Il cinema e la lingua orale

Mario Mancini
5 min readFeb 22, 2021

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di Pier Paolo Pasolini

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L’immagine e la parola, nel cinema, sono una cosa sola: un topos. Dipende dall’ubicazione dello spettatore percepirla come ima cosa sola o una cosa (poco o molto) divisa e dissociata. Delle volte sembra incredibile la distanza che divide lo scoppio di un tuono dalla luce del lampo: cioè sembra incredibile tanta diacronia tra immagine e suono. Ho visto doppiatolo lo stupendo Racconti della luna pallida d’agosto, e le parole doppiate dal giapponese non avevano nulla a che fare con le persone che parlavano: accadevano in due tempi assolutamente diversi. Ala non bisogna lasciarsi ingannare da questi casi limite, e neanche dai casi più normali, ossia dalla maggioranza dei casi (i film, specialmente in Italia, per via appunto del doppiaggio, sono sempre parlati male: e il tuono è una specie di rigurgito o di sbadiglio che zoppica dietro al lampo). In realtà il fenomeno del lampo e del tuono è un fenomeno atmosferico unico: il cinema è cioè audiovisivo.

Capisco l’incanto dell’idea retorica ilei cinema come pura immagine. Anzi, addirittura io stesso faccio del cinema muto, con indescrivibile piacere. Ma fare del cinema muto non è che una restrizione metrica, come per esempio, in poesia, la terza rima, che riduce infinitamente la possibilità di parlare il parlabile, crescendo smisuratamente la possibilità di parlare l’imparlabile. I difensori (antiquati) del cinema muto come unico “optimum”, anzi, in conclusione come “norma”, appunto retorica — attribuiscono, nel cinema, alla parola, naturalmente orale, una funzione ancillare. Come per esempio nel melodramma. Le parole della Traviata, dicono, sono sciocche e ridicole, esteticamente non solo prive di valore, ma anzi quasi offensive al buon gusto: eppure ciò non conta niente. È la musica che conta, dicono. Questa affermazione sembra così piena di buon senso, e invece è completamente insensata. Chi dice questo ignora la “ambiguità” della parola poetica: l’ineliminabile contrasto in essa tra “senso” e “suono”. La poesia è (Valery, citato da Jakobson) “une exitation prolongée entre le sens et le son”. Onde ogni poesia è metalinguistica, perché ogni parola poetica è una scelta non compiuta tra il suo valore fonico e il suo valore semantico. Il rovesciamento dei rapporti tra contiguità e similarità (sempre Jakobson) moltiplica smisuratamente la polisemia della parola poetica.

In conclusione: in ogni poesia si ha inevitabilmente quella che si dice dilatazione semantica”. Ciò è spinto al parossismo nei poeti simbolisti, esempio: ma è fenomeno rintracciabile in tutti i linguaggi poetici del mondo. È il suono (pronunciato a voce alta o sentito nella testa, così come il musicista sente la musica leggendo lo spartito) che deraglia, deforma, propaga per altre strade il senso. Ora la musica applicata alle parole non è che il caso limite di quanto ho detto. La musica distrugge il “suono” della parola e lo sostituisce con un altro: e questa distruzione è la prima operazione. Una volta sostituitasi al suono della parola, provvede poi essa a operarne la “dilatazione semantica”: e che po’ po’ di dilatazione semantica ha nelle parole della Traviata! Se il suono della parola “nudo” può dilatare il senso della parola stessa verso le “nuvole”, e creare qualcosa che sta tra il significato “corpo denudato” e il significato “cielo nuvoloso”, figurarsi cosa può fare, della stessa parola, un do di petto!

Le parole non sono dunque affatto ancillari, nel melodramma: sono importantissime e essenziali. Solo che l’esitazione tra il senso e il suono, in esse, ha l’apparenza di un’opzione per la scelta del suono: e tale suono, poi, dato soppiantato da un suono che e altro rispetto a quello fonico, e che essendo infinitamente più suono, ha possibilità infinitamente maggiori di operare delle dilatazioni semantiche. Nel cinema la parola (a parte i casi meno rilevanti dei “cartelli” o dei “titoli di testa”) va considerata nel suo aspetto ORALE. È questo che fa perdere la testa a coloro che non hanno avuto occasione di leggere almeno Morris. E che dunque sono convinti che la lingua sia un sistema privilegiato a sé, e non uno dei tanti possibili sistemi di segni, tra, noi siamo abituati da secoli di storia a dare valutazioni estetiche esclusivamente sulla parola scritta. Essa sola ci pare degna di essere non solo estetica, ma anche semplicemente letteraria. Poiché invece nel cinema la parola è orale, essa viene naturalmente vista come prodotto di poco pregio, addirittura spregiato. Avrei voluto vedere questi abitudinari ascoltare la parola orale dì Omero, quando diceva i suoi poemi, in tempi in cui né la scrittura né la stampa erano inventate. Uh, certo, era più difficile il giudizio: come ora e più difficile capire se un verso è bello o brutto se ascoltato alla voce di un attore: perché c’è di mezzo appunto la voce dell’attore e la sua interpretazione. Sempre Jakobson, mi pare, ha fatto pronunciare a un attore una quarantina di volte la parola “Buonasera” con una quarantina di sensi diversi.

Ciò non toglie che la poesia orale abbia diritto di essere, anzi, ci sia. Gli esteti sono impazziti Per anni a cercare la differenza tra parola scritta del testo teatrale (scritta e quindi letteraria) e la parola detta della recita; come ora impazziscono a cercare la differenza tra parola scritta della sceneggiatura e rappresentazione cinematografica. È solo la semiologia che può risolvere questi problemi, con le sue descrizioni dei diversi “sistemi di segni”, che in molti casi si prestano l’un l’altro a essere il grado più elementare della “doppia articolazione” (cfr. Umberto Eco).

Un oggettivo esame del sistema di segni del cinema ci rivela prima di tutto che esso è audiovisivo: immagine e suono sono, come direbbe uno storico delle religioni, una “biunìtà”. Questa è una osservazione semiologica: che cosa se ne può fare un artista? Nulla. È una osservazione evidentemente del tutto descrittiva, esercitata su ciò che c’è. Un artista — che può benissimo non saper nulla di semiologia — può invece dirsi: “Che meravigliosa occasione”. Facendo parlare i miei personaggi anziché una lingua naturalistica o puramente informativa, solo prudentemente dotata di punte dì espressività e dì vivacità — facendo parlare i miei personaggi, anziché questa lingua, il metalinguaggio della poesia, risusciterei la poesia orale (andata da secoli perduta anche nel teatro) come una tecnica nuova, che non può non costringere a una serie di riflessioni: a) sulla poesia stessa, b) sulla sua destinazione.”

Da Cinema nuovo, n. 201, settembre-ottobre 1969

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.