Il fiore delle mille e una notte di Pier Paolo Pasolini nella critica del tempo

Mario Mancini
10 min readFeb 14, 2021

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La schiava Zumurrud è il filo conduttore del film.

La verità intera non è mai un solo sogno, ma molti sogni.

Un film di pura poesia delle immagini

Dacia Maraini

È il terzo capitolo di quella che Pasolini chiamava la “trilogia della vita” in contrapposto a quella sulla morte che aveva in mente (ma di cui fu realizzato solo il primo segmento, Salò). Dopo Boccaccio e Geoffrey Chaucer, qui il regista friulano attinge alla novellistica orientale. Pasolini ha abolito il filo conduttore delle Mille e una notte, cioè l’intervento della bella Sheherazade in veste di narratrice, ma ha serbato alcuni celebri episodi. Il fiore delle mille e una notte è forse il più prodigo di belle immagini dei film di Pasolini, ma è anche quello più almanaccato.

Gian Luigi Rondi

Un film semplicissimo, ma anche difficile, suscettibile di letture molteplici: stilistiche, ideologiche, etnologiche.

Incominciamo dal testo. La sua fonte, naturalmente, sono Le mille e una notte, l’opera letteraria più famosa della civiltà araba da cui, come dal Decamerone e dai Racconti di Canterbury, è nata tutta intera una letteratura (e per questo Pier Paolo Pasolini vi ha fatto ricorso per il suo ultimo film della “Trilogia della vita”, sorretta all’interno dal denominatore comune della nostalgia del passato).

Le novelle scelte sono una decina, volutamente le meno note, con un filo conduttore che riassume in chiave meno favolistica quello di Shahrazàd e del re Shahriyàr sostituendolo con quello del giovinetto Nur ed-Din che vaga disperatamente alla ricerca della sua amatissima schiava Zumurrud rapita da un rivale.

I canovacci delle novelle riproducono fedelmente quelli della celebre raccolta, con varie contaminazioni, però, e delle concatenazioni ripetute che, facendo scaturire i vari racconti l’uno dall’altro e intersecandoli, danno alla struttura narrativa un aspetto concentrico, quasi a scatola cinese. I personaggi, gli uni “raccontandosi” agli altri, oltre ai due innamorati che reggono le fila della narrazione, sono re, principi, demoni, giganti e geni.

Quello però che ha attratto Pasolini nelle novelle non è tanto il “loro carattere fiabesco, esotico, magico, quanto il loro realismo: il senso esistenziale della vita quotidiana dell’antico mondo arabo e la rappresentazione della società osservata con rigore quasi etimologico “.

Un realismo, comunque, in cui è possibile “vedere il Destino alacremente all’opera, intento a sfasare la realtà: non verso il surrealismo e la magia, ma verso l’irragionevolezza rivelatrice della vita, che solo se esaminata come “sogno” o “visione” appare come significativa”.

Realismo, dunque, ma in un contesto “visionario, in cui i personaggi sono “rapiti” e costretti a un’ansia conoscitiva involontaria, il cui oggetto sono gli avvenimenti che gli accadono”. Svolti, questi avvenimenti, costruiti questi personaggi con una struttura di racconto che tende volutamente al discorso piano, diretto, immedesimandosi ai toni di esposizione grezzi e popolari di quei tanti narratori che, ricchi e poveri, principi e mendicanti hanno tutti una identica cultura (“in questa unità di potenti e di sudditi consiste il fascino delle Mille e una notte”. ha ricordato Pasolini).

Taluno potrà restare sconcertato da questa semplicità che, specie in certe svolte del racconto, quando un narratore, ad esempio, passa la mano ad un altro perché prosegua nelle rievocazioni, svela apparenze così rustiche da parere addirittura elementari. Le ragioni, però, vanno ricercate in quella volontà dell’autore di porsi oggettivamente dalla parte di chi ricorda e ricrea le proprie gesta nell’ambito della propria cultura (come già nel Decameron, come già nei Racconti di Canterbury); e preferire qui una narrazione di tipo tradizionale o estetizzante vorrebbe dire non intendere il succo dell’operazione letteraria tentata ancora una volta da Pasolini; né i suoi criteri d’interpretazione.

Lo stesso principio, naturalmente, sorregge poi la “messa in scena” del testo, affidata appunto ad un “realismo visionario” in cui tutto, anche il favoloso, appare nitido e concreto e in cui, contemporaneamente, il reale, pur nella sua secchezza, ha sempre un sottofondo onirico; senza misteri, ma pieno di sospensioni, di tensione.

Un “cinema, cinema”. come lo ha definito l’autore, “un cinema come lo si vedeva da ragazza senza con questo cadere nel commerciale o nel qualunquistico”. Il cinema che, anche quando narra di uomini che volano o di demoni con capelli rossi o di montagne incantate, non si studia mai di fabbricare effetti, preziosismi, ma al contrario ha sempre un tono di spontaneità; e di vita vissuta.

Sostiene, questo tipo di cinema, la cornice-personaggio: un mondo arabo “ricostruito” dal vero nello Yemen (una “mirabile architettura tutta in verticale di case alte e povere, l’una a fianco dell’altra nelle anguste stradine), nel Nepal, nell’Hadramut, in Iran (soprattutto fra le moschee azzurro e oro di Isfahan), e in Eritrea, tra Cheren e Agordat (dove “tutto ha l’immensità e il silenzio dell’Africa ma non è Africa” perché a cristianità sembra aver culturizzato anche la natura, dandole il particolare aspetto copto: il clima dell’altipiano, i vestiti bianchi e le cappe scure, gli ombrelli preziosi e i monasteri rustici a forma di tucul).

Fasciata, questa cornice, da immagini (di Giuseppe Ruzzolini) in cui si fa colore totale il realismo visionario perseguito dall’autore; con l’incanto di tinte luminose che quietamente sanno stemperarsi in una patina ora fumosa e gessosa, ora brumosa e terrosa; tutta ruvida, quotidiana concretezza. Mentre di sfondo, discretamente, le musiche di Ennio Morricone alternano con sapienza le autentiche cantilene arabe agli echi sommessi di musiche mozartiane allentate nei tempi, nei ritmi.

Il film, certo — specie per quella sua struttura a incastro — non si fa seguire tanto facilmente; le novelle rimandandosi l’una all’altra, rischiano di generare confusione attorno a parecchi personaggi e in generale quell’immediatezza puntigliosamente oggettiva con cui sono trattenuti le impennate e i voli del mondo tradizionale mirabolante e fantasioso delle Mille e una notte frenato nei suoi impeti più caldi (fuorché nell’erotismo a più livelli, accentuato, invece, e marcato) rischia di generare molta freddezza di toni; sostituendo all’esplosione del dramma soltanto il suo enunciato.

Questo, però, è il tipo di cinema cui si è ispirato Pasolini dal Decameron ad oggi. C’è chi lo esalta, c’è chi non lo accetta, c’è chi, pur accettandolo, lo discute. Pasolini, comunque, ha avvertito: “Io vado avanti su questa strada malgrado tutti mi chiedano. “Quando tornerai a fare i film di una volta?. Non hanno capito che se da me aspettano lo scandalo, lo scandalo è questo ”. La dichiarazione è onesta, responsabile. E anche questa volta, non si può non prenderne atto. Con rispetto.

Da ricordare, fra gli interpreti, Ninetto Davoli, Franco Citti e molti non professionisti arabi doppiati tutti con accenti popolareschi o addirittura dialettali del nostro Sud per rispecchiare la base comune di un certo tipo di cultura sottoproletaria e del Terzo Mondo. I costumi, studiatissimi nella loro semplicità, sono di Danilo Donati.

Da Il Tempo, 23 agosto 1974

Dacia Maraini

Fui coinvolta da Pier Paolo nella sceneggiatura di Il fiore delle Mille e una notte perché aveva appena letto e apprezzato il mio libro Memorie di una ladra.

Forse quel romanzo picaresco lo indusse a pensare che ero la persona adatta a scrivere un adattamento del film tratto dalle novelle orientali. Ci trasferimmo nella casa di Sabaudia e iniziammo a leggere insieme i racconti, a scambiarci idee e pareri. Concludemmo la sceneggiatura in soli 15 giorni, lavorando in media 16–17 ore al giorno, senza neppure la pausa per un bagno in mare. Pier Paolo era molto rigoroso, capace di lavorare senza interruzione dalle 6 di mattina a mezzanotte.

A me aveva assegnato le parti femminili, in particolare i dialoghi della schiava Zumurrud. La mattina ognuno scriveva per conto suo, e il pomeriggio lavoravamo insieme. A lui regista toccava dire l’ultima parola, ma lo fece senza mai essere impositivo, anche perché era una persona squisita, che non alzava mai la voce.

Ne Il fiore delle Mille e una notte ci sono molti più personaggi femminili di quanti ne compaiono in tutti gli altri suoi film. Personaggi corposi, gioiosi, che contano di più e sono più caratterizzati del solito, forse anche per la grazia picaresca della storia. La schiava Zumurrud è il filo conduttore a cui tornano tutte le storie: una donna ricca di personalità, furba e intelligente, che riesce a farsi scegliere dal suo futuro padrone, anzi è lei a effettuare la scelta. Qui le donne non sono presenze sullo sfondo, ma protagoniste della storia. Questa forte componente femminile si deve forse anche al mio intervento nella sceneggiatura.

Il fiore delle Mille e una notte è l’ultimo film della Trilogia della vita, ed è anche l’ultimo film di Pier Paolo in cui ci sono allegria, voglia di vivere e uno sguardo gioioso di aspettativa. Con il successivo Salò o le 120 giornate di Sodoma, sono intervenute la cupezza, la morte, l’orrore e la perdita di fiducia nel mondo e negli uomini. Vidi Salò insieme a lui, poco prima che morisse. Ricordo che fu molto difficile dirgli cosa ne pensavo, perché era un amico e non volevo offenderlo. Il film era bello ma disperante, sgradevole da vedere, difficile da digerire e sostenere fino in fondo.

L’incontro con il mondo arcaico africano

All’epoca de Il fiore delle mille e una notte io e Pier Paolo ci frequentavamo da almeno 10 anni, cioè dal 1963, quando ci conoscemmo grazie a Moravia, suo grande amico. Insieme avevamo comprato una casa a Sabaudia, dove passavamo molto tempo, quasi fosse una convivenza.

E noi tre insieme facemmo molti viaggi in Africa, una terra che ci affascinava. Per Pier Paolo rappresentava l’incontro con un mondo arcaico, ingenuo e incontaminato, completamente diverso dall’Africa di oggi, devastata da guerre e malattie. Era una società pacifica e misteriosa, un continente straordinario e remoto, ancora intimamente legato alla natura, “lontano millenni”. Pier Paolo, che era attratto dal sottoproletariato, vi trovava un mondo contadino arcaico e fresco. Nel corso di questi viaggi girò Appunti per un’Orestiade africana e testimone di quell’avventura scattai numerose fotografie.

I viaggi in Africa rientravano anche in un approccio intellettuale, grazie al quale Pier Paolo arricchiva di riferimenti colti tutti i suoi lavori, in particolare quelli cinematografici. Era preparatissimo in tutti i settori: pittura, letteratura, musica. Da una parte attingeva, senza filtri, a una realtà quasi documentaria. Non a caso prediligeva attori non professionisti e set autentici, reali, evitando per quanto possibile di ricostruire in studio. Dall’altra si serviva di filtri colti, con citazioni da molte fonti importanti. Ad esempio La ricotta aveva riferimenti precisi alla pittura cinquecentesca del Pontormo. Pier Paolo ricostruì le croci basandosi sui suoi quadri, e altrettanto fece con i costumi e altre scene.

L’unico modo di essere suoi amici

Pier Paolo aveva con me e con Alberto Moravia un rapporto di grande intesa e confidenza. Tra noi non era necessario parlare, ci capivamo anche con il silenzio, era come stare in famiglia. E questo era il modo giusto, o forse l’unico, di essere amici di Pasolini, perché era una persona quasi morbosamente timida.

Un uomo delicato ma chiuso, severo, con cui era difficile instaurare un rapporto, perché non era un conversatore. Aveva però intensi rapporti di amicizia con persone caratterialmente all’opposto: cordiali, amiconi facili alla comunicazione, come Ninetto Davoli. Pier Paolo era attratto proprio dalla loro espansività, che lo compensava del suo continuo silenzio impacciato. Nonostante ciò era gentilissimo, né urlava, né maltrattava nessuno sul set, anche perché non ne aveva bisogno. Sapeva farsi rispettare grazie alla ferrea volontà e all’autorevolezza.

Questo suo carattere lo spingeva ad avere rapporti molto diversi con le persone che lavoravano con lui. Una profonda amicizia e confidenza lo legavano a me, Moravia e Ninetto Davoli, mentre aveva un rapporto professionale, distaccato e pudico, con artisti come Dante Ferretti o Ennio Morricone, nonostante lavorasse con loro da anni.

Con Il fiore delle Mille e una notte Pasolini firma il capitolo più affascinante della Trilogia della vita. “Poi ho fatto questo gruppo che io chiamo ‘trilogia della vita’, cioè i film sulla fisicità umana e sul sesso. Questi film sono abbastanza facili, e io li ho fatti per opporre al presente consumistico un passato recentissimo dove il corpo umano e i rapporti umani erano ancora reali, benché arcaici, benché preistorici, benché rozzi, però tuttavia erano reali, e opponevano questa realtà all’irrealtà della civiltà consumistica. Ma anche questi film sono stati in un certo senso superati, resi vecchi dalla tolleranza della civiltà dei consumi”.

Mentre si accinge a realizzare la parte più fortunata della sua carriera cinematografica, [Pasolini] sente di aver raggiunto la maturità esistenziale e con essa la conquista della leggerezza e dell’umorismo: diventando vecchi — dice — il futuro si accorcia, pesa di meno. “Finalmente vivendo come gli uccelli del cielo e i gigli dei campi, cioè non occupandomi più del domani mi godo un po’ di libertà e di vita (quest’ultima l’ho tutta molto goduta specie nel campo erotico ma dissociandomi) […] Godere la vita (nel corpo) significa appunto godere una vita che storicamente non c’è più: e il viverla è dunque reazionario. Io pronuncio da tanto tempo posizioni reazionarie. E sto pensando a un saggio intitolato Come recuperare alla rivoluzione alcune affermazioni reazionarie?”

Il fiore delle Mille e una notte è una sorta di affresco di un mondo, passato e presente — quel Terzo Mondo dal il quale il regista, da qualche anno, si sentiva particolarmente affascinato e attratto — attraversato da un grande senso di serenità e di sensualità mai presente prima, in questo modo, nei film di Pasolini. Egli mette in scena, dunque, il suo sogno, la sua idealizzazione e mitizzazione del Terzo Mondo. In tal modo, il sesso viene liberato dagli aspetti legati al reciproco possesso, alla prevaricazione, al predominio. Vi è pienamente realizzata una libertà sessuale che è anche simbolo di purezza dei sentimenti, che fa sì che il sesso non appaia mai né morboso né osceno, ma rappresenti invece un dono reciproco, innocente e delicato, soprattutto libero da inibizioni e sovrastrutture culturali.

Pasolini esprime, con Il fiore delle Mille e una notte, un cinema di “pura poesia delle immagini”, riuscendo a trovare un sereno equilibrio tra alcune componenti essenziali già presenti nei suoi film precedenti, particolarmente in Edipo re e in Medea: il richiamo prepotente alla sessualità e la grandiosa maestosità dei paesaggi, ricchi di valenze pittoriche e di un acuto, sensibilissimo senso artistico.

Il regista fa doppiare i suoi personaggi con marcati dialetti del Sud Italia che si adattano alla perfezione ai volti straordinari delle persone del luogo che Pasolini sceglie, come sempre, “dalla strada”. Ancora una volta, Ennio Morricone è il curatore delle musiche nel film.

L’Etiopia, la Persia, lo Yemen, l’India, il Nepal forniscono gli incredibili scenari, di antica bellezza, al film e concorrono a descrivere un mondo di sogni e di emozioni che è anche la rappresentazione dolce e fascinosa di ciò che per Pasolini è il Terzo Mondo.

Da In due settimane scrivemmo Il fiore delle mille e una notte in “Cinecittà News Paper” n. 4, 2005.

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.