Il posto di Aby Warburg nella storia dell’arte

di Ernst Gombrich

Mario Mancini
24 min readSep 6, 2021

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Aby Warburg (al centro), con la sua assistente Gertrud Bing e il bibliotecario Franz Alber, al Palace Hotel, Roma, 1929

C’è un noto aneddoto tedesco che viene spesso citato per mettere in guardia il biografo dall’aggiungere propri commenti critici — è la storia del buon Eckermann, curatore delle conversazioni con Goethe, il quale aggiunse la seguente nota a pie’ di pagina a un’osservazione del poeta: “Qui Goethe sbaglia” (“Hier irrt Goethe”), nota divenuta tanto famosa per la sua fatuità perchè si riferiva all’affermazione di Goethe “Il mio solo vero amore è stato Lilli”. In altri termini, un po’ meno di interventismo, anche nella letteratura critica su Goethe, sarebbe stato talora auspicabile.

Comunque sia, il lettore dei capitoli precedenti si sarà certamente reso conto dell’inutilità di interrompere l’esposizione con note del tipo “Qui Warburg sbaglia”, e tuttavia potrà avvertire il bisogno di un qualche “distacco”, o “distanza”, che sola consente una valutazione critica della concezione della storia propria del nostro autore.

Pur con tutta la sua poetica soggettività, Mnemosyne può servire a questo scopo meglio, per esempio, che una minuta analisi degli scritti sul Botticelli o sul Sassetti, con tutte le loro digressioni e le loro citazioni.

Infatti Mnemosyne è l’opera in cui, con maggiore chiarezza, Warburg rivela cosa significasse per lui “rinascita dell’antichità”.

Non è tanto un problema di tradizioni formali, quanto di psicologia collettiva.

All’amico Mesnil, che gli aveva formulato la questione nei termini convenzionali (“que représentait en réalité l’antiquité pour les hommes de la Renaissance?”), Warburg scrisse chiedendo

“di pubblicare un giorno un’integrazione in cui aggiungesse: “Un problema che successivamente, nel corso degli anni, tentò cu estendersi alla comprensione della sopravvivenza del paganesimo in tutta la cultura europea”.
(12 febbraio 1926)

Sappiamo che per “paganesimo” Warburg intendeva uno stato psicologico, un abbandonarsi agli impulsi di frenesia e paura.

Appunto questa decisiva eredità egli intendeva studiare, e in tale ricerca identificava senz’altro l’esistenza individuale e lo spirito collettivo.

Il dramma della rinascita di questi impulsi, rimasti sopiti nella memoria collettiva, si rappresentava principalmente sulla scena del Rinascimento.

Su certe questioni sembra che Warburg non si sia mai interrogato. Per esempio, sulla legittimità di identificare, il paganesimo come tale con l’arte ellenistica, con quella fase relativamente tarda della scultura classica che ci ha trasmesso il Laocoonte e gli archetipi dei sarcofagi classici.

Warburg fa riferimento ai riti orgiastici del culto dionisiaco e ad altri culti misterici per dar fondamento dia sua identificazione, ma queste reminiscenze nietzschiane e questi rimandi ai paralleli antropologici non possono spiegare da soli il fatto che tali gesti e tali movimenti vennero rappresentati solo in ima fase particolare dell’arte antica.

La lacuna non deriva da una svista: essa ha in Warburg un carattere sistematico. Egli non fu mai interessato all’approccio ortodosso in storia dell’arte, consistente nel concentrarsi sulla lenta evoluzione dei mezzi stilistici in rappresentazione.

Non volle essere un “connaisseur”, mirò invece a una psicologia, scientifica della creazione artistica.

Abbiamo visto, tuttavia, che l’approccio psicologico che si era prescritto poteva dare solo un piccolo contributo all’intendimento delle tradizioni.

Consisteva principalmente di impressioni legate alla sensibilità e di associazioni di idee. Warburg continuò a cercare una spiegazione delle immagini artistiche in ciò che l’artista stesso poteva aver visto o vissuto.

Dopo il primo periodo, egli si concentrò sulla importanza delle feste come elemento di influenza formativa; prese in considerazione le processioni, il teatro, la danza e i riti orgiastici, quali avvenimenti in grado di offrire all’artista un’immagine preformata di ciò che egli poi non aveva che da tradurre in una scultura o in un dipinto.

Il problema che Warburg aveva sollevato e che perseguì dalla sua. dissertazione sino alla conferenza su Rembrandt, dagli arazzi Valois; sino alle sue interpretazioni dell’arte dionisiaca, è certo di straordinaria originalità.

Ma per qualche ragione non si domandò mai perché le danze e le rappresentazioni che aveva osservato presso gli Indiani d’America non avessero trovato espressione nell’arte di quelle tribù, e dunque quali condizioni stilistiche fossero necessarie per rendere possibile un tale passaggio.

Ma il risultato più paradossale e più importante di questo suo rifiuto di prendere in considerazione l’approccio stilistico convenzionale fu proprio il fatto die egli inaugurò una nuova epoca nello studio delle tradizioni figurative.

Poiché, a differenza della gran parte degli storici dell’arte, egli era ben lungi dall’assumere le influenze e le “formule” come scontate, la scoperta delle continuità, non essendo già implicita nei presupposti da cui partiva, lo colpì con una nuova forza.

Conservò così la capacità di meravigliarsi e poté presentare i fatti e le condizioni dei prestiti artistici con una tale energia da guadagnarsi un largo ascolto.

Il successo di un termine come Pathosformel, cui il nome di Warburg è legato, testimonia la forza d’attrazione di questa impostazione nuova.

Warburg stesso, come sappiamo, non si accontentava facilmente di questa riscoperta di tipi e di stereotipi. Impegnato com’era nelle analisi psicologiche, non cessava di stupirsi di fronte alla riapparizione di determinate forme artistiche fino a quando non fosse riuscito a inquadrare il fenomeno in una più ampia teoria psicologica della memoria sodale.

E anche in questo nuovo contesto il riemergere della Pathosformel, come abbiamo visto, non è un fenomeno stilistico, quanto un sintomo psicologico, l’indizio di uno stato dello spirito collettivo.

Questa sua riluttanza a riguardare i problemi di stile come espressione di convenzioni e di tradizioni inerenti all’essenza del processo creativo dell’arte può forse anche render conto della lacuna più curiosa e inspiegabile della sua visione della storia — l’aver egli in pratica ignorato l’arte medievale.

Warburg non si curò mai di spiegare in termini stilistici. perché le immagini di corpi agitati dalle passioni, che il Rinascimento aveva preso dall’arte ellenistica, non fossero state semplicemente assorbite nel linguaggio medievale, ma avessero appunto dovuto aspettare lo sviluppo di nuovi mezzi artistici nel Rinascimento.

Perciò egli non poteva che rifarsi al proprio apparato concettuale per spiegare lo iato tra la rappresentazione ellenistica e quella rinascimentale. Interamente nel solco del secolo XIX, cercò la spiegazione nel predominio dell’etica cristiana durante il Medioevo.

Naturalmente, negli anni della giovinezza di Warburg, era convinzione comune che la Chiesa avesse disapprovato la rappresentazione del corpo umano per motivi di ascetismo, e che questo tabù della sensualità potesse spiegare il carattere spirituale dell’arte medievale e anche, di conseguenza, quello irreligioso della pittima rinascimentale.

Warburg estese questa spiegazione anche all’espressione delle passioni. Una delle invisibili pietre angolari del suo sistema è l’idea che la disciplina ecclesiastica avesse represso gli impulsi pagani e che questi ultimi avessero potuto ricomparire solo con l’allentarsi di tale freno nel Rinascimento.

Come si ricorderà, Warburg riteneva infatti che questa repressione fosse stata tanto forte che per un lungo tempo le immagini di passionalità pagana poterono essere usate solo “invertendone” il senso, facendole cioè apparire, all’opposto, come immagini psicologicamente innocue. L’idea ha un grande fascino psicologico, ma nessuno degli esempi adottati da Warburg resiste alla critica.

Tuttavia, anche a prescindere da questa reale difficoltà, ogni lettore che sia in grado di prendere qualche distanza dalle seducenti formulazioni warburghiane, dovrà domandarsi come egli abbia potuto trascurare l’impressionante passionalità che pervade tanti capolavori dell’arte medievale.

Come dimenticare infatti le frementi anime dei dannati in tante rappresentazioni del Giudizio Universale, il lamento per la morte di Cristo, il pianto delle madri nella Strage degli innocenti, per limitarsi solo a qualche tema?

Ed è ancora più strano che molti dei gesti e dei movimenti tramandati e riformulati nel corso dell’intero Medioevo di fatto facessero parte della tradizione classica. Lungi dal reprimerli, la Chiesa non aveva cessato di usarli per ridestare le emozioni della fede.

Warburg non poteva non conoscere questa tradizione, se non altro dal momento che aveva preso da uno scritto di Anton Springer, relativo proprio al Medioevo, la formulazione stessa del suo problema, Das Nachleben der Antike?

È comunque abbastanza singolare che egli non sia stato l’unico tra gli storici della sua generazione a ignorare praticamente mille anni di arte medievale al momento di costruire la propria visione sistematica.

La stessa cosa vale infatti sia per Alois Riegl sia per Heinrich Wölfflin, anche se entrambi pubblicarono perfino delle monografie su problemi medievali. Sin dai loro anni giovanili tutti costoro continuarono a sentire il fascino della visione storica del Vasari, cioè dell’idea che l’arte fosse morta o almeno immersa in un sonno profondo durante il Medioevo.

Quanto a Warburg, tale omissione fu naturalmente percepita e corretta dai primi due storici che entrarono nella sua orbita, Fritz Saxl ed Erwin Panofsky.

Soprattutto quest’ultimo tentò di ricuperare una parte dell’analisi warburghiana proponendone la riformulazione. Le figurazioni classiche sono naturalmente sopravvissute per tutto il Medioevo ma solo in un contesto cristiano; anche motivi pagani di tipo mitologico e astrologico continuano a vivere, e soltanto all’interno di queste tradizioni l’uso dello stile passionale per rappresentare la bellezza e l’espressività viene disapprovato dalla Chiesa.

Solo il Rinascimento, quindi, ricongiunge la forma classica con il suo contenuto. Applicabile o meno che fosse una tale ipotesi, è dubbio che Warburg l’avrebbe accettata. Un rapido sguardo alle origini del suo problema potrà spiegare questo dubbio.

Il punto di partenza di Warburg, in quel memorabile inverno del 1888, quando egli accompagnò la futura moglie per le gallerie di Firenze, fu lo stile del drappeggio in Filippino Lippi e in Botticelli, quelle vesti fluenti e quei riccioli ondeggianti che in seguito designerà come “accessori in movimento”.

All’inizio, la mancanza di realismo di queste forme enigmatiche lo spinse a mettere in dubbio la concezione di Vasari della storia stilistica come graduale conquista delle sembianze naturali.

Potremmo considerarlo un problema stilistico. Perché tali forme ondeggianti si diffusero tra i pittori fiorentini degli ultimi decenni del secolo quindicesimo?

Posto così il problema, la prima risposta è che tale moda non era limitata alla sola Firenze. Infatti essa si palesa con particolare pregnanza in certe scuole settentrionali di scultura e pittura, dove è designata come “tardo Gotico”.

Probabilmente uno degli iniziatori di questa tecnica è Rogier van der Weyden, il quale si serve con grande maestria di questi motivi ornamentali, veli e nastri svolazzanti, a scopo sia compositivo sia espressivo.

La rinnovata predilezione per questi mezzi stilistici verso la fine del Quattrocento è stata descritta da F. Antal in termini di “secondo Gotico”, una reazione al realismo piuttosto statico della generazione precedente.

In tale prospettiva, una svolta decisiva è chiaramente rappresentata dalla decisione di Warburg di studiare questo enigmatico fenomeno concentrandosi solo sulle due opere mitologiche del Botticelli.

Infatti la risposta cui era giunto spiegava il nuovo stile sulla base dell’esigenza di nuovi temi. Gli “accessori in movimento” erano stati suggeriti al Botticelli dal Poliziano, che a sua volta li aveva derivati dalle sue letture di poesia antica e verificati attraverso l’esame degli antichi sarcofagi.

È dunque solo la rinascita dei temi classici a spiegare tali caratteristiche formali. È vero che, una volta formulata questa ipotesi, Warburg dovette poi affrontare il problema della tendenza fiorentina verso il geme gotico e verso l’arte religiosa importata dalle Fiandre.

Ma, per quanto poi si impegnasse a sciogliere questa situazione storica che gli appariva così paradossale, non si domandò mai in che misura anche Botticelli potesse essere inserito in tale contesto goticizzante.

Se lo avesse fatto, avrebbe potuto interpretare l’inclinazione di certi artisti del Quattrocento verso la statuaria antica di tipo espressivo piuttosto che verso quella ispirata alla quiete, come sintomo del gusto e dei problemi artistici di quel tempo e di quel luogo.

Anche il suo stesso esempio della “Ninfa”, cioè dell’ancella che reca doni nella camera della puerpera, avrebbe potuto essere illuminato dalla complessità di tale convergenza. È del tutto improbabile che le prime versioni di questa fanciulla carica di vita, come la vediamo in Filippo Lippi o nell’affresco del Maestro di Prato ignoto a Warburg, fossero direttamente legate alla scultura classica.

A meno di non seguire il tardo pensiero di Warburg e di non interpretare l’atteggiarsi della “Ninfa” come un’irruzione di memorie ancestrali, dobbiamo spiegare la sopravvivenza di questa figura attraverso il gioco di forze delle convenzioni, sul quale lo stesso Warburg ha attirato la nostra attenzione.

Non riusciremo mai a spiegare completamente come questi soggetti e questi tipi corrispondano alla scoperta di nuovi mezzi artistici. Retrospettivamente, potremmo comunque dire che Warburg ha preso in considerazione i problemi artistici che questi rinati motivi erano destinati a risolvere.

L’ancella come figura ornamentale, più che obbedire alle regole del decoro, funge da accompagnatrice dei personaggi sacri, un po’ come la soubrette nel teatro d’opera. In senso più generale, gli “accessori in movimento”, cui inizialmente Warburg aveva rivolto la propria attenzione, potevano servire a spezzare i contorni statuari della pittura quattrocentesca, che avevano colpito Vasari per la loro durezza e secchezza.

Da questo punto di vista, può anche darsi che Warburg sia stato portato a mitigare il suo giudizio su Botticelli come un “manierista” troppo facilmente influenzabile dalle spinte esterne.

Non è certo qui il luogo per tentare di ricostruire la storia stilistica della pittura del Quattrocento, da cui poi Warburg si allontanò per andare in un’altra direzione.

Forse, però, possiamo individuare il posto che egli occupa nella storia dell’arte solo portando alla luce questa sua tenace riluttanza ad affrontare le questioni di stile.

In certo modo, tale diagnosi conferma l’immagine abituale che si ha di Warburg. Secondo una diffusissima opinione, Warburg è lo studioso che nella storia dell’arte propende per l’abbandono dell’analisi formale a favore dell’iconografia.

Chi ha letto questo libro sa che sarebbe caricaturale collegare Warburg a questo indirizzo. Se c’è uno storico dell’arte il cui nome dovrebbe essere legato all’iconografia, questi è naturalmente Emile Mâle.

Per Warburg l’iconografia era qualcosa di marginale; la sua interpretazione delle raffigurazioni astrologiche di Palazzo Schifanoia a Ferrara fu senz’altro uno dei culmini della sua attività culturale, ma, più che l’identificazione dei Decani, interessava qui la scoperta delle antiche immagini trasformate e travestite, in attesa di essere riportate alla loro primitiva bellezza.

Warburg si volse all’iconografia solo in vista di tali considerazioni pedagogiche. Gli piaceva mettere in opposizione la versione degradata e quella originaria di uno stesso tema, e rivivere in prima persona la liberazione di un determinato contenuto dalle aggiunte estranee.

Talora chiamò “iconologia” questo procedimento: ma per lui iconologia non era lo studio di emblemi e allegorie complesse, bensì l’interazione di forme e contenuti nel contrasto tra diverse tradizioni.

Qui ci avviciniamo un po’ al segreto del suo successo pedagogico. Rifiutando, o piuttosto ignorando l’approccio stilistico, egli aggirava il principale problema teorico di storia dell’arte, che risaliva a Winckelmann e a Hegel, cioè quello di uno stile uniforme come espressione di un’“epoca”.

Tutti quei sistemi avevano infatti in comune la concezione onde lo Zeitgeist si oggettiverebbe in forme di manifestazione parallele, e qui la congiunzione di arte e visione del mondo era quella più spesso tematizzata.

Non che Warburg intendesse rovesciare questa concezione entro cui egli stesso era cresciuto. Le sue ricerche, però, lo portarono sempre più a metterne in discussione degli aspetti e a sentirne inadeguate le generalizzazioni.

E quando, infine, nella conferenza su Rembrandt, giunse a confrontarvisi direttamente, sembra accettare tale tradizione interpretativa ma solo per metterla ulteriormente in questione.

“Qualunque serio studioso si avventuri in un problema di storia culturale legge, sull’entrata del suo laboratorio, le parole di Goethe: ‘Quello che voi chiamate spirito del tempo non è altro che lo spirito di coloro nei quali i tempi si riflettono’.
Certo, chiunque si sia spinto in questa direzione ha sperimentato, in tutto il suo peso, la schiacciante verità di tale giudizio. Se ancora… ci vogliamo battere per una revisione almeno parziale di esso è perché sappiamo che fino ad oggi non sono state messe alla prova tutte le risorse metodologiche per far sì che tale spirito parli con la voce stessa del tempo.
Fino a che le corrispondenze occasionali tra parola e immagine non abbiano lasciato il posto a un apparato sistematico di illuminazione, e anche fino a che i rapporti formali e contenutistici tra arte e rappresentazione scenica — rituali religiosi, mimo, teatro e opera — non siano stati riconosciuti nella loro reciproca significazione, per non dire visti come un’unica realtà, lo storicismo deve avere ancora il diritto di rispondere all’accusa, tentando di presentare e di illustrare “lo spirito di tutti i tempi” con le voci e le forme di tale spirito, e dunque disinserendo se stesso, in quanto principale fonte di errore, dalla connessione tra parola, azione e immagine.”
(Rembrandt-Vortrag, Einleitung)

In realtà, la conferenza su Rembrandt, di cui questa avvertenza doveva essere l’introduzione, ci fa vedere quanto Warburg si fosse allontanato da ogni possibilità di accettare lo “spirito del tempo”.

In Rembrandt, dopo tutto, non voleva mettere in evidenza altro che la resistenza dell’artista nei riguardi di tale spirito. Si ricorderà che questo era sempre stato l’interesse di Warburg.

Resta infatti da dire che proprio in tal modo, con l’aiuto della sua geniale idiosincrasia, egli minò e infine tolse di mezzo gli approcci più convenzionali alla storia dell’arte. Egli stesso vittima dei conflitti, non sentì il richiamo di una superficiale unità ma dei conflitti delle epoche passate.

Anziché guardare all’evoluzione degli stili secondo leggi prefissate, egli osservava gli individui all’interno di situazioni di scelta o di conflitto.

Per dar vita a un tema tradizionale, religioso o pagano, essi dovevano cercare un linguaggio, un vocabolario adatto a esprimere il loro punto di vista, e questa scelta era il sintomo della forza o della debolezza della loro personalità. Se gli anni di lavoro tra i documenti fiorentini gli avevano insegnato a vedere tali situazioni nella loro concretezza, egli imparò anche ad assumere l’opera d’arte come risultato di una situazione che implicava il committente non meno dell’artista. Infatti una determinata opera può essere sintomo della scelta dell’uno come dell’altro.

Fissando l’attenzione sulla committenza e sulla soluzione che emerge dal conflitto delle possibilità presenti in una situazione storica, Warburg portò il suo metodo al più grande successo. Lo storico dell’arte dovette abbandonare le astrazioni della Geistesgeschichte e concentrarsi sui singoli individui e sulle singole immagini.

Fedele a quanto aveva appreso da Lamprecht e Usener, Warburg considerò tutte le forme di rappresentazione figurativa come riflessi di immagini mentali (Vorstellungen), attraverso il medium della pittura, dell’arte decorativa e delle feste.

In un’immagine di Venere quel che importava in ultima istanza era il modo in cui qualcuno — il committente o l’artista — aveva immaginato le antiche divinità.

Poteva accettare, e spesso lo faceva, l’idea che la tradizione avesse stabilito determinate forme per determinate immagini mentali, ma poi poteva andare anche a cercare, entro la tradizione, la rappresentazione più adeguata, più rispondente, più elevata della dea dell’amore. Anche qui dunque il problema dello “stile” non entra in gioco.

Sintomatica è per lui la trasformazione dell’immagine come tale, non del suo contenuto o della sua forma. Talora, come abbiamo visto, Warburg arriva quasi a dotare queste immagini di una vita propria, ed è quasi tentato di scrivere una specie di biografia di esseri mitici come Perseo, o di figurazioni espressive come la divinità fluviale sdraiata, che ricorrevano nella mente degli uomini e, attraverso la mano degli artisti, potevano esprimere sublimazione o degradazione.

Abbiamo anche visto che non è sempre facile dire con certezza fin dove arrivi la metafora della sopravvivenza e dove invece inizi, per Warburg, la fede in una autonoma vita psichica di tali entità.

Qui è forse legittimo rifarsi al giudizio sul valore della sua ricerca che lo stesso Warburg aveva anticipato. Attraverso l’interesse alla continuità di determinate immagini, egli apriva un’area interamente nuova di studi.

Proprio perché era convinto che la vita degli “dèi in esilio” (per usare un’espressione di Heinrich Heine) avesse importanza, e un’importanza vitale, egli mandò Fritz Saxl a Roma e a Vienna a catalogare i manoscritti miniati di carattere astrologico e mitologico, inaugurando così un intero settore di ricerche rivolto allo studio delle immagini delle antiche divinità nel contesto dell’astrologia e della mitografia.

Gli incroci culturali e le filiazioni che Saxl riuscì a mostrare nelle introduzioni che scrisse per questi cataloghi risultarono così interessanti di per sé da giustificare pienamente la continuazione dell’impresa e l’estensione della ricerca alle immagini mitologiche; si venne così sviluppando una nuova branca di studi iconografici, appunto sulla presenza delle divinità antiche nelle rappresentazioni astrologiche, mitografiche e allegoriche.

A Saxl era capitato, durante l’assenza di Warburg, di dover spiegare e interpretare gli scopi e gli interessi della ricerca del maestro agli studiosi che erano venuti a visitare la nuova Biblioteca ed erano rimasti affascinati dall’ampiezza e dall’originalità con cui era stata allestita.

Come introduzione alla prima serie di queste conferenze pubbliche, che furono tenute nel 1922 alla Biblioteca stessa, Saxl fece un discorso programmatico su La Biblioteca Warburg e il suo obiettivo, in cui collocò l’opera di Warburg nella tradizione risalente a Burckhardt, Usener e Nietzsche.

Nello stesso anno Saxl pubblicò anche, nel “Repertorium für Kunstwissenschaft”, un lungo saggio, dal titolo Rinascimento dell’antichità, in cui per la prima volta presentava un quadro d’insieme dell’attività di Warburg, dal saggio su Botticelli allo studio su Lutero.

Va notato che egli aggiunse qui, agli esempi di Warburg, molte osservazioni sue proprie allo scopo di illustrare, puntellare e mostrare nelle loro applicazioni le idee dell’anziano maestro. Si deve soprattutto a questo saggio se il nome di Warburg entrò nella notorietà.

Warburg ebbe certo la fortuna di avvicinare alla sua ricerca anche un altro importante studioso, che poi divenne un suo devoto seguace, e cioè Erwin Panofsky.

Questi era venuto alla neonata università di Amburgo in qualità di Privatdozent, durante l’assenza di Warburg, ma sembra che lo avesse conosciuto fin dal congresso di Roma del 1912.

Dopo aver conseguito il dottorato con una dissertazione sulla Teoria dell’arte di Dürer, le sue ricerche lo avrebbero ben presto portato in contatto con l’opera di Warburg.

Ma fu forse un evento casuale a rendere più stretta la loro collaborazione. Lo storico viennese dell’arte Karl Giehlow aveva lasciato incompleto un testo sulla Melancolia di Dürer, e il suo editore si era rivolto a Warburg perché lo completasse.

Warburg però era malato, e la cosa più naturale fu che Saxl chiedesse a Panofsky, che era uno specialista di Dürer, di unirsi all’impresa, che doveva dar prova della vitalità dell’iconologia warburghiana in un settore che senza dubbio avrebbe suscitato interesse.

La monografia che essi realizzarono si distingue dai tentativi precedenti di interpretare iconograficamente l’incisione di Dürer, proprio per l’attenzione rivolta alla tradizione di determinate immagini, alla raffigurazione della Geometria e dei figli di Saturno, nonché alle visualizzazioni del temperamento malinconico.

Facendo vedere come Dürer si fosse contrapposto a queste tradizioni espressive, per esprimere una concezione nuova di tale condizione di spirito, gli autori mostravano in atto il nuovo metodo. La successiva monografia di Panofsky, Ercole al bivio, avrebbe confermato la flessibilità e la fecondità di questo approccio che indaga la storia di un tema nelle sue trasformazioni, sulla scorta di quanto queste rivelano delle vedute di un determinato milieu o di un determinato artista.

Non c’è dubbio che tale metodo, in mani meno esperte, potesse ridursi alla pura e semplice storia di un tema artistico, il che spiega, anche se non giustifica, come il ruolo che Warburg ha avuto nello sviluppo dei nostri studi abbia potuto essere frainteso.

Si tratterebbe di un fraintendimento di poco rilievo se frequentemente non si accompagnasse alla critica secondo cui Warburg e i suoi allievi erano interessati unicamente al contenuto e non agli aspetti propriamente artistici dell’opera.

Di nuovo non è difficile vedere come abbia potuto nascere una tale impressione. Infatti, anche se non è vero che Warburg fosse interessato solo ai contenuti, pur sempre egli considerava come documento culturale l’immagine visiva, piuttosto che l’opera d’arte.

Tallora, come abbiamo visto, sembrava far poca differenza tra il disegno di un francobollo e un grande dipinto. Questo non vuol necessariamente dire che egli fosse insensibile alla forma artistica.

Warburg apprezzò Piero della Francesca prima che questo maestro diventasse di moda, e una volta che poté disporre di una somma per acquistare un’opera d’arte sorprese i suoi ammiratori comprando un dipinto di Franz Marc.

Ma il punto decisivo è che per Warburg anche lo stile era e restava una questione di scelta e come tale un sintomo dell’atteggiamento morale. Nel metodo “stilistico” egli sospettava si accompagnasse inevitabilmente un elemento di conformismo.

L’atteggiamento di Warburg viene chiaramente in luce negli appunti per un breve discorso che egli aveva preparato nel marzo 1918, in occasione dell’inaugurazione di un dipinto murale dell’amico Willi von Beckerath (1886–1938) per la Kunstgewerbeschule di Amburgo. Warburg loda l’amico proprio per il suo rifiuto di allinearsi con i tempi.

“Willi von Beckerath ha osato seguire la propria coscienza artistica e andare controcorrente, scegliendo un argomento allegorico e un linguaggio formale che mira a una chiara armonia nei contorni e nei colori. Senza dubbio, per esprimerci nel modo corrente, non è un “moderno.
Altri inseguano pure diversi ideali stilistici; importa solo che il linguaggio formale prescelto sia adatto a realizzare pienamente le immagini del mondo interiore dell’artista.
Perciò, coloro che considerano il meccanismo di registrazione storico-artistico, con le sue etichette per le tendenze generali (“moderno”, “gotico” o “impressionista”) ancora solo come un mezzo accessorio — per quanto giustificabile — , possono vedere in una tale resistenza nei confronti della moda del giorno una ragione di più per sforzarsi, con tanta maggiore serietà, di entrare nello spirito dell’opera dell’artista.
A parte il piacere che possiamo ricavare dalla sua capacità, un artista che istintivamente ci convince di essere riuscito a trovare lo stile adeguato a comunicare le sue immagini interiori — si chiami Albrecht Dürer o Franz Marc — , ci aiuterà nel nostro stesso tentativo di afferrare l’idea delle cose nella “evanescenza delle loro manifestazioni”.

Il corpo insegnante e gli studenti di questo istituto non hanno bisogno delle mie parole per sapere cosa significhi per loro il fatto che la combinazione tra una pura coscienza artistica e una tecnica magistrale abbia creato qui, nel loro salone, un’atmosfera che chiede, per essere colta, l’abbandono della quotidianità.

Ma anche noi, che non apparteniamo a questa scuola, possiamo congratularci e sperare di essere ammessi, almeno come spettatori, a condividere questa ascesa verso le regioni più luminose; l’artista e l’amico dell’arte si incontrano infatti nella comunità di coloro che si orientano verso la luce…”

Per quanto qui il linguaggio possa dipendere dall’occasione, tuttavia può servire a ricordarci un’ultima volta il punto cruciale del metodo warburghiano, e cioè non solo il suo rifarsi a modelli del passato ma il suo deciso rifiuto della moda.

Aveva cominciato fin da subito ad opporsi al clima morale fin de siècle, che si esprimeva nel movimento estetizzante e nel culto dell’artista come superuomo. L’interesse per la psicologia sociale e la fiducia nella forza dell’ambiente lo rendevano insofferente verso ogni tentativo di considerare l’opera d’arte isolata dal suo milieu. Ma egli poi non apprezzava quell’opera che era il prodotto dell’ambiente, bensì quella che implicava una scelta etica.

A questo riguardo si può dire che Warburg non ha ancora avuto continuatori e che il suo messaggio non è mai stato assimilato dalla storia dell’arte.

Abbiamo certo avuto molti altri apprezzamenti delle “rivoluzioni” artistiche, ma queste tanto celebrate rivoluzioni non erano altro che varianti elaborate del modello hegeliano.

Il modo in cui Warburg ha vissuto le scelte operate dagli artisti del passato è stato meno semplice e meno ottimistico.

Egli ha esplicitamente rifiutato l’interpretazione “unilineare” della storia dell’arte e ha mirato alla comprensione dei campi di forza complessi che costituiscono un “periodo”.

Per descrivere tali tensioni, ha dovuto ovviamente prendere a modello la propria esperienza dell’ambiente, e di conseguenza può darsi che abbia frainteso il senso delle scelte e la risonanza delle immagini che voleva spiegare.

Ma non per questo gli può essere negato il merito di aver percepito e di avere espresso quanto ogni spostamento nel campo dell’arte o della moda sia carico di significati sociali e morali.

Le vesti sciolte della “Ninfa” impressionarono i contemporanei di Lorenzo de’ Medici al modo stesso in cui l’ardito abbigliamento di Isadora Duncan colpì Warburg? Forse sì o forse no: in ogni caso, resta valida la sua convinzione che compito dello storico è quello di entrare in questo tipo di risonanza, al di là della descrizione dei cambiamenti stilistici.

Si ricorderà che, a un certo punto delle sue ricerche, Warburg si rivolse alle teorie linguistiche per dar conto dell’uso di un nuovo vocabolario da parte del Ghirlandaio. Per quanto poi egli non abbia sviluppato in modo sistematico tale spunto, una comparazione tra i due campi di studio ci può ancora aiutare a mettere in luce questo aspetto non sviluppato della sua eredità.

La linguistica si differenzia dalla poetica quanto l’iconologia si differenzia dall’estetica delle arti visive.

In linea di principio non c’è comunque ragione perché uno storico del linguaggio debba essere “avalutativo” e limitarsi a rintracciare le radici e le derivazioni delle parole, senza considerarne la rilevanza psicologica e sociale.

Un “pasto” non è un “pranzo”. La retorica antica aveva un’attenzione particolare a queste risonanze sociali nella scelta delle parole, le quali, naturalmente, cambiano a seconda del tempo e del milieu.

L’iconologia warburghiana punta a un’analoga sensibilità verso la scelta delle immagini. È un’intuizione che deve essere ancora messa in pratica e sviluppata.

Warburg, come abbiamo visto, non voleva essere neutrale in queste ricerche. Era partito infatti dalla convinzione che vi sono immagini buone e immagini triviali, così come, nel linguaggio, ci sono parole elevate e parole degradate.

Le perplessità successive di Warburg nascono in parte proprio dal fatto che il sistema coordinato di valori sembra modificarsi e oscillare, non appena si tenti di applicarlo all’universo culturale della Firenze di Lorenzo.

Come una parola “bassa” può lasciarsi preferire per la sua semplicità laddove un termine elevato può suonare falso, così la scelta linguistica di un artista è suscettibile di una quantità di interpretazioni mutevoli.

Le difficoltà che Warburg incontrò, e che a volte quasi ne paralizzarono la ricerca, ci indicano forse un’ambiguità nel suo approccio al vocabolario artistico, che continua a svolgere il suo ruolo.

Egli era consapevole dell’importanza del contesto, dei pericoli di inflazione espressiva e della rilevanza della scelta individuale entro un ambito di possibilità: ma noi sappiamo anche che non abbandonò mai l’idea che le immagini avessero un significato intrinseco e una carica emozionale determinata in grado di renderle autonome dal contesto.

Per mettere d’accordo questi punti di vista contraddittori, Warburg aveva appunto fatto ricorso alla nozione di polarità, cioè all’ipotesi che la forza dinamica della carica resta costante, mentre il suo senso può “invertirsi”. Tuttavia, questa interpretazione non lo soddisfece mai del tutto: essa non è ben fondata ed è difficile da articolare, dato che l’idea di “senso opposto” è molto meno precisa di quel che sembri a prima vista.

Forse a causa appunto di questa nascosta difficoltà tale aspetto degli interessi di Warburg è stato relativamente trascurato.

Il termine Pathosformel è stato certamente accolto e adoperato, talora un po’ genericamente, per indicare l’ininterrotta validità di determinati gesti passionali e di determinate forme. Ma l’attenzione, più che al problema della sopravvivenza di tali “formule” di movimento o di figurazione nella storia dell’arte, è stata rivolta all’interesse warburghiano per la sopravvivenza delle divinità e dei dèmoni antichi.

Sarebbe certo possibile fare una catalogazione di figure sdraiate o in corsa molto più ampia di quella che Warburg ha cercato di costruire, ma una tale operazione potrebbe chiaramente diventare altrettanto meccanica di una pura e semplice storia dei temi mitologici.

In ogni caso, l’atteggiamento di Warburg verso la storia dell’arte non era questo. Tra lui e i suoi contemporanei, come Adolph Goldschmidt o Max J. Friedländer, c’è a tale proposito una differenza sostanziale. Come infatti abbiamo visto, egli talora si richiama a John Ruskin, il quale pure considerava l’arte come espressione dei problemi fondamentali dell’uomo.

Anche su questo punto la posizione di Warburg è stata a volte fraintesa. Nei primi anni egli era stato un outsider, e solo dopo la prima guerra mondiale, quando diviene di moda in Germania sottolineare l’aspetto notturno della vita, l’irrazionalità dell’uomo e il predominio culturale delle sopravvivenze primitive, la sua opera poté porsi al centro dell’interesse generale.

Parlando di questa moda degli anni Venti in un suo acuto saggio, Thomas Mann ha definito eccezionale la posizione di Freud il quale conosceva il lato oscuro della psiche ma si schierava dalla parte della ragione.1

La stessa cosa si può senz’altro dire di Warburg. Anch’egli, come Freud, non era un ottimista: non era sicuro che la ragione potesse avere una vittoria definitiva sulla sragione, ma considerava suo compito — talora, forse, ingenuamente sopravvalutando le sue capacità — l’esser presente nella lotta per il rischiaramento, proprio perché conosceva la forza del campo opposto.

Se egli contrastò le tendenze modernistiche in letteratura e in arte, ciò si deve in parte al fatto che rifiutò — fin dal principio — ogni relativismo etico.

In una lettera del 1896 all’amico Mesnil, aveva così commentato il romanzo L’innocente di D’Annunzio:

“Non permetto che mi si trascini attraverso l’Inferno se non a colui che confido sappia anche portarmi attraverso il Purgatorio fino al Paradiso. Ma proprio di ciò difettano i moderni. Non dico un Paradiso dove tutti cantino salmi avvolti in bianche tuniche e privi di genitali, dove le care pecorelle si aggirino in compagnia di bei leoni fulvi senza desideri carnali — ma disprezzo chi perde di vista l’ideale dell’homo victor.
(26 giugno 1896)

Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana.

E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento. La storia delle credenze irrazionali è stata da sempre dominio sia di irrazionalisti che condividevano le superstizioni che studiavano, sia di autori satirici alla Voltaire bramosi di mettere a nudo le follie umane.

Qui c’era, invece, un appassionato studioso di credenze astrologiche che voleva spiegare quanto avesse agito sulla cultura tale “pseudo-logica”, e al tempo stesso rendere omaggio alle forze liberatrici che avevano messo alle strette questo residuo di sragione pagana. E proprio il fatto che egli si servisse, per dimostrare ciò, anche di immagini di opere d’arte famose, fece capire bene al pubblico che le immagini del passato avevano molto più da dire di quanto il superficiale estetismo fosse stato capace di ricavare.

Warburg aveva avvertito questo crescente malaise tra gli storici dell’arte, ciò che facilitava una reazione positiva al proprio messaggio. In un’altra lettera a Mesnil, quando era ormai vicino alla fine della sua vita, scrive:

“Sino a che la storia dell’arte mostrerà… di riuscire a vedere nell’arte solo le poche dimensioni che ha preso in esame in passato, la nostra attività susciterà l’interesse degli specialisti e del pubblico.”
(18 agosto 1927)

Le pubblicazioni di Warburg e quelle dell’Istituto curate da Fritz Saxl ebbero sicuramente un ruolo nel richiamare l’attenzione sulla possibilità di studiare queste molteplici dimensioni. Ma quel che risultava convincente era soprattutto lo strumento di ricerca che Warburg si era costruito, e cioè la Biblioteca.

Per quanto soggettivamente Warburg abbia reagito a determinate immagini, per quanto profondamente la sua psicologia della cultura fosse radicata nell’evoluzionismo e nell’associazionismo ottocenteschi, pure egli lavorò senza tregua per dar modo di oltrepassare i suoi stessi limiti, riunendo e ordinando i libri che avrebbero permesso agli studiosi di rispondere alle nuove questioni che egli aveva sollevato con le sue ricerche.

La vera misura del suo genio è data proprio dalla creazione di questa Biblioteca, che continua a funzionare anche se le idee di coloro che vi lavorano non possono più essere quelle del fondatore.

Infatti, nell’organizzazione della Biblioteca, aveva trovato espressione, in modo più vitale e convincente di quanto sarebbe risultato con formulazioni teoriche, quella originale visione di una unitaria Kulturwissenschaft che aveva affascinato il giovane studente di Usener e di Lamprecht, e che poi Warburg aveva sempre sperato di tradurre in una grande opera.

Per quanto, di fronte alle esigenze poste da nuovi problemi e da nuovi progetti di ricerca, la disposizione dei libri possa essere stata modificata, la Biblioteca continua a trasmettere questo messaggio in un’epoca di crescente specializzazione, in cui l’industria della cultura scientifica è ormai quasi automatizzata.

Qualunque sia il motivo che lo spinge alla Biblioteca, basterà al visitatore aggirarsi tra gli scaffali per osservare che qui la psicologia, al di là di ogni teoria particolare, è ancora considerata in diretta connessione con le questioni espressive e simboliche, le quali, a loro volta, possono condurre allo studio antropologico dei rituali.

Da qui il visitatore passerà con altrettanta naturalezza ai libri sulle feste e sul teatro, quindi alla storia del diritto e a quella politico-sociale. In ogni sezione della Biblioteca è ancora riflessa l’idea originaria di Warburg: che le reazioni dell’uomo primitivo mediante il linguaggio e le immagini possono portare a quello che egli chiamò “orientamento” nella religione, nella scienza o nella filosofia, oppure degradarsi nella magia o nella superstizione; e che lo storico della letteratura e dell’arte deve riflettere su tali risposte linguistiche e figurative, e non farsi intimorire da alcuna “polizia di frontiera” nell’attraversamento dei confini tradizionali che limitano i “campi scientifici”.

Anche coloro che conoscono il problema di Warburg solo nella sua formulazione corrente di “storia della tradizione classica”, potranno qui rendersi conto che la cultura occidentale è una, e non può essere ritagliata secondo gli interessi disciplinari.

Ciò che Warburg istituì poteva perdere il suo richiamo se egli non avesse trovato allievi e continuatori che ne adattassero le idee ai bisogni delle successive generazioni di studiosi.

Fu Fritz Saxl, innanzi tutto, con l’aiuto di Gertrud Bing e degli altri vecchi collaboratori, a tradurre in realtà l’idea che Warburg aveva avuto di un tale strumento.

Tratto da: Ernst H. Gombrich, Aby Warburg. Una biografia Intellettuale. Prefazione di Katia Mazzucco, Traduzione di Alessandro Dal Lago e Pier Aldo Rovatti, Feltrinelli, Milano 2003, pp. 261–276

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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