ad esempio a Nietzsche), anche in Wittgenstein si rafforza la convinzione che il pregiudizio fondamentale è di voler riportare i problemi della vita di tutti i giorni a qualcosa di ’’profondo” che sarebbe compito della filosofia portare alla luce:

«Dobbiamo restare fermi alle cose del pensare quotidiano e non imboccare la strada sbagliata, dove ci sembra di dover descrivere estreme sottigliezze mediante la filosofia».

Il divenire della vita umana ha così il suo centro nel linguaggio, che è vario, mutevole e la cui costruzione originaria, crede Wittgenstein, è del tutto autonoma rispetto alle sottigliezze della filosofia epistemico-metafisica.

La filosofia autentica «è una battaglia contro l’incantamento del nostro intelletto per mezzo del nostro linguaggio».

La metafisica è una malattia del linguaggio, che vuol essere un rimedio contro la minaccia del divenire della vita. Si tratta di guarire da questa malattia.

Ma «non c’è un metodo della filosofia», come Wittgenstein riteneva in un primo tempo: per il ’’secondo” Wittgenstein «ci sono metodi; per così dire, differenti terapie», tante quanti sono i modi in cui si presenta la malattia del linguaggio.

Non solo non esiste un rimedio unitario contro la minaccia del divenire, ma non è unitaria nemmeno la terapia contro questo ’’rimedio”.

Questo sviluppo del neopositivismo, che, nella direzione del ’’principio di tolleranza” di Carnap e della teoria dei ’’giochi linguistici” e della molteplicità delle ’’terapie” di Wittgenstein, smantella la pretesa degli enunciati di osservazione e della logica di valere come verità assolute, è rafforzato anche dalla progressiva consapevolezza, nell’ambito stesso del neopositivismo, che il ’’principio di verificazione” finisce col togliere di mezzo, come privi di senso, non solo gli enunciati metafisici, ma anche buona parte degli enunciati scientifici, leggi generali, ipotesi, teorie, la cui possibilità di essere ricondotti a enunciati di osservazione si presenta estremamente problematica.

Nei successivi sviluppi della filosofia neopositivista, cioè, il ’’principio di verificazione” non è tanto criticato perché se ne veda l’interna inconsistenza, ma perché si presenta a sua volta come un linguaggio epistemico che finisce col rendere impossibile il libero sviluppo della scienza e della sua capacità di trasformare il mondo.

Da Emanuele Severino, La filosofia contemporanea, Milano, Rizzoli, 1986, pp. 227–228

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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