Il grado zero della scrittura, introduzione
di Roland Barthes
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Come nazione la Francia possiede un bene prezioso quanto l’alta moda, le strade, i vini e i formaggi: la sua Letteratura. Tuttavia l’idea, se non la cosa, non è molto antica; è un’idea storicamente borghese; nata pressappoco al tempo della Rivoluzione (la parola stessa è del 1762 circa), e sviluppatasi nel corso del XIX secolo fino ai nostri giorni, oggi domina con tutti gli onori nella stampa, nelle conversazioni mondane, nella scuola.
Tale mito è un valore sicuro, costituito da una serie di annessioni e distorsioni (da Villon a Rimbaud), provvisto di una Storia particolare, di uno Spirito moralistico, ossia morale, e anche, beninteso, di una Forma eterna, la Lingua francese, definita dal suo attributo mitico più famoso, la chiarezza.
Come mito, la Letteratura francese ha una doppia funzione sociale: in primo luogo essa permette alla società dei Francesi possidenti, sicuri dei loro Diritti, di assorbire senza pericoli un elemento equivoco e sempre vagamente sovversivo come lo scrittore, la cui rivolta, immediatamente sublimata sotto la specie Letteratura, si riduce, in fondo, a fregio piccante del potere; in secondo luogo, questa Letteratura-istituzione persuade i Francesi che c’è un Essere complesso della Francia, armoniosamente duplice, temporale quando si tratta di affermare una potenza francese, spirituale in altri casi, dal momento che il paese dei colonnelli è quello stesso dei Descartes e Giraudoux; comodo congegno per far si che la Francia non sia mai là dove può correre il rischio di una delusione: atta a giustificare contemporaneamente la simpatia dei governi autoritari e quella degli intellettuali sovversivi, essa può dire come il pipistrello di La Fontaine:
Sono uccello: ecco le ali.
Sono topo: evviva i sorci.
Per disgrazia, chi fa Letteratura, di questo bel mito conosce solo il peso. Per motivi ancora oscuri (malgrado le notevoli. analisi di Sartre e di Blanchot, non si sa bene perché uno scrittore scriva) egli ha deciso di esprimere da sé una parola: ma questa parola la società gliela fornisce già alienata da due secoli di adozione borghese, gravata da un mito trionfante.
Che linguaggio può mai parlare? La grande lingua letteraria, quella che scorre da Racine a Claudel, incensata, imbalsamata, ufficiale? Ma è compromessa, anacronistica, è ormai una lingua di proprietari, di feudatari del pensiero.
La lingua in rivolta, quella che attenta al conformismo della forma, rabbiosamente o ironicamente, dai Surrealisti a Queneau? Nata libera non può durare senza far uso dei «segni» della sua libertà: eccola anche lei ornata, enfatica: niente di più teatrale che l’anarchia.
Non si sfugge alla Letteratura francese: è una terribile Imago, che autorizza o la sottomissione o il suicidio (il silenzio dì certi scrittori, che costituisce la più triste delle sconfitte).
Questa alternativa è veramente tragica: lo scrittore è come Orfeo: se si volta verso ciò che ama, lo distrugge, se guarda alla Letteratura, la perde. Scrivere significa essere condannati alla Letteratura.
Questa tragedia si manifesta al livello della Forma. Le idee sono leggere, ci vengono dalla storia, dall’ambiente, dalla coscienza, insomma da tutto ciò che in noi è chiaro, distaccato, dotato di generalità: le idee si prendono a prestito, si scambiano, legano gli uomini tra loro, partecipano della sicurezza dei grandi fatti sociali.
Ma il linguaggio? La più collettiva dì tutte le istituzioni è anche la più privata: tutta l’interiorità vi si accentra, la si descriva come una libertà, alla maniera di Sartre, o come un’opacità, alla maniera dì Freud, o non la si descriva affatto, alla maniera dei marxisti ortodossi; di modo che nell’uomo scrivere è il tratto più lungo, congiunge i termini più lontani, il grido e l’istituzione, la serietà interiore e la pompa artificiosa del grande stile.
Questa e la tensione vissuta dallo scrittore d’oggi; di più, è questo scacco a renderlo quello che è: un suicida in perpetua dilazione. Partito per uccidere la Letteratura, la Letteratura finisce sempre col recuperarlo: l’assassino si trova convertito in scrittore.
Ecco quanto questo libretto ha tentato di esporre, una diecina d’anni fa (fu dato alle stampe nel 1953, ma la stesura dei primi testi risale al 1947). Basti dire che all’origine di quella che parve a molti una tesi puramente intellettuale, c’è soprattutto un’affermazione esistenziale: il linguaggio letterario mi è intollerabile, e tuttavia non posso uscirne: riconosco la Letteratura e tuttavia ne aborrisco i segni.
O più esattamente: la Letteratura mi sì offre solo mediante i suoi segni e questa fatale percezione di un teatro del linguaggio origina in me una coscienza infelice. Ciò forse spiegherà, senza scusarli, i più grossi difetti dell’opera: una certa mancanza di controllo nella forma, le tracce di un pensiero troppo spesso confuso, astruso, talvolta anche vuoto, come succede ogni volta che il lirismo si concede dei diritti senza assumerli apertamente.
In breve, si trattava di un’ossessione, movimento che intralcia sempre molto la comunicazione.
Tuttavia, definendo, anche soggettivamente, la Letteratura come una Necessità, si doveva ben immaginare che questa Necessità non era di natura, che essa aveva insieme una storia e un funzionamento, di modo che, partito da un certo sentimento tragico, questo saggio ha ben presto incontrato ugualmente le esigenze dì una certa razionalità.
Questa razionalità mi si è presentata in primo luogo sotto i tratti della Storia: la contraddizione della scrittura letteraria è legata a una società determinata, non è che una conseguenza particolare della promozione borghese: e come non è naturale, certamente non sarà eterna (come del resto non lo sarà la Letteratura): è un fatto ideologico, dunque storico e partecipe di un certo processo.
In questa ossessione della Storia, curiosamente congiunta qui al sentimento tragico di cui parlavo più sopra, si ritroveranno facilmente due motivi dell’epoca: era l’indomani della Liberazione, si credeva a un vigoroso riordinamento dei vecchi valori, e si ebbe allora una volgarizzazione brusca e intensa del marxismo, dì cui ho beneficiato.
Grazie a Marx, tutto un ordine di intellettuali (e non più solamente politico) si scaltriva: l’idea di Natura indietreggiava, ogni fatto umano, ivi compreso il fatto estetico, appariva come la traccia di un fare, di una prassi.
Estesa alla scrittura letteraria, questa verità, mi persuadeva che se lo scrittore era al presente votato alla tragicità di un linguaggio impossibile, ciò accadeva in primo luogo per il suo essersi legato nella forma stessa alla borghesia; mentre in seguito, la coscienza di questo legame e di questa contraddizione, gli stessi sforzi disperati che lo scrittore faceva per vincerla, costituivano già un gesto considerevole.
C’era allora un’altra morale dell’impegno per garantire l’evidenza di una responsabilità politica della forma letteraria: il sartrismo; in ambedue era uno stesso movimento di emancipazione: dare finalmente allo scrittore la responsabilità di ciò che scrive, lo aggiungevo solamente: e del modo con cui scrive.
Ma si trattava allora di trovare un’altra ragione, strutturale e non più storica: vedere come funzionasse questo linguaggio letterario attraverso il quale lo scrittore francese si liberava e si alienava, con un solo e identico movimento costruttivo.
Non conoscevo Saussure, ma abbastanza uno dei suoi epigoni danesi, Viggo Bröndal, di cui mi avevano assai colpito alcune annotazioni sul grado ridotto dei modi verbali. Tentavo allora di distinguere nel linguaggio scritto tre piani: della lingua, dello stile e infine quello della scrittura, a cui devolvevo il compito politico, e di cui feci lo strumento proprio della responsabilità letteraria.
Che cosa è diventato questo libro, oggi? L’aspetto più invecchiato è forse l’importanza che in esso si attribuiva alla Storia nella formazione di una morale della scrittura. È un fatto, l’ossessione storica oggi non trova eco. Presso i romanzieri più giovani, nel nuovo cinema francese, si elabora una nuova “sensibilità”, ostile a ogni sistema, rinsaldata nella sua indifferenza intellettuale dal letargo politico della Francia, niente ne è tanto lontano quanto l’esigenza dì un impegno: è la parola più invecchiata da dieci anni a questa parte.
Non si tratta più di penetrare il mondo con spiegazioni, ipotesi, responsabilità: si tratta di viverlo tale e quale, alla lettera. In letteratura, in arte, corrispondentemente a questo talqualismo, vecchi miti reazionari, che ingenuamente si credeva di aver ucciso, riprendono una via insidiosa: lo scriver bene, l’innocenza dello scrittore, il senso psicologico delle anime, le storie d’amore, esclusa ogni tragicità; una retorica della solidarietà, miserevolmente sostituita all’esigenza di una riflessione politica esatta; e al di sopra di tutto, comune a tutta una parte della Francia attuale, un odio caldo dell’intelligenza.
Questa spoliicizzazione dell’arte, della Letteratura, non può essere accidentale, particolare. È l’espressione di una crisi generale che si potrebbe cosi definire: ideologicamente la borghesia non ha più realtà immediata, moltiplica gli schermi, i ricambi, le meditazioni: quasi non le si riconosce più una fisonomia, come anche al proletariato (se non coloniale): i bisogni sono meno visibili, le classi non si sentono più e tuttavia l’alienazione c’è sempre: l’uomo non è libero.
Che succede? La domanda sembra essere al centro di ogni riflessione ideologica. Ma è probabile che i pensatori occidentali dovranno fare lunghissimi giri per trovare la risposta.
Ciò significa che di fronte ai compiti complessi che aspettano l’intellettuale, questo libro sembrerà piuttosto precipitoso: ma è venuto alla luce in un’epoca impaziente, in cui si poteva credere vicinissimo il socialismo nel mondo, l’emancipazione della letteratura borghese.
E senza dubbio il ritardo non aggiunge niente, la strategia non può variare: si tratta sempre di denunciare l’«innocenza» della scrittura letteraria, di persuadere lo scrittore che non può credersi in coscienza un essere dell’Avere e del Pieno, munito di una forma come di un Diritto eterno, che la scrittura è legata in definitiva a una morale e non a un talento o a una natura.
Ma sugli argomenti, sul linguaggio stesso della dimostrazione, bisogna far la tara, è ciò di cui mi rendo conto rileggendo questo saggio.
Perché ciò che ne salverei dopo dieci anni, la probabilità di comunicativa che può ancora possedere, non è tanto la morale storica che esso propone quanto l’analisi strutturale che abbozza, non il programma quanto il metodo.
Dieci anni fa si credeva di dar fondo al reale descrivendo il suo processo, tutta la curiosità andava infatti alla scoperta di quei «ricambi» ambigui che la Storia dispone tra una società e l’arte che essa produce: situata per cosi dire a uguale distanza dalla lingua, pura norma sociale, e dallo stile, prodotto quasi biologico, la scrittura era uno di questi ricambi.
Oggi l’idea di struttura ha avuto considerevoli sviluppi, è piuttosto la natura funzionale di questo trittico che può provocare un’utile discussione: investigazione storica o analisi strutturale, la morale di questo processo è del resto sempre la stessa: la descrizione sincronica delle strutture, condotta in un certo modo, può risultare anch’essa armata di un efficace potere contro ogni mistificazione: come la Storia, l’idea di Cultura non è forse l’antidoto dell’idea di Natura?
Appunto scrivendo un saggio, posteriore a questo, sui miti della nostra vita quotidiana, ho preso coscienza del potere polemico del metodo strutturale, derivato dal Saussure, e applicato, fuori della linguistica, soprattutto da Claude Lévi-Strauss e J. Lacan. Ma al tempo stesso, l’opposizione tra la scrittura, la lingua e lo stile riacquistava ai miei occhi una nuova validità; mi accorgevo che cercando di fondare ciò che avevo chiamato la scrittura, come un segno, non avevo fatto altro che postulare l’importanza di questi sensi supplementari e quasi parassitari che la società sviluppa alla superficie dei suoi linguaggi che si pretendono innocenti, al fine di reintrodurre la sicurezza di una natura nell’arbitrarietà dei segni di cui essa si serve per comunicare: la semiologia allo stesso titolo dell’analisi marxista, è essenzialmente una maniera di denunciare il carattere costruito delle ideologie, di mostrare come il reale è sempre connotato dagli uomini, di descrivere gli effetti di impostura o di sogno prodotti dalla collusione dei due sensi, l’uno letterale l’altro mitico su uno stesso oggetto.
Il grado zero della scrittura, se si potesse spogliare dei suoi difetti, è insomma una mitologia del linguaggio letterario. Se dovessi rifare quest’opera, ecco quanto sarei portato a sviluppare in essa.
Settembre 1959
Fonte: Roland Barthes, Il grado zero della scrittura, Milano, Lerici editore, 1960, pp. 9–18.