Il mio incontro con la psicoanalisi
di Bruno Bettelheim
Settant’anni fa, quando la psicoanalisi era appena nata, l’incontro con essa tendeva ad avvenire in modo ben diverso da come avviene comunemente oggi. Di solito si trattava di qualcosa di molto personale, più che della scelta di un corso di studi.
Io, per esempio, all’inizio non mi accostai alla psicoanalisi in considerazione delle sue potenzialità terapeutiche, né perché spinto da curiosità intellettuale, e neppure perché rientrasse nel mio curriculum scolastico.
E non mi sfiorò nemmeno lontanamente il pensiero che potesse diventare la mia professione. Anche se poi finì per costituire davvero la componente più importante della mia vita intellettuale e professionale, questo esito fu in realtà puramente casuale, il risultato di esperienze squisitamente personali.
Nella primavera del 1917, quando avevo tredici anni e la Prima guerra mondiale durava da tre, entrai a far parte di un movimento giovanile viennese chiamato Jung-Wandervogel, che si ispirava a ideali socialisti e pacifisti.
Il gruppo aveva premesso al suo nome l’aggettivo “giovane” per sottolineare la differenza con l’omonimo movimento tedesco di prima della guerra, che aveva avuto un carattere marcatamente nazionalistico e patriottico.
Eravamo un gruppo abbastanza piccolo, da una cinquantina a un centinaio di adolescenti. Un momento importante delle nostre attività in quegli anni di guerra erano le periodiche uscite domenicali nei Boschi viennesi, escursioni che erano occasioni sia di svago sia di discussione di idee rivoluzionarie sulla politica e sui rapporti umani, compresi quelli familiari.
E dalla discussione teorica di quelle che a noi sembravano idee nuove sui rapporti, alla formazione di legami sentimentali, la cui natura analizzavamo così appassionatamente, il passo era breve.
In quel contesto nacque il mio primo legame adolescenziale con una ragazza della mia età. Tutto sembrava andare nel migliore dei modi, finché, una certa domenica, si unì al nostro gruppo un giovane in divisa, solo di poco maggiore di noi, a nome Otto Fenichel.
Otto era già stato un membro di rilievo del gruppo prima di essere chiamato a prestare il servizio militare, e ora aveva ottenuto l’esenzione dal servizio attivo per completare gli studi di medicina. Con mia grande costernazione, il nuovo venuto diresse tutte le sue attenzioni proprio su quella che io consideravo la mia ragazza.
In quel periodo Otto seguiva le lezioni di Freud all’Università di Vienna. Erano le lezioni che sotto il titolo di Introduzione alla psicoanalisi dovevano poi conseguire notorietà mondiale. Le conferenze di Freud avevano affascinato Otto, il quale non solo era esaltato da quelle arcane dottrine, ma, come molti neoconvertiti, si sentiva anche in dovere di propagandarle.
Nella nostra cerchia, sempre pronta ad accogliere le idee più nuove e rivoluzionarie, avevamo orecchiato qualcosa delle teorie freudiane, ma in realtà non ne sapevamo nulla di preciso. Perciò le cose che Otto ci raccontava delle lezioni di Freud erano per noi una novità.
Più che altro Otto ci interrogava sui nostri sogni, cercando di interpretarli, con particolare riguardo al loro significato sessuale: un argomento quanto mai allettante per i suoi giovani ascoltatori, soprattutto considerato l’atteggiamento ambivalente nei confronti del sesso, tipico a quei tempi di tutto il movimento giovanile.
Decisi a rifiutare quelli che consideravamo i soffocanti pregiudizi borghesi propri della generazione dei nostri genitori, dove riguardo al sesso vigeva la doppia morale, in teoria eravamo convinti sostenitori della libertà sessuale. In pratica, rimuovevamo le nostre pulsioni sessuali, raccontandoci di stare in tal modo seguendo i principi di una moralità superiore, ma in realtà nascondendoci le nostre angosce al riguardo.
Poiché avevamo un atteggiamento così ambivalente nei confronti del sesso, le cose che Otto ci diceva delle idee di Freud sulla sessualità e sul suo ruolo determinante nella vita dell’uomo ci esaltavano e insieme ci lasciavano turbati.
Io, in particolare, rimasi molto turbato quando mi accorsi che quella che consideravo “la mia ragazza” dava segni evidenti di interesse non solo per ciò che Otto aveva da dire, ma anche per la sua persona.
Più lei pendeva dalle sue labbra, più io diventavo furibondo, sentendomi miseramente surclassato dalle nuove esaltanti nozioni che il giovane studente di medicina ci andava elargendo. E, siccome il mio narcisismo mi impediva di pensare che Otto potesse essere più interessante di me agli occhi di quella ragazza, attribuivo il suo successo alla sua conoscenza della psicoanalisi, che, non occorre dirlo, verso sera già odiavo e disprezzavo con tutte le mie forze.
Era stata la psicoanalisi, secondo me, che mi aveva alienato la mia ragazza, facendole rivolgere le sue simpatie al mio rivale. Con questi sentimenti ci separammo, al termine di quella domenica che per me si sarebbe rivelata fatale.
Quella notte, la rabbia e il disprezzo che provavo per la psicoanalisi mi impedirono di prendere sonno, finché, verso mattina, mi venne in mente la soluzione al mio problema. Decisi che, se Otto F., come lo chiamavamo nel nostro gruppo, aveva potuto conquistare la mia amica con i suoi discorsi psicoanalitici, io potevo batterlo sul suo stesso terreno e riconquistarmi la mia ragazza con lo stesso metodo. Bastava che diventassi un esperto di psicoanalisi: ecco che cosa avrei fatto. Una volta raggiunta questa decisione, riuscii finalmente a prendere sonno.
Il lunedì, subito dopo la scuola, mi recai nell’unica libreria di Vienna che teneva pubblicazioni psicoanalitiche, in quanto ne era anche la casa editrice, e acquistai tutte quelle che le mie finanze mi permettevano di acquistare: delle monografie e gli ultimi numeri di alcune riviste di psicoanalisi; e mi misi immediatamente a leggerle.
Più andavo avanti nella lettura, più ero colpito dalle cose che leggevo. Ben presto mi resi conto che i miei familiari, con le loro idee vittoriane, sarebbero rimasti scandalizzati se mi avessero sorpreso a leggere pubblicazioni oscene come quelle.
Decisi perciò di tenerle nascoste portandomele a scuola, dove le avrei lette clandestinamente durante le ore di lezione, fingendo di essere assorto nei miei studi, che al confronto mi parevano ora una noia mortale.
Le opere che più mi colpirono furono Psicopatologia della vita quotidiana, Il motto di spirito e, dato il mio interesse per l’arte, i saggi su Leonardo e sul Mosè di Michelangelo. I primi due libri citati sono tuttora tra i più accessibili, fui perciò fortunato a comprare proprio quelli.
Non avevo invece L’interpretazione dei sogni, non so più se perché il libro fosse in ristampa o perché troppo costoso per i miei mezzi. Comunque, più leggevo Freud, più aumentava il mio interesse e più mi convincevo che attraverso quelle letture mi si apriva un mondo di conoscenze sulla psiche umana impreveduto e di grande importanza.
Ecco: questo fu il mio incontro con Freud e con la psicoanalisi. Pur odiandola con tutto l’odio di cui ero capace, perché la consideravo responsabile della perdita della mia ragazza, al tempo stesso ero assolutamente affascinato dai suoi insegnamenti e sicuro che attraverso di essi sarei riuscito a riconquistarla.
Non so se questo miscuglio di sentimenti si possa definire fede nel valore pratico della psicoanalisi, ma è certo che in quella settimana, che segnò la mia conversione, credetti fermamente nel suo potere di farmi conseguire quello che allora mi pareva il fine più desiderabile. Dunque, all’origine del processo che avrebbe reso la psicoanalisi un elemento imprescindibile della mia vita stanno un grande odio e contemporaneamente una grande fede nei suoi straordinari poteri.
Oggi sono convinto che l’essere arrivato alla psicoanalisi per una via così personale, con un coinvolgimento emotivo così intenso e insieme così ambivalente, abbia rappresentato un inizio quanto mai favorevole.
Per concludere questa parte della mia storia, devo aggiungere che ci fu un lieto fine su tutti i fronti, non solo riguardo al fatto che la psicoanalisi divenne a poco a poco la vocazione della mia vita. La domenica successiva, io e la mia ragazza andammo nuovamente con il nostro gruppo nei Boschi viennesi. Non appena incominciai a sciorinare le mie nuove nozioni psicoanalitiche, la mia amica mi interruppe dicendomi che quell’argomento era stato interessante per una domenica, ma ora era meglio che parlassimo di noi.
Con mio grande sollievo mi assicurò che, pur trovando molto interessanti le cose che Otto diceva, neppure per un istante quell’interesse si era esteso alla sua persona o aveva fatto vacillare il suo affetto per me.
Dunque, per quanto riguardava il mio rapporto con quella ragazza, non c’era motivo perché continuassi a interessarmi di psicoanalisi. Ma ormai l’incantesimo era scattato. Una sola settimana di immersione totale, ed eccomi conquistato per la vita.
Di lì a poco il reciproco interesse romantico tra me e la ragazza svanì, anche se rimanemmo buoni amici per tutta la vita. Ho raccontato questa storia anche per mettere in luce i diversi esiti del nostro diverso approccio alla psicoanalisi. Poiché l’interesse della mia amica era stato di tipo teorico e in un certo senso astratto, non mise radici e non svolse un ruolo significativo nella sua vita.
Il mio interesse invece era stato tutt’altro che teorico, ma anzi quanto mai personale ed emotivo, ed era accompagnato dalla cieca convinzione che la psicoanalisi potesse modificare radicalmente la vita di una persona. E così fu, infatti, per me.
A quanto mi risulta, i pionieri della psicoanalisi vi si accostarono per strade diverse dalla mia, ma sempre altrettanto personali e condizionate da una forte emozione, e fu sotto la loro influenza che la psicoanalisi fiorì e si affermò. Quasi nessuno di quei primi psicoanalisti si accostò alla dottrina freudiana con il progetto di farne la propria professione e nessuno di essi fruì di un training formale, a parte la propria analisi personale.
Fu sempre una questione di esperienza estremamente individuale, non di formazione teorica. Oggi, chi desidera diventare psicoanalista deve seguire un particolare corso di studi, e gran parte dell’intensità e dell’esaltazione fortemente personali è andata perduta; la psicoanalisi è diventata una disciplina istituzionalizzata.
Ho voluto scrivere questa breve nota biografica appunto per mettere in luce questa differenza e le conseguenze che ne sono derivate sul piano della pratica terapeutica, oltre che su quello degli sviluppi teorici.
Una dozzina di anni dopo gli avvenimenti testé descritti, entrai a mia volta in analisi. Il mio interesse per la psicoanalisi non si era nel frattempo affievolito, ma ora mi aveva preso come un’insoddisfazione, più intensa di quanto coscientemente pensassi, per molti aspetti della mia vita, e volevo chiarirmi le idee sul mio futuro.
Il mio desiderio era di intraprendere la carriera accademica, ma a quei tempi in Austria un ebreo non poteva sperare di diventare professore universitario. All’università, all’inizio, avevo scelto lettere e germanistica, ma, trovando queste materie con gli anni sempre meno appassionanti, ero passato allo studio della filosofia e della storia dell’arte, discipline che trovavo più interessanti e soddisfacenti.
Ma il problema di che cosa fare nella vita rimaneva aperto, perché quel tipo di studi non sembrava offrire sbocchi professionali atti a garantirmi l’indipendenza economica.
Avrei potuto vivere con agio occupandomi dell’azienda di mio padre, ma trovavo quel lavoro noioso, per molti versi ostico e tutt’altro che congeniale. Benché alcuni dei miei amici più intimi fossero diventati psicoanalisti, io avevo esitato a seguire il loro esempio, un po’ perché non volevo scimmiottare nessuno, un po’ perché non mi sembrava che l’essere diventati psicoanalisti avesse granché risolto i loro problemi.
Oggi sono prontissimo ad ammettere che questo giudizio potesse essere dovuto a una mia resistenza, ma allora non me ne rendevo conto.
Insomma, le spinte che mi indussero a prendere in considerazione l’idea di sottopormi all’analisi riguardavano la mia vita intima: un senso di insoddisfazione per come vivevo e sentimenti di inferiorità e di depressione che, pur non essendo molto gravi, razionalmente sapevo privi di cause obiettive, e che dunque dovevano derivare dal mio inconscio. Ma, nonostante tutti questi fattori, alla fine fu una crisi della mia vita matrimoniale a convincermi a tentare con l’analisi, per vedere se poteva aiutarmi.
Il fatto di avere tanti amici nel piccolo gruppo degli analisti viennesi più giovani si rivelò un ostacolo, perché era più difficile trovarne uno con il quale non avessi legami di amicizia. Uno comunque cera, il dottor Richard Sterba, che mi era stato raccomandato da un amico analista di cui mi fidavo. Sicché, non senza esitazioni, fissai un appuntamento per discutere la cosa con lui.
All’epoca, a Vienna, l’uso era che il primo incontro con il futuro analista fosse un normale colloquio in cui venivano discusse questioni pratiche, come l’orario delle sedute giornaliere, l’onorario e tutti gli altri particolari. Se veniva deciso di iniziare l’analisi, subito la volta successiva ci si sdraiava sul divano abbandonandosi alle libere associazioni, con l’analista seduto dietro, in una situazione formale.
Durante il primo incontro, dopo aver parlato dell’orario delle sedute e dell’onorario, esternai al dottor Sterba i miei dubbi sull’opportunità di un’analisi. Per prima cosa gli chiesi se, secondo lui, ne avessi veramente bisogno.
La sua risposta fu che, per il momento, non ne aveva la minima idea; avrebbe potuto dirmelo in capo a un anno, o forse due, ma a quel punto l’avrei capito io stesso e non ci sarebbe stato bisogno che me lo dicesse lui. Questa risposta non servì certo a rassicurarmi, perciò di lì a poco gli domandai nuovamente se l’analisi mi sarebbe stata utile, ottenendo più o meno la stessa risposta di prima: per il momento non poteva saperlo, né l’avrebbe saputo prima che lo capissi io stesso.
Poiché i miei dubbi rimanevano intatti, alla fine, quasi per disperazione, gli chiesi di suggerirmi un motivo per cui sarei potuto entrare in analisi. Il dottor Sterba rispose che, da quanto aveva capito, mi interessavo da anni di psicoanalisi. In considerazione di ciò, l’unica promessa che si sentiva di farmi era che avrei trovato quell’esperienza di grande interesse, perché avrei scoperto delle cose nuove su di me e questo mi avrebbe permesso di capire meglio me stesso e molti aspetti della mia vita e del mio comportamento.
Visto che non mi mancavano il tempo e il denaro necessari, perché non cercare di scoprire qualcosa di più su me stesso, attraverso l’analisi?
A quel punto compresi di avere a che fare con un uomo del quale potevo fidarmi, perché non faceva promesse che non fosse sicuro di poter mantenere, e questo anche se, me ne rendevo conto, era nel suo interesse prendermi come paziente. La sua onestà mi convinse ad affidarmi a lui.
Recentemente fui invitato a tenere un discorso in onore del dottor Sterba per il suo novantesimo compleanno e incominciai descrivendo appunto il nostro primo incontro. Il dottor Sterba mi disse poi di non ricordare affatto l’episodio, come del resto mi aspettavo; non ricordava di avermi detto quelle cose perché gli erano venute naturali; per lui il nostro dialogo non aveva nulla di memorabile.
Ma per me sì: il suo rifiuto di fare vane promesse, per quanto io desiderassi riceverne, mi aveva indotto a fidarmi di lui e della sua abilità di psicoanalista, cosa di cui non ebbi mai a pentirmi, perché cambiò in meglio la mia vita.
Troppo spesso oggi gli psicoanalisti, pur con le migliori intenzioni, danno ai pazienti l’impressione di possedere una conoscenza superiore riguardo a ciò che li affligge e alle sue cause. A volte cedono persino alla tentazione di garantire ai pazienti certi risultati. Vale a dire che, in sostanza, adottano il classico modello della medicina, per cui il medico conosce cose che il paziente non sa e quindi può, anzi deve, dirgli che cosa fare.
Furono il deciso rifiuto del mio analista a seguire questo modello, la sua ripetuta ammissione di non sapere come sarebbe proceduta la mia analisi e quali risultati avrebbe sortito, la dichiarazione che, se pure avesse scoperto cose importanti su di me, non le avrebbe certo scoperte prima che le capissi io stesso: furono queste cose a collocare ai miei occhi la psicoanalisi in una prospettiva del tutto diversa e più umana.
Perché, con il suo atteggiamento, il dottor Sterba mi aveva fatto capire che l’analisi non era qualcosa che egli unilateralmente avrebbe fatto a me o per me, bensì un’impresa in comune, nella quale la partecipazione di entrambi era sempre in gioco; eravamo due esseri umani sul punto di impegnarci in un viaggio di esplorazione di grande interesse per entrambi.
È vero, non eravamo realmente alla pari in quell’impresa, dato che, come non mancò di farmi notare, egli possedeva conoscenze psicoanalitiche superiori alle mie e soprattutto maggiore abilità ed esperienza. (D’altro canto, perché altrimenti mi sarei rivolto a lui?)
Ma eravamo alla pari per quanto riguardava l’impegno a scoprire cose significative su di me. E questo per me era molto rassicurante, perché alleviava la paura di essere manipolato a mia insaputa, senza avere la facoltà di influire sul processo, di indirizzarlo o di impedirlo.
Forse l’idea popolare dello psicoanalista come “strizzacervelli’’ è quella che mette meglio in luce la differenza tra come vengono fatte le cose oggi in America e come venivano fatte allora a Vienna.
La ragione per cui questa immagine dello strizzacervelli è così comunemente accettata (benché la si consideri un’immagine umoristica, che serve a ridimensionare la figura dello psicoanalista) sta nel fatto a mio avviso, che rappresenta la reazione del paziente alla convinzione da parte dell’analista di essere superiore a lui. L’idea stessa di strizzacervelli implica chiaramente che il terapeuta fa al paziente quello che ha deciso sia necessario fare per il suo bene (ecco, una volta di più, il modello medico).
Non sto dicendo che gli analisti odierni usino con i loro pazienti un approccio diverso da quello usato dal mio analista con me per un difetto di umanità e di onestà. Ritengo, semmai, che il loro atteggiamento non faccia che riflettere l’istituzionalizzazione della psicoanalisi intesa come specialità terapeutica altamente qualificata, e che dipenda da certe rigidità derivanti dal prolungato, faticoso e complicato training che gli istituti psicoanalitici richiedono ai candidati.
Va tenuto presente che a Vienna, anche se gli psicoanalisti erano nella maggior parte dei medici, un grande numero dei più eminenti non lo era. Agli albori della psicoanalisi, gli analisti curavano i pazienti in casa propria, e non in uno studio, per sei sedute alla settimana, ogni giorno alla stessa ora precisa.
Così faceva Freud, e così del resto facevano quasi tutti gli altri medici viennesi. Altro elemento caratteristico: per il modo come era arredato, e specialmente per la collezione di reperti archeologici di cui era pieno, il gabinetto medico di Freud costituiva una testimonianza dei suoi interessi prevalenti e inoltre una chiara ed esplicita espressione della sua personalità. (Ne parlo più particolareggiatamente nel saggio Berggasse n° 19.)
Insomma, l’ambiente in cui alle origini aveva luogo l’analisi era un ambiente molto personalizzato, che rifletteva l’individualità e gli interessi del terapeuta, in netto contrasto con la situazione impersonale, quasi asettica, in cui la maggior parte degli psicoanalisti americani odierni preferisce operare.
Durante l’orario di lavoro, come sala d’aspetto per i pazienti veniva usato il soggiorno, cioè una stanza che, come il gabinetto medico, era parte integrante dell’ambiente domestico dell’analista.
Così era anche nel caso del mio, e, siccome sua moglie era una delle prime analiste infantili di Vienna, la stessa stanza era usata come sala d’aspetto dai pazienti di entrambi. Marito e moglie cercavano, sì, di fare in modo che i rispettivi pazienti non si incrociassero; ma se un paziente arrivava un po’ prima del previsto o un altro si fermava più a lungo, poteva succedere che le persone i cui orari coincidevano si incontrassero nella sala d’aspetto.
E benché questi incontri fossero imbarazzanti, la curiosità induceva a cercare di fare la reciproca conoscenza.
Più o meno alla stessa ora in cui avevo la seduta io, la moglie del mio analista aveva in cura un bambino psicotico, che in questa sede chiamerò Johnny. Dovevano passare molti anni prima che ai bambini venissero applicati specifici termini diagnostici, sicché all’epoca il disturbo di Johnny non aveva un nome.
I bambini come lui venivano definiti anormali e si cercava di aiutarli psicoanaliticamente, senza stare a preoccuparsi di eziologie e classificazioni. Il comportamento bizzarro ed estremamente chiuso di Johnny non invitava a scambi personali, tuttavia, quando di tanto in tanto ci incontravamo, io cercavo di dire qualche parola amichevole a quel bambino evidentemente terrorizzato, ma lui o non reagiva o rispondeva a monosillabi.
Sul davanzale della finestra c’era un vaso con una piccola pianta di cactus, secondo la moda del tempo, e Johnny aveva la sconcertante abitudine di strappare una di quelle foglie piene di aculei pungenti e di mettersela in bocca e masticarla. Le spine dovevano ferirgli le labbra, le gengive e la lingua, e infatti a volte gli vedevo la bocca sanguinare. Guardarlo farsi del male in quel modo non mancava mai di sconvolgermi, ma per molto tempo non manifestai nessuna reazione.
Un giorno, però, dopo circa due anni di analisi, non riuscii a trattenermi e, pur sapendo che facevo male, esclamai: “Johnny, non so da quanto tempo vai dalla dottoressa Sterba, ma saranno almeno due anni, perché da tanto ti vedo qui, e ancora ti metti a masticare quelle orribili foglie!”
Allora il ragazzetto, mingherlino com’era, tutta un tratto parve crescere di statura: ancor oggi non saprei spiegare come abbia potuto dare l’impressione di guardarmi dall’alto al basso; quindi rispose nel tono più sdegnoso: “Che cosa sono due anni di fronte allH’etemità?” Era la prima volta che lo sentivo pronunciare una frase completa, e mi lasciò senza parole.
Ero ancora disorientato dalla risposta di Johnny, quando il mio analista mi fece entrare nello studio. Come mi sdraiai sul divano, mi resi conto che le parole che avevo rivolto a Johnny non erano motivate, come avevo creduto nel dirle, da un’altruistica preoccupazione per il dolore che si stava infliggendo. Al contrario, era solo ed esclusivamente a me che avevo pensato.
Da qualche tempo, infatti, mi domandavo preoccupato che senso avesse continuare l’analisi. Perciò, per questa mia preoccupazione, vedere Johnny che masticava foglie di cactus mi aveva indotto a chiedermi se a lui l’analisi fosse servita e, per estensione, se la psicoanalisi servisse in generale a qualcosa. Ecco perché avevo formulato la mia osservazione in modo da insinuare che, da quando lo conoscevo, il bambino aveva compiuto ben scarsi progressi.
Inconsciamente avevo sperato che la risposta di Johnny mi confermasse che entrambi stavamo sprecando il nostro tempo, oppure mi convincesse che l’analisi gli era utile, a dispetto del fatto che continuava a mangiare foglie di cactus, con il sottinteso che, allora, anche a me la mia analisi era utile, benché non mi sembrasse di scorgere segnali positivi.
Queste silenziose riflessioni servirono a farmi finalmente superare la forte resistenza che mi impediva di esternare in seduta i miei dubbi sull’utilità della mia analisi, e da quel giorno incominciai ad analizzare che cosa si nascondesse dietro quei dubbi.
Non riuscivo però a togliermi di mente le parole di Johnny, anche perché mi sentivo in colpa per aver finto preoccupazione per lui, quando invece lo stavo egoisticamente strumentalizzando per risolvere un mio urgente problema, e perciò avevo cercato di mettere in dubbio il valore che l’analisi aveva per lui.
Johnny doveva aver capito intuitivamente i miei maneggi: che ero scontento per l’eccessiva lunghezza dell’analisi, o quella che a me pareva una lunghezza eccessiva, e che lo stavo usando per scaricare la mia insoddisfazione.
E mi rimise al mio posto, dicendomi, di fatto, che la mia valutazione del tempo era tutta sbagliata, che non valeva per il tipo di lavoro che l’analisi della propria psiche comporta. La sua intuizione gli aveva permesso di capire che, se volevo trarre il meglio dalla mia analisi, dovevo modificare la mia prospettiva temporale.
Fu grazie all’intuizione di Johnny e alla concisione con cui la espresse, che imparai a essere paziente, riguardo alla mia analisi dapprima, e in seguito riguardo al tempo di cui altri possono aver bisogno per ristrutturare la loro personalità.
Anzi, con quella sua frase lapidaria Johnny mi aveva insegnato molte altre cose, alcune che compresi immediatamente, altre che impiegai anni ad assimilare. Di solito è così che accade con le intuizioni, mentre il senso delle spiegazioni più esplicite può venir assimilato molto più in fretta, perché raramente arrivano a toccare il cuore dei nostri problemi individuali, come invece sanno fare certe frasi, frutto di un’intuizione.
Per esempio, in un lampo, Johnny mi aveva fatto capire come siamo inclini a credere che la molla dei nostri atti sia l’interesse per l’altro, invece che la concentrazione su noi stessi; e, inoltre, mi aveva fatto capire quante cose si possono imparare su di noi dagli altri, purché si accetti l’idea che ciò che l’altro dice o fa può rivelare delle cose non solo su chi parla, ma anche su noi stessi.
Questo l’avevo già appreso studiando la letteratura psicoanalitica, ma era rimasto per me un concetto astratto. Solo quando fu inserita in un’esperienza capace di turbarmi, la teoria divenne conoscenza personale, il che mi confermò come soltanto attraverso l’esperienza individuale si possa comprendere a fondo il vero senso della dottrina psicoanalitica.
Contemporaneamente, Johnny mi insegnò la differenza tra il tempo oggettivo e il tempo psicologico o esperienziale. Quando le sofferenze sono senza sbocco, e quindi ci sembrano eterne, allora due anni trascorsi cercando di sfuggirvi non sono che un istante.
Johnny, cioè, mi insegnò che l’entità della sofferenza altera il significato di tutte le esperienze, anche di quella del tempo, come dovetti sperimentare direttamente in seguito, durante l’anno trascorso nei due campi di concentramento nazisti.
L’osservazione di Johnny a proposito del tempo mi permise di capire che né io né nessun altro possiamo stabilire un limite alla quantità di tempo di cui una persona ha bisogno per imparare a far fronte alla vita o a modificarsi, e che ogni nostro tentativo di accelerare quel processo è in realtà motivato dalle nostre personali angosce. Solo l’interessato può giudicare quando è pronto per il cambiamento.
Quando, a poco a poco, grazie al lavoro presso la Sonia Shankman Orthogenic School dell’Università di Chicago, imparai a comprendere i bambini psicotici, ebbi modo di apprezzare sempre più l’importanza di questa lezione sul valore del tempo.
Solo quando lasciavo loro un tempo senza limiti, questi bambini riuscivano a convincersi che io stavo dalla loro parte e non contro di loro, come era sempre stato, nella loro percezione, il resto del mondo, che li pretendeva diversi da quello che erano.
Il fatto di incoraggiarli a procedere in base al loro personale senso del tempo serviva a dimostrare loro che, data l’esperienza che avevano del mondo, consideravamo le loro reazioni altrettanto valide per loro quanto le nostre per noi.
Le volte in cui incominciavo a diventare impaziente, dopo essere rimasto seduto in silenzio per ore, in attesa di riuscire a entrare in contatto con un bambino catatonico, mi bastava rammentare la risposta di Johnny.
Allora il tempo tornava a essere un fattore del tutto irrilevante, e in quel modo si ristabiliva il contatto con il paziente. Funzionava come una magia. Non appena smettevo di preoccuparmi perché il tempo passava senza che succedesse nulla, smettevo anche di avanzare pretese su di me e sul paziente e di desiderare che il suo silenzio cessasse.
Per tutta risposta, prima o poi, il paziente finiva per compiere qualche gesto significativo, che consentiva di comprendere meglio sia la sua esperienza del mondo sia l’elemento del mio modo di essere che gli aveva impedito di entrare in relazione.
Altri aspetti della lezione di Johnny richiesero più tempo per essere assimilati. A più riprese mi ero domandato come mai il bambino mi avesse parlato con tanta chiarezza e con una frase completa soltanto in quell’occasione. Poi, dopo aver lavorato con bambini psicotici per anni, arrivai a comprendere quale decisiva differenza comportassero, riguardo alla loro capacità di entrare in relazione con l’altro e alla loro immagine di sé, le mie motivazioni nel cercare di entrare in contatto con loro.
Se la motivazione era quella di “aiutarli’’, non riuscivo a suscitare alcuna risposta. Invece se, in tutta sincerità, desideravo essere illuminato su qualcosa di molto importante che loro sapevano e io no, allora reagivano.
Nel caso di Johnny, la mia convinzione che egli potesse fornirmi un’informazione (sull’utilità dell’analisi) che io non possedevo, ci aveva posti su un piano di parità che consentì a quel bambino totalmente isolato in se stesso di entrare in rapporto con me, almeno per il breve spazio della nostra interazione.
Il fatto che un elemento cruciale per la sua esperienza fosse tale anche per la mia aveva stabilito tra noi un legame di comune umanità. Mentre in tutti gli altri incontri non avevo mai considerato Johnny un mio pari, in quella particolare occasione lo avevo fatto, riconoscendo che, in quanto pazienti in analisi, le nostre esperienze erano parallele.
Fu questo che rese possibile tra noi una comunicazione significativa. I ripetuti contatti con altri psicotici mi insegnarono poi che questo modo di rapportarsi all’altro può essere esteso ad altre esperienze, fino a consentire lo stabilirsi di autentici rapporti personali.
Soltanto in quell’occasione avevo trattato Johnny come una persona in possesso di un sapere superiore al mio su una questione di importanza decisiva: serviva a qualcosa, la psicoanalisi?
In tutti gli altri incontri, mi ero sentito superiore a lui, ma quella volta inconsciamente speravo davvero che quel povero bambino matto potesse risolvere il mio più pressante problema. E su questo, puntualmente, Johnny aveva risposto.
Quando finalmente ebbi elaborato tutte queste cose, mi colpì che avessi dedicato così scarsa attenzione al fatto che Johnny, mentre parlava, si fosse tolto di bocca la foglia di cactus, cosa che non aveva mai fatto e non fece mai più, le volte che si degnava di rispondere con qualche monosillabo quasi impercettibile.
E non solo: finita la frase, aveva messo da parte la foglia, non aveva più sentito il bisogno di masticarla. Se avessi capito subito il comportamento di Johnny, avrei anche capito che quando una persona entra autenticamente in comunicazione con uno psicotico, questi non ha più bisogno dei suoi sintomi.
E questo avviene quando è lui a controllare l’interazione, come nel caso, appunto, di Johnny, che aveva un dato importante da comunicare, ma non su di sé (e questo è un errore che i terapeuti commettono spesso con i loro pazienti), bensì su quello che avveniva dentro di me.
La mia convinzione che Johnny sapesse qualcosa che io non sapevo su una questione di reale importanza gli diede, almeno temporaneamente, tanta sicurezza che, per la durata della nostra interazione, non ebbe bisogno del suo sintomo.
Il fatto che il trauma iniziale fosse stato per Johnny di tipo orale spiega la scelta del sintomo: ferirsi la bocca. Ma non avrei neppure dovuto aver bisogno di conoscere questo particolare, perché la scelta stessa del sintomo lo diceva chiaramente.
Venni poi a sapere che l’origine della sua sofferenza era stata una serie di esperienze traumatiche estreme, subite all’inizio della sua esistenza, quando non era in grado di gestirle.
Infliggendosi un analogo dolore, Johnny cercava non solo di cancellare le immagini mentali che lo torturavano, ma anche di convincersi di essere in grado di esercitare un controllo su una sofferenza di fronte alla quale, all’epoca in cui essa aveva distrutto la sua umanità, si era trovato totalmente impotente.
L’avessi capito già allora, Johnny mi avrebbe insegnato tutto quello che c’è da sapere sulle cause e sul significato dei comportamenti di automutilazione.
Studiare Freud mi aveva insegnato che si può autenticamente comprendere l’altro soltanto partendo dal suo schema di riferimento, e non già dal proprio. Come concetto teorico, l’avevo capito benissimo.
Ma è stato Johnny a insegnarmi come sia facile illudersi di avere assimilato un principio, finché non entrano in gioco intense emozioni personali. Ma, una volta che le emozioni si destano, diventa estremamente difficile non vedere le cose esclusivamente dalla propria prospettiva.
Osservando, con un intimo brivido, Johnny mangiare le foglie di cactus, mi ero sempre limitato a considerare quell’abitudine come un segno della sua follia, e non come l’indizio dei suoi bisogni più urgenti, come la loro espressione, non poi tanto simbolica.
Le esperienze successive mi fecero vergognare della mia prontezza a considerare strane o addirittura insensate queste manifestazioni, quando invece comunicano un significato profondo. Questo è un principio fondamentale per tutte le scienze sociali: è possibile capire il comportamento degli altri soltanto partendo dal loro schema di riferimento.
Sforzarci di non dimenticarlo è tanto più necessario quanto più i nostri personali bisogni ci inducono invece a rispondere all’altro in base alle reazioni che il suo comportamento suscita in noi.
Credevo di sapere, avendolo imparato se non da Freud, già prima, dal Humani nil a me alienum puto di Terenzio, che essere uomo nel senso più autentico del termine significa non sentirsi estraneo a nulla che attenga all’umanità. Eppure, ecco che avevo sentito estraneo a me il comportamento di Johnny.
Scoprire la mia insensibilità di fronte alla sua sofferenza, che mi aveva impedito di capire perché agisse in quel modo, mi insegnò una volta per tutte che qualunque comportamento sembrerebbe anche a me del tutto naturale, se mi trovassi nella situazione dell’altro.
Sono sicuro che fu questa convinzione a mettermi in grado, anni dopo, di capire il comportamento delle SS nei campi di concentramento, cosa che mi fu di grande aiuto per riuscire a sopravvivere là dentro. Più tardi ancora, quando incominciai a lavorare con pazienti psicotici, lo stesso principio mi permise di comprenderli e di entrare in sintonia con i possibili significati del loro comportamento.
Ma, siccome l’abitudine di Johnny di masticare le foglie di cactus mi faceva orrore, mi era stato impossibile capire che, per infliggersi una simile sofferenza, essa doveva avere per lui un significato di straordinaria importanza, e, non avendo accettato la sfida che il suo gesto proponeva alla mia intelligenza, non avevo fatto lo sforzo di scoprirne il significato.
Per capire il gesto di Johnny mi sarei dovuto domandare che cosa avrebbe indotto me a compierlo. Quando provai a immaginare che cosa avrebbe spinto me a infliggermi un dolore fisico del genere, compresi anche che, se fosse toccato a me di vivere immerso in un tale incessante incubo di fantasie persecutorie e distruttive, a paragone del quale l’Inferno di Hieronymus Bosch sarebbe stato un luogo di delizie, allora qualunque cosa potesse almeno temporaneamente cancellare quelle fantasie mi sarebbe parsa un sollievo.
Il dolore fisico intenso rende praticamente impossibile pensare a qualunque altra cosa, e questa è una ragione sufficiente per preferirlo a un’angoscia psichica estrema.
Inoltre, quando siamo noi stessi a infliggercela, la sofferenza è limitata per durata e intensità, laddove la sofferenza psichica dello psicotico non ha limiti. Infine, ciò che è più importante, se sono io a infliggermi una sofferenza, io ne sono il padrone, io ho il potere di farla iniziare e di farla cessare, mentre sono completamente in balia dei tormenti psichici, sui quali non ho alcun controllo.
Diventa comprensibile, dunque, che Johnny potesse desiderare di sostituire agli intollerabili tormenti provocati dai suoi deliri, di fronte ai quali era impotente, un dolore sul quale aveva totale controllo, come, appunto, quando masticava le foglie di cactus.
Il comportamento di Johnny aveva ancora altre significative implicazioni, che riguardavano più direttamente la psicoanalisi, la sua essenza e le sue finalità per il paziente, e che solo dopo molti anni riuscii a cogliere.
Innanzitutto, la pianta di cactus, come Johnny sapeva o immaginava, stava a cuore alla sua analista; di solito, infatti, è la padrona di casa che cura le piante del soggiorno. Dunque le foglie di cactus erano qualcosa che veniva dalla sua analista, che era collegato con lei.
E da ciò che riceveva dalla sua analista (e le foglie di cactus ne erano una metafora) Johnny sperava di trarre un qualche potere sugli eventi della sua vita. Ecco dunque che, con quella sua breve frase, il bambino mi aveva comunicato anche, in modo essenziale, ciò che un paziente spera di realizzare con l’analisi e ciò che l’analisi dovrebbe offrire a ciascun paziente: la capacità di esercitare un controllo sugli eventi della vita.
Magari fossi stato capace di esporre ai miei studenti i principi fondamentali della psicoanalisi in forma altrettanto concisa e incisiva. A dire il vero, a me occorsero anni per imparare quest’ultima semplice lezione, e forse questo vale per tutti: occorrono molti anni per comprendere il vero senso della psicoanalisi, non tanto con la testa (questo è facile), ma con tutto il nostro essere.
Perciò ho imparato ad avere pazienza con i miei studenti e con i miei pazienti, quando vedo che impiegano molto tempo a capire e a mettere in pratica cose che io stesso ho impiegato tanto a fare mie.
Il mio rapporto con la psicoanalisi, di cui ho raccontato solo due episodi, iniziali ma decisivi, mi ha confermato che non è la padronanza teorica di un problema che ne consente la comprensione al livello più profondo. Sono le nostre esperienze interiori che ci permettono di cogliere in tutta la loro complessità i vissuti degli altri: su questa conoscenza, e su questa soltanto, è possibile fondare lo studio della teoria.
Bruno Bettelheim, La Vienna di Freud e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 1990, pp. 38–53
Bruno Bettelheim, La Vienna di Freud e altri saggi, Feltrinelli, Milano, 1990, pp. 31–37