Il limite ultimo

di Bruno Bettelheim

Mario Mancini
27 min readDec 25, 2020

Via agli altri articoli della serie “Grandi pensatori”

Kustav Klimt, „Tod und Leben” (Morte e Vita), 1915, Leopold Museum, Vienna

La morte è il limite ultimo di tutte le cose.
Orazio, Epistole I

Quando le cose vanno ragionevolmente bene, gli uomini, a meno che non siano portati per il ragionamento filosofico, si accontentano di prendere la vita come viene, senza porsi l’inquietante problema del suo scopo o del suo significato. Mentre intellettualmente siamo pronti ad accettare l’idea che l’uomo in generale non è che il prodotto casuale di un lungo e complesso processo evolutivo, e che noi in quanto individui siamo venuti al mondo come risultato dell’istinto procreativo dei nostri genitori nonché, si spera, del loro desiderio di averci per figli, dubito che questa spiegazione razionale risulti mai veramente convincente per la nostra emotività. Non possiamo fare a meno di domandarci, in certi momenti, quale sia il senso della vita umana, se pure la vita ha un senso. Ma nel corso normale degli eventi non è un problema che ci preoccupi eccessivamente.

Nei momenti di crisi, invece, il problema dello scopo della vita, o del suo significato, si impone alla nostra coscienza. Più grosse sono le nostre difficoltà, più pressante diventa per noi il problema. Ed è logico, da un punto di vista psicologico, che si incominci a preoccuparci del significato della vita quando già siamo sottoposti a dure prove e a gravi tribolazioni, perché in questo caso la ricerca di una risposta è finalizzata. Ci sembra che se solo potessimo cogliere il senso profondo della vita, allora potremmo capire anche il vero significato delle nostre sofferenze, e per estensione di quelle degli altri, e questo costituirebbe una risposta allo scottante interrogativo sul perché dobbiamo soffrire, perché ci è stata inflitta questa sofferenza. Se alla luce della nostra comprensione del disegno della vita la nostra sofferenza risulta necessaria per adempierne lo scopo, o ne costituisce comunque una parte essenziale, allora, in quanto parte integrante di un disegno superiore, il nostro dolore acquista significato, e perciò stesso diventa pili sopportabile.

Per forte che possa essere, il dolore diventa più tollerabile se abbiamo la certezza di superare la malattia che lo provoca e quindi di guarire. La peggiore calamità diventa sopportabile se si pensa che ne sia in vista la fine. Lo strazio più atroce si attenua non appena ci convinciamo che la situazione è reversibile e tutto tornerà come prima. Solo la morte è assoluta, irreversibile, definitiva; più di tutto e soprattutto la nostra morte, ma anche quella altrui. Perciò l’angoscia della morte, quando non è attenuata da una salda fede in una vita ultraterrena, supera per profondità ogni altra angoscia. Perciò la morte, la definitiva negazione della vita, propone nel modo più acuto il problema del significato della vita.

Morte e senso della vita sono così inestricabilmente e strettamente interconnessi, che quando la vita sembra aver perduto ogni significato il suicidio appare una conseguenza inevitabile. I tentati suicidi chiariscono ulteriormente la connessione. Ben pochi suicidi sono determinati dal desiderio di porre termine a un dolore insopportabile che impedisce ogni futuro godimento della vita, quando è sicuro che lo stato che provoca tale dolore è assolutamente irreversibile. Più spesso il suicidio è la conseguenza della convinzione inalterabile che la vita ha completamente e irrimediabilmente perduto ogni significato. Dalla mia esperienza con persone che hanno tentato il suicidio, ho tratto la convinzione che nella maggioranza dei casi i suicidi sono in realtà degli incidenti, dei tentativi che l’interessato si aspetta che falliscano, ma che disgraziatamente riescono.

La stragrande maggioranza dei tentati suicidi sono disperate richieste di aiuto, richieste di essere aiutati a continuare a vivere. Sono allarmanti, perché se l’aiuto richiesto non giunge, allora davvero la persona in questione può arrivare a togliersi la vita. Quello di cui il suicida ha bisogno per poter continuare a vivere, e la risposta che cerca di evocare negli altri con il suo tentativo, è di poter ridare significato alla sua esistenza.

I tentati suicidi sono dunque il più delle volte una disperata richiesta rivolta a qualche persona reale o immaginaria, ma sempre significativa sul piano emotivo. E la risposta di questa persona molto speciale al gesto suicida dovrebbe dimostrare chiaramente, concretamente, oltre ogni ‘possibile dubbio, che, contrariamente ai timori del suicida, la sua vita in realtà ha un senso. La richiesta più o meno precisa contenuta nel tentato suicidio è in genere che quest’altra persona dimostri con il suo comportamento che è disposta a fare il tutto e per tutto non già per impedire il suicidio (anche se troppo spesso è questa l’inadeguata risposta), bensì per ridare significato alla vita dell’infelice suicida, mostrando in modo convincente che la sua esistenza riveste speciale importanza per il salvatore designato. Il suicida è convinto che solamente se diventa importante al livello più profondo per tale persona estremamente significativa la sua vita potrà riacquistare significato. Per il fatto stesso di essere così significativa per quella persona più importante di tutte, la vita del suicida diventa significativa anche per lui, e la morte cessa di rappresentare un’accettabile alternativa.

Trovare un senso alla propria vita è dunque l’unico sicuro antidoto alla ricerca intenzionale della morte. Ma al tempo stesso, per uno strano rapporto dialettico, è la morte che conferisce alla vita il suo più profondo, unico e irripetibile significato.

In realtà non è neppure possibile immaginare che cosa sarebbe la vita, se non avesse un termine; che effetto ci farebbe, come la potremmo vivere, che cosa potrebbe conferirle importanza. Le culture che credono nella reincarnazione sono quelle che più di tutte desiderano che la catena abbia un termine; qui la cessazione di tutto è il fine ultimo di tutte le reincarnazioni, e inoltre ogni singola esistenza ha una sua precisa conclusione. Se sono esistite civiltà che hanno creduto nella desiderabilità di una vita senza fine, l’unica forma in cui si saranno potute immaginare la vita è come una ripetizione perpetua dei medesimi eventi già noti, o come un’esistenza senza problemi, senza prove da superare, senza cambiamenti.

Persino per i poeti è stato difficile visualizzare un’esistenza paradisiaca che non avesse altro contenuto che la beatitudine eterna. Non sappiamo quale possa essere stata l’esperienza di vita di coloro che la consideravano senza termine, né come si prefigurassero la continuazione della vita dopo la morte, ma a noi un’esistenza in cui non cambia mai nulla appare svuotata di ogni interesse. È proprio il fatto che la vita sia finita, per quanto sgradevole o pauroso sia per noi questo pensiero, che la rende quello che è e ci spinge a volerne assaporare appieno ogni momento.

È la lotta dell’uomo per trovare il senso della vita, e del fatto che deve finire, per padroneggiare in tal modo la propria paura della morte, che definisce non solo le sue credenze religiose ma anche i suoi valori culturali e individuali. Sostanzialmente l’uomo ha tentato di risolvere il problema dell’ineluttabilità della morte in tre diversi modi: attraverso l’accettazione o la rassegnazione, considerando cioè la vita null’altro che una preparazione alla morte e a ciò che si immagina venga dopo di essa; attraverso la negazione; sforzandosi di padroneggiarla temporaneamente.

Nei secoli in cui il cristianesimo informava la vita dell’uomo occidentale, la morte veniva al tempo stesso accettata e negata. La negazione serviva a rendere possibile l’accettazione, perché solo la fede in una vita eterna nell’aldilà consentiva all’uomo di far fronte all’idea che su questa terra persino “nel pieno della vita siamo nella morte’’.

Più avanti, quando incominciò ad affermarsi una visione razionale-scientifica del mondo, la fede nell’aldilà si sgretolò. Accettazione e rassegnazione divennero meno facili, in quanto inizialmente basate sulla negazione. Secondo il nuovo spirito dell’età della ragione, il cui interesse era volto all’hic et nunc, a questa terra piuttosto che all’aldilà, la qualità della vita terrena sarebbe diventata sempre migliore grazie al progresso sociale, economico e scientifico.

Con questo, la fede diffusa che scopo precipuo della vita fosse il conseguimento della salvezza e quindi della vita eterna, subì un radicale cambiamento: si trasformò nello sforzo di conseguire il progresso, un progresso considerato infinito, che avrebbe esso stesso conferito alla vita il suo significato ultimo. È la soluzione faustiana all’enigma del senso della vita, che ha trovato la sua più bella e pregnante espressione nel finale del dramma di Goethe, quando Faust supera il terrore della morte lottando per migliorare la condizione dell’uomo. Grazie ai miglioramenti che aveva apportato, Faust, l’archetipo dell’uomo occidentale moderno, può sentirsi sicuro che

La traccia dei miei giorni terreni
Non potrà svanire in eterno.

Ma il titanico dono del progresso che Faust credeva di avere conferito al mondo, e che avrebbe dovuto garantirgli la continuazione imperitura se non della sua esistenza individuale quanto meno delle sue opere, non è che un’illusione.

Confidando nelle conquiste del progresso, l’uomo cercava di liberarsi sempre più dal terrore della morte. La scienza avrebbe debellato la malattia, prolungato l’arco della vita, l’avrebbe resa più sicura, meno dolorosa, più soddisfacente. Con il declino della fede, la negazione della morte mediante la promessa religiosa di una vita eterna si sfaldò e fu sostituita da una concentrazione sul differimento della morte. L’uomo non può preoccuparsi di troppe cose contemporaneamente, e un tipo di ansia ne scaccia facilmente un altro. Concentrando l’attenzione, e le sue angosce, per esempio sul cancro e sugli agenti cancerogeni, come l’inquinamento, eccetera, l’uomo riesce così bene a ricacciare nel fondo della coscienza l’angoscia della morte che questa in pratica viene negata.

Poiché è ragionevole supporre che si troverà una soluzione al problema del cancro, si potrebbe pensare che la fede nel progresso si sia dimostrata capace di debellare l’angoscia della morte, giacché se ci si concentra totalmente sulla lotta contro il cancro non rimane spazio per chiedersi di che morte moriranno quelli che ora muoiono di cancro. Anche le varie mode igienistiche servono al medesimo scopo di aiutare a rimuovere l’angoscia della morte concentrando le energie mentali, e spesso anche fisiche, dell’uomo sul problema di prolungare la vita, in modo che il pensiero della sua fine non permetta all’angoscia della morte di affiorare alla coscienza.

Per il resto, l’uomo occidentale ha cercato di nascondere tale angoscia dietro eufemismi meno minacciosi, più tranquillizzanti nella loro scientificità. Poiché l’angoscia è un fenomeno psicologico, si è finito per considerare l’angoscia della morte semplicemente come una forma particolare di “angoscia della separazione’’ o di “paura dell’abbandono Espressioni del genere, nate dalla fiducia nel progresso illimitato, vogliono implicare che si finirà per trovare un rimedio alla paura dell’abbandono. E in effetti si sono trovati alcuni rimedi per l’abbandono temporaneo, ma non, naturalmente, per quello definitivo. Tuttavia, usando il medesimo concetto, l’angoscia, per designare eventi reversibili e irreversibili, nonché i sentimenti evocati da un abbandono temporaneo e dall’abbandono definitivo, eterno, si fa in modo che l’evento irreversibile sembri analogo a quello reversibile.

Ma quali che fossero le difese psicologiche dell’uomo contro l’angoscia della morte, esse sono sempre crollate ogniqualvolta si è abbattuta una catastrofe sull’umanità ed enormi masse di persone sono state improvvisamente e inaspettatamente sterminate in un breve arco di tempo. La prima calamità del genere di cui abbiamo ampia documentazione fu probabilmente la peste nera del quattordicesimo secolo. Questo fatto storico evocò l’immagine della vita come null’altro che una danza con la morte, espressione visiva e poetica dell’angoscia della morte diffusasi allora in tutto il mondo occidentale.

Il terremoto che nel 1755 distrusse Lisbona con gravi perdite umane fu vissuto come una calamità che metteva seriamente in discussione la saggezza e la bontà di Dio. Questo dubbio privò l’uomo di una fede che fino a quel momento gli era servita molto bene per tenere a bada l’angoscia della morte e che aveva dato un senso al suo temporaneo passaggio su questa terra. Questo valse anche per l’adolescente Goethe, come leggiamo nell’autobiografia da lui scritta sul finire della vita; e forse fu questa sconvolgente esperienza occorsa agli inizi della sua esistenza cosciente che lo indusse ad abbracciare la soluzione faustiana a cui abbiamo accennato sopra.

Nel passato furono soprattutto le catastrofi naturali (pestilenze, terremoti, inondazioni, eruzioni travolgenti: venivano definiti olocausti) a scuotere la fiducia dell’uomo in quelle credenze che davano un senso più profondo alla sua vita e nel medesimo tempo gli servivano da difesa contro l’angoscia della morte. Quando una guerra radeva al suolo città e paesi interi, questo fatto era considerato un flagello di Dio, alla stessa stregua delle calamità naturali. In quanto tali, le guerre inducevano, in epoche religiose, a moltiplicare gli sforzi per compiere la volontà di Dio, per placare la sua ira con rinnovata devozione.

Tutto questo cambiò radicalmente con l’avvento del ventesimo secolo. Nel ventesimo secolo il controllo dell’uomo sulle catastrofi naturali divenne efficace come non mai prima. Contemporaneamente, però, egli divenne la sventurata vittima di catastrofi provocate dall’uomo ancora più sconvolgenti di quelle naturali, che nei secoli precedenti l’avevano gettato nell’angoscia panica. Peggio ancora, il progresso delle scienze e dell’organizzazione razionale della società, in cui l’uomo aveva riposto tutta la sua fede, considerandolo la sua migliore difesa contro l’angoscia della morte e il valore che avrebbe dato senso alla vita, si dimostrò lo strumento di una distruzione della vita ben più radicale di quanto avesse potuto immaginare.

La difesa dell’uomo moderno contro l’angoscia della morte, la fede negli illimitati benefici del progresso, fu gravemente scossa dalla Prima guerra mondiale e dagli eventi che seguirono. Quella guerra indusse Freud ad ammettere che la morte è una forza altrettanto potente nel muovere gli uomini e le loro azioni quanto l’amore per la vita. Freud, però, volle inserire questa importante intuizione in un costrutto teorico che fungesse da parallelo al precedente concetto di libido (la pulsione sessuale o istinto di vita), ipotizzando un teorico istinto di morte. In realtà non è la lotta tra istinto di vita e istinto di morte che governa la vita umana, bensì la lotta dell’istinto di vita contro l’angoscia della morte che potrebbe sopraffarlo. Esiste, insomma, un’onnipresente paura dell’estinzione che minaccia di avere la meglio con effetti distruttivi se non viene mantenuta saldamente sotto controllo dalla nostra fede nel valore positivo della vita.

Il riconoscimento di questo fatto in tutta la sua drammatica portata ci venne non tanto dalla Seconda guerra mondiale (che fu sostanzialmente la continuazione della prima) quanto dai campi di concentramento con le loro camere a gas e dalla prima bomba atomica. Questi eventi ci misero di fronte alla cruda realtà di una morte travolgente, non tanto la morte individuale (questa ciascuno di noi la deve affrontare prima o poi, e la maggior parte di noi, pur con riluttanza, riesce a non farsi sopraffare troppo dalla paura), bensì la morte gratuita e prematura di milioni e milioni di esseri umani. L’insensato sterminio di massa nelle camere a gas, il genocidio, un’intera città rasa al suolo da un’unica bomba: questi fatti divennero la spia dell’inefficienza delle difese della nostra civiltà contro la realtà della morte. Il progresso non solo fallì nello scopo di preservare la vita umana, ma privò della vita milioni di esseri umani più efficientemente di quanto fosse mai stato possibile.

Freud descrive i tre colpi di grazia inferti al nostro narcisismo dalle scoperte scientifiche. Il primo fu la rivoluzione copernicana, che dimostrò che la terra, patria dell’uomo, non era il centro dell’universo. Il secondo fu la rivoluzione di Darwin, che spodestò l’uomo dalla sua posizione privilegiata trasportandolo di peso nel mondo animale. Infine ci fu la rivoluzione di Freud stesso, che dimostrò come l’uomo non sia neppure pienamente cosciente delle sue motivazioni, sicché spesso esse lo spingono a compiere azioni che sfuggono alla sua comprensione.

Oltre a queste tre fondamentali scosse al suo antropocentrismo, l’uomo ha dovuto subire, in questo secolo soltanto, altri tre colpi annichilenti.

La prima crisi si ebbe con la Prima guerra mondiale, che distrusse la certezza che di per se stesso e da solo il progresso avrebbe risolto i nostri problemi, conferito senso alla nostra vita, aiutato a padroneggiare la nostra angoscia esistenziale, l’umana paura della morte. Quella guerra ci costrinse a riconoscere che nonostante i grandi progressi scientifici, tecnologici e intellettuali, l’uomo è tuttora preda di forze irrazionali che spingono alla violenza e alla distruzione.

Nella Seconda guerra mondiale, Auschwitz e Hiroshima ci insegnarono che il progresso tecnologico ha potenziato gli impulsi distruttivi dell’uomo fino a livelli di paurosa precisione e incredibile esizialità. Fu il progresso verso un’organizzazione sociale onnipotente che rese possibile Auschwitz, quintessenza della crudeltà organizzata dell’uomo contro l’uomo. La bomba atomica dimostrò il potenziale distruttivo della scienza e fece mettere in dubbio i benefici stessi del progresso scientifico.

Quando gli olocausti delle epoche passate erano considerati volontà di Dio, dovevano essere accettati in quanto tali. Poiché le decisioni divine erano imperscrutabili, gli uomini consideravano le catastrofi come ammonimenti a emendarsi finché c’era tempo, per non finire nel fuoco dell’inferno, e guadagnarsi invece la salvezza eterna. Perciò, anche se quello che accadeva era terribile, non minava la fede nello scopo e nel significato della vita, né disintegrava il sistema di valori dell’individuo e con esso la sua personalità. Per atroce che fosse l’evento, esso era in armonia con la visione esistente delle cose.

Accettare senza battere ciglio le sofferenze che Dio infliggeva all’uomo era una dimostrazione della forza della sua fede e con essa della saldezza della sua integrazione. Non modificava né il fine della vita, la salvezza eterna, né il suo scopo, compiere la volontà di Dio; né infirmava la validità della via per realizzarli entrambi, la devozione religiosa. Lungi dall’indurre l’uomo a mettere in dubbio la bontà delle sue difese contro l’angoscia della morte, le rafforzava, anzi, con il fervore religioso. E con ciò aumentava anche la capacità di recupero di un’integrazione basata su un sistema di credenze religiose.

Gli effetti degli olocausti della nostra epoca sono esattamente l’opposto. Ben lungi dal rientrare nella nostra visione del mondo e nell’immagine che vorremmo mantenere dell’uomo, essi ce le distruggono totalmente. Poiché sappiamo che tali assassini di massa sono opera dell’uomo, non possiamo più ascrivere a tali eventi un significato recondito e più profondo che possa trasformarli in un bene per chi sopravvive.

Nostro malgrado e con sgomento siamo stati costretti a riconoscere che ciò che l’uomo raziocinante considerava portatore di vita si era dimostrato anche distruttore della vita. Nonostante tutti i vantaggi che ci ha conferito, il progresso scientifico e tecnologico ha anche portato alla scissione nucleare e a Hiroshima. L’organizzazione sociale che pensavamo ci avrebbe condotto a una sicurezza e a un benessere sempre maggiori fu usata a Auschwitz per sterminare più efficientemente milioni di esseri umani. La ristrutturazione della società in Russia, che si proponeva di fondare un sistema sociale più equo, ebbe come risultato la morte di un numero incalcolabile di cittadini.

Quando le credenze che avevano dato direzione alla vita si dimostrano palesemente infondate, e quando le difese psicologiche sulle quali ci si basava per garantire il benessere fisico e psichico e per proteggersi contro l’angoscia della morte (le strutture psicologiche che nel loro insieme costituiscono la nostra personalità) si rivelano inattendibili, gli effetti sull’individuo (e, quando questo succede a un grande numero di persone nello stesso tempo e con le stesse modalità, sull’intera cultura) sono oltremodo distruttivi. Un’esperienza del genere è sufficiente a disintegrare una personalità costruita sulla base di tali convinzioni.

L’integrazione dell’individuo può essere completamente annientata quando il sistema di credenze a cui si affidava per la propria integrazione, e per essere protetto dall’angoscia della morte, non solo non lo sostiene più, ma addirittura minaccia di distruggerlo fisicamente e psicologicamente. Allora sembra che non rimanga più nulla in grado di offrire protezione. Non solo, ma non siamo più sicuri di potere mai più, in futuro, essere capaci di distinguere quello in cui possiamo avere fiducia e quello da cui invece bisogna difendersi.

La difesa dell’uomo moderno contro l’angoscia della morte e il sistema di credenze che davano senso alla vita di Faust (lottare per il progresso, sia pure senza una meta precisa) risultano ormai vacillanti persino in circostanze normali. Non è solo la prospettiva della morte che ci tormenta, oggi; si è aggiunta l’angoscia che proviamo vedendo crollare le strutture sociali che avevamo creato per essere protetti dall’esperienza dell’abbandono, e vedendo disintegrarsi la struttura di personalità che ci eravamo costruiti al medesimo scopo.

In momenti di forte tensione è facile che l’una o l’altra di queste fonti di protezione, quella individuale o quella sociale, si sgretoli, ma se intorno a noi la vita continua normalmente, siamo ben presto in grado di ripristinare le nostre barriere protettive, a meno che non intervengano la pazzia o la senilità. Le cose vanno diversamente quando non solo la fiducia che abbiamo riposto nell’uomo e nella società si rivela d’improvviso illusoria, ma neppure la struttura della nostra personalità è più in grado di proteggerci dalla paura dell’abbandono. La situazione è più grave ancora quando siamo realmente abbandonati ed è possibile e probabile una morte immediata, anche se ci sembra che la nostra ora non sia ancora venuta. Allora gli effetti sono catastrofici. Il crollo improvviso e simultaneo di tutte queste difese contro l’angoscia della morte ci proietta in quella che una trentina di anni or sono ho definito, in mancanza di un’espressione più appropriata, una situazione estrema.

Situazioni estreme

Ci troviamo in una situazione estrema quando veniamo improvvisamente catapultati in un insieme di condizioni in cui i meccanismi adattivi e i valori di un tempo non sono più validi, e anzi alcuni di essi possono addirittura mettere in pericolo la vita che avevano lo scopo di proteggere. Ci troviamo allora, per dire così, spogliati di tutto il nostro sistema difensivo e scaraventati di nuovo sul fondo, e per risalire dobbiamo costruirci un nuovo insieme di comportamenti, valori e modi di vivere adatti alla nuova situazione.

È quello che accadde a me, e a migliaia di altri come me, quando, nella primavera del 1938, subito dopo l’annessione dell’Austria, fui posto agli arresti domiciliari e privato del passaporto, il che rese impossibile l’emigrazione legale, e poi, di lì a poche settimane, fui imprigionato per alcuni giorni e quindi deportato nel campo di concentramento di Dachau. Fu quello che accadde a decine di migliaia di persone nel novembre dello stesso anno nell’ambito di un gigantesco pogrom a seguito dell’assassinio di vom Rath[1], e in forma ancora più tremenda ai milioni di persone nei campi di sterminio nel corso della guerra.

Per certi aspetti io ero meglio preparato allo shock di questa “esperienza estrema” di molti dei miei compagni, in quanto, dati i miei interessi politici, ero al corrente delle scarse notizie trapelate dal Terzo Reich sulla vita nei campi di concentramento. Inoltre, attraverso la psicoanalisi, mi ero familiarizzato con gli aspetti oscuri dell’uomo: l’odio e le sue potenzialità distruttive, il potere di quelle forze che Freud aveva chiamato istinto di morte.

In un certo senso fui anche fortunato. Durante il tragitto ero rimasto ferito abbastanza gravemente da essere visitato da un medico delle SS il mattino successivo all’arrivo a Dachau. Il medico mi prescrisse tre giorni di riposo totale e una settimana di trattamento privilegiato (Schonung).[2] Questo mi diede la possibilità di recuperare in qualche misura le forze. Ma soprattutto, ciò che alla lunga si sarebbe dimostrato più positivo, mi diede la possibilità di riflettere sulla mia esperienza, di analizzare le prime impressioni sugli effetti che la nostra terribile situazione aveva su di me e sui miei compagni, di osservare come avevano reagito i prigionieri che si trovavano in campo di concentramento da diversi anni.

Questo mi dimostrò la validità di quello che avevo imparato durante la mia analisi: come sia importante per il recupero psicologico cercare di capire le proprie reazioni psichiche a un’esperienza, e come sia utile cercare di immaginarsi quello che succede ad altri sottoposti alla medesima esperienza. Lo sforzo di acquistare una sia pur limitata consapevolezza probabilmente mi convinse che si poteva salvare qualcosa del mio vecchio sistema di controllo, che certi aspetti della fiducia nella validità dell’analisi razionale (per esempio negli insegnamenti della psicoanalisi) potevano essere di qualche utilità, persino in queste condizioni di vita così radicalmente mutate. Fossi stato scaraventato immediatamente nella spirale distruttiva delle sevizie e della fatica abbrutente, come i miei compagni, non so se sarei riuscito ugualmente a ripristinare in parte il mio sistema psicologico protettivo.

S’intende che allora nulla era più lontano dai miei pensieri del salvataggio del mio vecchio sistema protettivo. Tutti i miei pensieri, tutte le mie energie erano impegnati nella lotta disperata per sopravvivere giorno per giorno, per vincere la depressione, per mantenere viva la volontà di resistere, per ottenere minimi vantaggi che avrebbero reso un po’ più probabile una sopravvivenza che appariva impossibile, e per rendere il più possibile vani gli implacabili sforzi delle SS per stroncare il morale dei prigionieri. Quando non ero troppo esausto o troppo abbattuto, cercavo di capire quello che succedeva dentro di me e nei miei compagni, perché mi interessava, e perché era una delle rare soddisfazioni che le SS non potevano sottrarmi.

Solo con il passare dei mesi incominciai molto gradualmente a rendermi conto che, senza un disegno consapevole, limitandomi a fare quello che mi veniva naturale, avevo inconsciamente scoperto quello che avrebbe “protetto questo individuo dalla disintegrazione della sua personalità” (come mi sono espresso nel quarto dei saggi contenuti in questo libro). Una formulazione così distaccata fu possibile solo retrospettivamente. Mentre ero ancora prigioniero nel campo di concentramento, si trattava piuttosto di un fischiettare nel buio per farsi coraggio. Ma cercavo di vedere la situazione positivamente, per debellare l’angoscia sempre in agguato che le SS riuscissero a disintegrare ancora di più la mia personalità, come cercavano di fare con tutti i prigionieri.

Incominciai a scrivere “Comportamento individuale e di massa in situazioni estreme” nel 1940, circa un anno dopo che ero stato liberato e mi ero trasferito negli Stati Uniti.[3] Dal momento in cui misi piede in questo paese, poche settimane dopo la liberazione, incominciai a parlare dei campi di concentramento a tutti quelli che erano disposti ad ascoltare, e anche a chi non ne aveva molta voglia. Per dolorosi che fossero i ricordi che risvegliava in me, lo facevo perché ero così pieno di quell’esperienza che non potevo tenermela dentro. Inoltre ero ansioso di far prendere coscienza al maggior numero di persone possibile di quello che avveniva nella Germania nazista, perché lo ritenevo doveroso nei confronti di quanti ancora soffrivano in prigionia. Ma non ebbi molto successo.

All’epoca, negli Stati Uniti non si sapeva nulla dei campi di concentramento, e i miei racconti erano accolti con la più assoluta incredulità. Prima dell’entrata in guerra degli Stati Uniti, la gente non voleva credere che i tedeschi potessero commettere simili atrocità. Ero accusato di lasciarmi trasportare dal mio odio per i nazisti, di dare voce a distorsioni paranoidi. Fui ammonito di non diffondere tali falsità. Mi si contestavano due colpe opposte nel medesimo tempo: di dipingere le SS a colori troppo foschi; e di accordare loro troppo credito, descrivendole come individui così intelligenti da ideare e mettere sistematicamente in atto un sistema tanto diabolico, quando era risaputo che non erano altro che dei pazzi e degli stupidi.[4]

Reazioni del genere non fecero che convincermi ulteriormente della necessità di far prendere coscienza della realtà dei campi di concentramento, di quello che vi avveniva, e degli scopi nefandi a cui servivano. Speravo che pubblicando un articolo, scritto il più obiettivamente possibile per stornare l’accusa di distorcere la realtà mosso da odio personale, sarei riuscito a farmi ascoltare. Fu questo il motivo cosciente che mi spinse a scrivere “Comportamento individuale e di massa in situazioni estreme”, che terminai nel 1942.

Purtroppo, per oltre un anno, l’articolo venne respinto da tutte le riviste di psichiatria e di psicoanalisi a cui lo avevo inviato, convinto che questo fosse il canale di divulgazione più realistico per me. I motivi del rifiuto variavano. In alcuni casi i responsabili delle riviste obiettarono che non avevo tenuto una documentazione scritta durante la mia permanenza nei campi, implicitamente rivelando che non avevano creduto una parola di quello che avevo scritto sulle condizioni di vita laggiù. Altri rifiutarono l’articolo perché i dati non erano verificabili, o perché i risultati non erano riproducibili. Alcuni uscirono allo scoperto e mi dissero chiaramente che quelli che davo per fatti nonché le mie conclusioni altro non erano che esagerazioni cervellotiche. Altri aggiunsero, con ragione probabilmente, a giudicare dalle reazioni che suscitavo quando cercavo di parlare di questi argomenti con specialisti, che l’articolo sarebbe riuscito inaccettabile per i loro lettori. Ma, date le mie ragioni per voler pubblicare quello scritto, non mi arresi, e alla fine esso fu dato alle stampe.[5]

Scrivere quell’articolo fu un’impresa intellettualmente difficile, perché a quell’epoca il pensiero psicologico non aveva ancora elaborato lo schema di riferimento concettuale necessario per trattare in maniera adeguata questo tipo di problemi, e io fui costretto a costruirmelo faticosamente da solo. Ma fu ancora più difficile far fronte ai ricordi ansiogeni e sempre profondamente inquietanti che continuamente si frapponevano, impedendomi di riflettere in modo obiettivo sull’esperienza dei campi di concentramento. Lo sforzo di essere obiettivo divenne allora la mia difesa intellettuale contro i turbamenti che minacciavano di sopraffarmi. Coscientemente provavo una grande urgenza di scrivere sui campi di concentramento, e di scriverne in un modo che inducesse altri a riflettere su questo problema e li mettesse in grado di capire quello che vi succedeva. Era un bisogno che, molti anni dopo, nella letteratura sui sopravvissuti, fu definito coazione a “portare testimonianza”. Il desiderio di far capire agli altri la mia esperienza era sostenuto dal bisogno di comprendere io stesso quello che mi era accaduto, in modo da padroneggiare intellettualmente quell’esperienza.

Non mi resi conto allora che, inconsciamente, il mio accanimento rappresentava un tentativo di padroneggiare quella sconvolgente esperienza non solo intellettualmente, ma anche sul piano emotivo, perché continuavo a rimanerne soggiogato, molto di più di quanto potessi accettare sul piano della coscienza. Nonostante gli incubi che continuavano a tormentarmi ogni notte, nonostante la forte angoscia che provavo ogni giorno circa il destino di quanti erano minacciati dalla fame, dalla tortura e dalla morte nei campi di concentramento (una realtà che avevo sempre presente), volevo con tutte le forze poter credere che l’essere stato prigioniero in quei campi non avrebbe avuto effetti psicologici duraturi. Questa convinzione era rafforzata dall’enorme sollievo provato alla mia liberazione, e alla notizia che i miei cari erano al sicuro fuori della Germania. Probabilmente, a livello inconscio, speravo che il fatto di scrivere e di far pubblicare quell’articolo mi avrebbe consentito di lasciarmi alle spalle quell’esperienza, dandomi modo di passare finalmente a problemi dotati di una minore carica emotiva.

Forse, quando scrissi l’articolo, era più facile credere nella possibilità di lasciarmi alle spalle una volta per tutte l’esperienza di sopravissuto, con tutto quello che comportava, perché allora non esistevano ancora i campi di sterminio: non si era ancora arrivati alla “soluzione finale” del problema ebraico nelle camere a gas.

Benché oggi sia difficile credere che la vita abbia uno scopo definito, e ci si debba limitare a seguire quella che ci sembra la giusta direzione, pure dobbiamo continuare a lottare per integrare la nostra personalità e padroneggiare le esperienze difficili. Non possiamo sperare di conseguire mete così elusive una volta per tutte. Questo vale in genere per tutte le esperienze, ma ancora più drammaticamente per quelle più cruciali, e soprattutto per le situazioni estreme. E ancora più impossibili da risolvere sono le esperienze estreme che pongono in evidenza inoltre il problema centrale della nostra epoca: gli aspetti potenzialmente distruttivi del progresso.

Questa è una formulazione teorica di quella che per i superstiti dei campi di concentramento fu e in qualche misura rimane un’esperienza molto diretta e personale. Quando si è riusciti a padroneggiarlo a un dato livello, il problema si ripropone a un altro e va di nuovo risolto. Cosi è stato per me e per molti altri che hanno cercato di integrare l’esperienza dei campi di concentramento. Questo processo continuo di risoluzione è il filo comune che sottende ai vari saggi che compongono il presente volume.

Dopo la pubblicazione dell’articolo “Comportamento individuale e di massa in situazioni estreme”, ebbi la sensazione di avere affrontato più o meno direttamente alcuni aspetti dell’esperienza di sopravvissuto. Rivolsi allora la mia attenzione ad altri problemi, interessanti ma molto più neutri. Ma dopo qualche tempo, non potei evitare di pensare di nuovo ai problemi dei sopravvissuti, e spesso anche di scriverne.

Sarebbe stato facile in questo libro isolare i saggi che trattano direttamente di questo problema e delle sue conseguenze da altri che apparentemente affrontano argomenti del tutto diversi, ma una simile ordinata organizzazione non avrebbe rispecchiato il percorso della mia vita intellettiva. Né avrebbe rivelato come io sia giunto a certi atteggiamenti in conseguenza dello sforzo di fare fronte al problema dell’essere stato un sopravvissuto. È mia speranza che la disposizione dei miei scritti in questo libro, pur nella varietà degli argomenti trattati, dalla scuola alla sfera privata, all’arte, verrà riconosciuta come la stratificazione di un medesimo sforzo, lo sforzo verso l’integrazione.[6]

Note

[1] II 7 novembre 1938, un giovane ebreo polacco, Herschel Grynszpan, sconvolto dalle persecuzioni naziste contro gli ebrei, esplose alcuni colpi contro Ernst vom Rath, terzo segretario dell’ambasciata tedesca a Parigi, che mori due giorni dopo. Questo episodio fu utilizzato come pretesto per una terribile ondata di persecuzioni in Germania, in cui furono uccisi migliaia di ebrei e decine di migliaia furono deportati nei campi di concentramento.

[2] Durante il tragitto in treno da Vienna a Dachau, che durò una notte e buona parte del giorno successivo, tutti i prigionieri furono gravemente maltrattati. Dei 700–800 deportati di quel convoglio, una ventina vennero uccisi durante la notte, molti riportarono gravi ferite, e quasi nessuno rimase illeso. Al loro confronto, posso dirmi relativamente fortunato a non avere subito lesioni irreversibili, benché avessi ricevuto diversi violenti colpi in testa e altre ferite minori. Gli occhiali cerchiati di corno che per caso portavo al momento dell’arresto denunciavano, agli occhi delle SS, il fatto che ero un intellettuale, cosa che le irritava sempre particolarmente; di qui probabilmente i colpi alla testa, il primo dei quali mandò in frantumi gli occhiali.

All’arrivo a Dachau, le mie condizioni erano abbastanza gravi (soprattutto per l’emorragia subita) per cui fui incluso dal prigioniero responsabile della mia baracca (il cosiddetto Blockältester) tra i pochi da inviare all’ambulatorio del campo. L’infermiere delle SS mi scelse come uno dei prigionieri da far visitare dal medico, che mi concesse alcuni giorni di riposo. Siccome i miei occhiali si erano rotti, e senza occhiali sono praticamente cieco, il medico mi permise anche di scrivere a casa per farmene mandare un nuovo paio. Capita la lezione, ebbi cura di richiederne un paio del tipo più semplice e più scadente. Anche così, tuttavia, trovai che era meglio toglierli ogni qualvolta c’era un’ispezione delle SS; era molto più sicuro. Questa non è che una delle molte precauzioni che i prigionieri dovevano imparare a prendere se volevano aumentare le probabilità di sopravvivenza.

[3] Come vedremo più avanti, gli effetti terroristici dei campi di concentramento erano vieppiù accentuati dai criteri assolutamente arbitrari con i quali la Gestapo arrestava certe persone e ne rilasciava altre. Non c’era modo di indovinare perché un certo prigioniero veniva rilasciato dopo pochi mesi, quando un altro esattamente come lui veniva trattenuto per diversi anni, e un altro ancora era condannato a rimanerci per sempre. Io stesso non ho la minima idea del perché fui tra i fortunati che vennero rilasciati. Forse al mio contribuì il fatto che fosse intervenuto in mio favore, personalmente e attraverso la legazione americana, un personaggio pubblico americano di grande prestigio. Il suo interessamento per me era dovuto al fatto che per diversi anni avevo tenuto in casa mia e cercato di curare il figlio autistico di una antica e importante famiglia americana. Potrebbe darsi però che la stessa circostanza avesse in realtà rimandata la mia liberazione, visto che altri prigionieri, per tanti aspetti simili a me, erano stati liberati prima di me. Che un intervento esterno potesse sortire l’effetto opposto a quello desiderato può essere illustrato dal destino di un mio caro amico, che, nonostante le ripetute e insistenti richieste di liberarlo da parte di un membro di una famiglia reale, rimase a Buchenwald per tutta la durata della guerra e fu liberato soltanto quando arrivarono gli americani. Gli interventi da parte di personaggi influenti in favore di un dato prigioniero erano in un certo senso controproducenti, perché la Gestapo poteva dedurne che il prigioniero sarebbe potuto servire da ostaggio, e lo tratteneva in attesa che si presentasse l’occasione di usarlo in questo modo.

Fino all’inizio della guerra, quasi ogni settimana, a volte ogni giorno, venivano rilasciati alcuni prigionieri. Nel corso del 1938–39 tra i prigionieri rilasciati c’erano anche molti ebrei, che però dovevano trasferire ai nazisti tutti i loro averi, e dimostrare che avrebbero lasciato immediatamente la Germania. Nel mio caso queste condizioni erano soddisfatte, e lo erano già da parecchi mesi; perciò forse fui rilasciato. Il numero di prigionieri ebrei rilasciati a queste condizioni durante l’anno della mia permanenza in campo di concentramento era abbastanza elevato da giustificare il seguente detto tra i detenuti non ebrei: “Ci sono solo due modi per andarsene di qui: distesi [cioè nella bara] o da ebrei,” Tuttavia l’amico citato sopra non fu rilasciato, benché fosse ebreo benché la sua famiglia e l’altezza reale sua amica avessero sborsato somme ingenti e avessero organizzato tutto per il suo espatrio immediato.

Per esacerbare l’incertezza e quindi l’angoscia, la Gestapo giocava al gatto e al topo con i familiari dei prigionieri. Per esempio, per due volte ai membri della mia famiglia, che richiedevano il mio rilascio regolarmente presso il quartier generale della Gestapo a Vienna e a Berlino, venne detto che ero già stato liberato e di correre a casa dove probabilmente mi avrebbero trovato. Un’altra volta gli fu detto di mandare un emissario (un avvocato nazista) a Weimar, la città più vicina a Buchenwald, ad accogliermi, e neppure quella volta era vero. Tutto questo accadde parecchi mesi prima del mio effettivo rilascio.

Note

[4] Sulla calcolata riluttanza del governo americano, e di buona parte della popolazione a dare credito alle notizie sulle atrocità naziste ancora nel 1944, si veda per esempio Arthur D. Morse, While Six Million Died: A Chronicle of American Apathy, Random House, New York 1967.

[5] Sono grato a Gordon Allport che, nella sua qualità di direttore del “Journal of Abnormal and Social Psychology”, non solo accettò questo articolo scritto da uno sconosciuto, ma addirittura lo pubblicò, nel numero di ottobre 1943, in prima pagina; e a Dwight MacDonald, che lo ripubblicò su Politics nell’agosto del 1944.

L’entità della disinformazione sui campi di concentramento ancora alla fine della guerra la si può dedurre dal fatto che in quell’anno il generale Eisenhower rese obbligatoria la lettura del mio articolo per tutti i funzionari del governo militare degli Stati Uniti in Germania. Solo che, ormai, per i milioni di prigionieri assassinati nei campi di concentramento era troppo tardi.

[6] I lettori che desiderassero leggere di seguito i saggi che trattano direttamente dei campi di concentramento e della sopravvivenza in essi potrebbero seguire quest’ordine: Esperienze traumatiche e reintegrazione-, I campi di concentramento nazisti; Comportamento individuale e di massa in situazioni estreme, Contributi inconsci alla propria distruzione, Alcune osservazioni sulla forza di attrazione del totalitarismo; Il destino di Anna Frank: una lezione ignorata, Eichmann: il sistema, le vittime, Sopravvivere, e infine L’olocausto una generazione dopo.
Oltre a questi articoli e a Il prezzo della vita, Adelphi, Milano 1965, altri miei scritti e recensioni che riguardano i campi di concentramento e problemi connessi sono: The Helpless and the Guilty [Inermi e colpevoli], in “Common Sense”, 14, luglio 1945, pp. 25–28; War Trials and German Reeducation [Processi ai criminali di guerra e riabilitazione dei tedeschi], in “Politics”, 2, dicembre 1945, pp. 368–69; The Dynamism of Anti-Semitism in Gentile and Jew [Il dinamismo dell’antisemitismo in ebrei e non ebrei], in “Journal of Abnormal and Social Behaviour”, 42, 1947, pp. 153–68; The Concentration Camp as a Class State [Il campo di concentramento come Stato classista], in “Modem Review”, 1, ottobre 1947, pp. 628–37; Exodus, 1947, in “Politics”, 5, Inverno 1948, pp. 16–18; The Victim’s Image of the Anti-Semite [L’immagine dell’antisemita agli occhi delle vittime], in “Commentary”, 5, febbraio 1948, pp. 173–79; Doctors of Infamy: The Story of Nazi Medical Crimes [Dottori in infamia: la storia dei crimini dei medici nazisti], in “American Journal of Sociology”, 55, 1949, pp. 214–15; Returning to Dachau [Ritorno a Dachau], in “Commentary”, 21, febbraio 1956, pp. 144–51; A Note on the Concentration Camps [Postilla ai campi di concentramento], in “Chicago Review”, agosto 1959, pp. 113–14; Prefazione a Dr. Miklos Nyiszli, Auschwitz: A Doctor’s Eyewitness Account [Auschwitz: la testimonianza di un medico], Frederick Fell, New York 1960, pp. V- XVIII; Freedom from Ghetto Thinking [Liberarsi dal modo di pensare del ghetto], in “Midstream”, 8, primavera 1962, pp. 16–25; Survival of the Jews [La sopravvivenza degli ebrei], in “New Republic”, luglio 1967, pp. 23–30.

Tratto da: Bruno Bettelheim, Sopravvivere, Milano, Fentrinell, 1981, pp. 17–30

Bruno Bettelheim (Vienna, 1903 — Silver Spring, 1990) si laureò in psicologia a Vienna. Di origine ebraiche, nel 1938 fu deportato nei campi di concentramento inazisti, ma fu rilasciato l’anno seguente per intervento di Eleanor Roosevelt. Lui e la moglie si trasferirono negli Stati Uniti. Insegnò all’Università di Chicago e si interessò soprattutto di autismo, di tecniche nel trattamento dei bambini con disturbi emotivi e degli aspetti psicologici del pregiudizio razziale.
Tra i suoi libri si ricordano: La fortezza vuota. L’autismo infantile e la nascita del sé (Garzanti 1999); Dialogo con le madri (Pgreco 2010); Ferite simboliche (SE 2011); Il mondo incantato. Uso, importanza e significati psicoanalitici delle fiabe (Feltrinelli 2013); Un genitore quasi perfetto (Feltrinelli 2013); Sopravvivere e altri saggi (SE 2014).

--

--

Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.