Il concetto di estasi in Plotino
di Emanuele Severino
Anche se Plotino considera il cristianesimo sempre nella forma da esso assunta nello gnosticismo, la sua critica allo gnosticismo investe anche il cristianesimo. Infatti, in Plotino, come in Platone e Aristotele, l’Uno produce l’universo non rivolgendosi a esso: non ama il mondo, ma è amato dal mondo; quindi sono assenti le condizioni per le quali l’Uno voglia salvare il mondo — direttamente o mediante un salvatore. L’Uno dona ogni bene all’altro da sé per la necessità della sua natura sovrabbondante, come appartiene alla natura della luce illuminare le cose.
È invece il mondo, l’uomo, che salvano sé stessi rivolgendosi verso il Bene, da esso attratti, e l’anima dell’uomo può a tal punto spogliarsi della propria umanità da trovare in sé stessa quell’Uno infinito ed eterno che sembra così estraneo alla nostra vita. Non al cristianesimo, quindi, ma piuttosto alle l’Upanishad, dove si esprime potentemente l’antica sapienza dell’Oriente, Plotino può sentirsi vicino e avvertire certe fondamentali consonanze tra la filosofia greca e la sapienza orientale (che, d’altra parte, gli giunge ormai già penetrata e interpretata dalle categorie di fondo del pensiero greco).
Nel rapporto tra l’Uno e l’anima dell’uomo il Circolo dell’essere assume un aspetto specifico. Anche l’anima umana, come ogni altra forma, appartiene originariamente allo Spirito. Qui, essa è “Uomo dello Spirito”, un “Dio”. Ma nella discesa inevitabile dallo Spirito all’anima, l’Uomo dello Spirito diventa uomo del mondo. La nascita stessa dell’anima terrena — e per Plotino l’uomo è l’anima, che si trova incarnata nel corpo — e la sua volontà di appartenere a sé stessa, dimenticando il divino e bramando la vita terrena, sono la “colpa” inevitabile che è per altro il “castigo” di sé stessa.
In questo senso, come aveva detto Anassimandro all’inizio del pensiero filosofico, la separazione dall’Uno è l’“ingiustizia” di cui si paga il fio per il fatto stesso di essere così separati. La “giustizia” è ripristinata solo se l’anima si rivolge verso il Bene e, come nel mito platonico della caverna, risale verso di esso. E non sono le opere e le azioni che possono condurla verso il Bene, ma la contemplazione di esso — secondo il teorema fondamentale della filosofia greca.
Il rivolgersi nuovamente verso il Bene è lo stesso aspetto ascendente della dialettica. La vera libertà dell’anima consiste in questa ascesa, dove l’anima si risveglia dal sogno che l’aveva portata nel mondo. Tale risveglio è anche la vera resurrezione, «quella vera resurrezione — afferma Plotino contro il cristianesimo — che è dal corpo, non col corpo», poiché risorgere con un corpo equivale a cadere da un sonno in un altro.
La resurrezione dal corpo può avvenire già in questa vita, analogamente a quanto avevano pensato gli stoici e Pirrone. Ma all’anima è possibile essere felice anche tra i più atroci tormenti del corpo a condizione che l’anima che afferma la propria felicità non sia l’anima che soffre (e che soffre perché si volge ancora verso il mondo). L’anima che afferma di essere felice anche tra i tormenti del corpo è quella che, restando in sé stessa, «non ha perduto in nulla la visione del Bene, nella sua pienezza».
Se il processo, l’“emanazione” che conduce dall’Uno alla materia è una “differenziazione” (cioè passaggio dall’Uno al molteplice), il ritorno all’Uno è una “semplificazione”. Che però non impoverisce, ma arricchisce, perché è il ricostituirsi progressivo dell’unità che era andata affievolendosi con l’emancipazione del molteplice. «Spogliati di tutto»: non solo delle passioni e del corpo, ma della stessa ragione e conoscenza: non per cadere in un vago sentimento, ma per spingere al massimo la contemplazione di quell’Uno supremo che sta al di sopra dello Spirito e della conoscenza umana di esso. «Tu accresci dunque te stesso, dopo aver gettato via il resto: e ti si fa presente, dopo tale rinunzia, il tutto.» Allora l’anima scorge in sé l’Uno, e tra essa e l’Uno non c’è più nulla, ed essi non sono più due, ma una cosa sola.
Questa unione è chiamata da Plotino anche “estasi”, cioè “semplificazione estrema e dedizione di sé”, culmine della contemplazione e quindi culmine dell’epistéme. Ma L’“estasi” è anche il ripristinarsi del Circolo — che dunque diventa Circolo infinito, come intenderà Hegel –, perché se l’uomo diventa pura visione del divino e il divino è sovrabbondanza che esce da sé e conduce dall’Uno al molteplice, non ne segue allora che anche la visione dell’Uno, l’estasi, nell’atto stesso in cui si india, incomincia a inseguire la vicenda in cui Dio si fa mondo?
Nel Circolo dell’essere, il processo che porta dall’Uno alla materia è necessario, necessariamente determinato dalla assoluta sovrabbondanza dell’Uno e dalla sovrabbondanza che Spirito e Anima posseggono in quanto la ricevono dall’Uno. E poiché tutto ciò che è altro dall’Uno si rivolge e tende inevitabilmente all’Uno, che è il Bene, anche il secondo Semicerchio del Circolò — la conversione di tutte le cose verso l’Uno — è a sua volta un processo necessario. Se la genesi dell’universo è il passaggio dal mondo delle ipòstasi al mondo corporeo e sensibile, la corruzione e morte delle cose dell’universo è un ritornare là donde sono venute. Non solo vivendo, ma anche morendo la realtà si rivolge all’Uno.
In questo Circolo, l’anima dell’uomo è qualcosa di unico, protagonista di una vicenda che solo a essa compete. Tra gli enti generati è l’unico che può dimenticare il Dio e la pro-
pria origine divina, l’unico a poter realizzare l’estrema ingiustizia voltando le spalle al divino e desiderando le cose terrene; ma è anche l’unico a poter realizzare quell’“estasi”, quella semplificazione estrema e dedizione di sé, quella totale spoliazione di sé che la rende una cosa sola con l’Uno. L’estrema ingiustizia chiama la giustizia estrema.
A tanto non può arrivare non solo l’Anima come ipòstasi eterna, ma nemmeno lo Spirito, che, nel Tutto, è il più vicino all’Uno. È infatti proprio l’eternità delle perfezioni che costituiscono le ipòstasi dell’Anima e dello Spirito a impedir loro di spogliarsi di sé e di essere semplificazione e dedizione estrema di sé. È il loro mantenersi in sé, pur volgendosi all’Uno, che assicura l’esistenza del Circolo del Tutto. La loro stessa divinità impedisce loro di portarsi al culmine del divino. Anche l’anima dell’uomo è divina, ma, si è detto, è il divino che può dimenticarsi della propria origine e non ha il compito di reggere la vita del Tutto. Appunto per questo l’anima umana può spogliarsi di sé e «nuda di forme», «spegnendo perfino la conoscenza del proprio essere», «immergersi nella contemplazione di lui».
Il testo più antico che ci sia rimasto della filosofia greca è l’unico frammento di Anassimandro che è giunto sino a noi e al quale più volte ci siamo riferiti. In modo ancora enigmatico, parla del Circolo dell’Essere. Dice: «Onde è la nascita per le cose che esistono, lì dentro si compie anche la loro dissoluzione secondo necessità; infatti ristabiliscono la giustizia e compensano l’ingiustizia perpetrata seguendo l’ordinamento del tempo». Il pensiero di Plotino è il modo in cui questo inizio si ripresenta al termine della filosofia greca.
Da Emanule Severino, La filosofia del greci al nostro tempo. La filosofia antica e medievale, Garzanti, Milano, 2004, pp. 265–268