Idealismo tedesco: l’intera realtà è un pensato
di Emanuele Severino
Certezza e verità
La filosofia antica e quella medioevale affermano che la realtà (la “verità”) è conoscibile dal pensiero (o “certezza”) dell’uomo, e, propriamente, dal pensiero epistemico filosofico; ma affermano anche, senz’altro, che la realtà è esterna al pensiero e indipendente da esso: affermazione immediata dell’identità di certezza e verità.
La filosofia moderna, fino a Kant compreso, continua a tener fermo il principio che la realtà vera e propria esiste esternamente e indipendentemente dal pensiero, ma a cominciare da Cartesio mette in rilievo che il contenuto del pensiero, ossia tutto ciò che il pensiero pensa — e quindi l’intera realtà che ci sta dinanzi, che sperimentiamo e in cui viviamo — è, appunto, un pensato, cioè idea, rappresentazione umana (l’“essere oggettivo” di Cartesio, il “fenomeno” di Kant).
Il contenuto del pensiero, pertanto, non è la realtà vera e propria che esiste esternamente e indipendentemente dal pensiero (la realtà cioè che corrisponde all’“essere formale” di Cartesio e alla “cosa in sé” di Kant). Il pensiero moderno preidealistico afferma cioè l’opposizione di certezza e verità.
Razionalismo e empirismo
Il razionalismo ritiene che per mostrare la concordanza tra le rappresentazioni del pensiero e la realtà in sé stessa occorra un procedimento argomentativo, una mediazione che unisca il pensiero alla realtà in sé.
E, nel razionalismo, è la metafisica a costituire tale mediazione.
Nell’empirismo, invece, questa funzione della metafisica vien meno; e sebbene nemmeno Hume sostenga che la totalità del reale coincida con l’esperienza, tuttavia con Hume l’empirismo perviene allo scetticismo più completo relativamente al mondo corporeo esterno (res extensa), all’anima spirituale (res cogitans) e a Dio, i contenuti, rispettivamente, della “cosmologia”, della “psicologia” e della “teologia razionale”, cioè delle tre parti in cui si suddivide tradizionalmente la metafisica in quanto scienza delle regioni preminenti della realtà.
Anche se si tratta di una approssimazione che va accompagnata da tutta una serie di riserve, si può dire che la filosofia moderna, con Hume, ritorna al suo punto di partenza, cioè al cogito cartesiano, oltre il quale il razionalismo si era voluto avventurare. Il punto di partenza dell’epistéme diventa il punto di arrivo.
Kant e la cosa in sé
Con Kant lo scetticismo relativo alla conoscenza delle cose in sé stesse riceve l’espressione più consapevole e più perentoria; ma è altrettanto consapevole e perentoria la riaffermazione dell’epistéme nell’ambito della soggettività trascendentale: l’epistéme è la “critica della ragione”, ossia è la coscienza che la ragione ha dei propri limiti.
L’epistéme è quindi, nelle sue fondamenta, la consapevolezza che la “cosa in sé”, ossia ciò che esiste esternamente e indipendentemente dalla conoscenza umana, è destinata a restare inconoscibile perché qualsiasi presunta conoscenza di essa non potrebbe portarsi al di fuori del conoscere e cogliere la cosa come è in sé stessa.
Non solo si deve dire, come già Cartesio diceva, che il mondo che sperimentiamo è rappresentazione (e non “cosa in sé”), ma si deve dire anche che la rappresentazione non può in alcun modo uscire da sé stessa, che il conoscere non può in alcun modo uscire da sé per quanto esso si sviluppi e si approfondisca, e che quindi le cose in sé sono assolutamente inconoscibili e la metafisica — la quale vuol essere appunto la conoscenza delle cose in sé — è impossibile come scienza.
Il contenuto della conoscenza umana può essere soltanto “fenomeno”, realtà che appare a noi. (“Fenomenismo” è il termine col quale viene indicata questa tesi.) Da tutto questo appare con chiarezza che l’affermazione kantiana dell’inconoscibilità delle cose in sé ha senso soltanto in relazione al riconoscimento dell’esistenza delle cose in sé: se quest’ultime non esistessero, non si potrebbe nemmeno affermare che esse sono inconoscibili.
Ma anche per Kant — come per Cartesio e Aristotele — è fuori discussione che esternamente e indipendentemente dalla conoscenza umana esiste il regno delle cose in sé, dalle quali in ultima analisi dipende il destino dell’uomo. Anche il fenomenismo kantiano è dunque un realismo — ossia è affermazione che la res, la cosa, è indipendente ed esterna rispetto al conoscere.
Idealismo come oltrepassamento del realismo
L’idealismo è l’oltrepassamento del realismo — di un atteggiamento cioè che non solo è presente sin dall’inizio nello sviluppo della filosofia, ma è rintracciabile anche nella più lontana esistenza prefilosofica dell’uomo e in tutte le forme di civiltà.
In questo senso, l’idealismo è una rivoluzione ancora più profonda di quella costituita dal criticismo kantiano. E tuttavia l’idealismo è la coerenza della filosofia kantiana, come quest’ultima è la coerenza e la conseguenza inevitabile del modo di pensare inaugurato dalla filosofia moderna (e come tale modo di pensare — l’affermazione cioè dell’opposizione di certezza e verità — è a sua volta conseguenza inevitabile della persuasione che la realtà sia esterna e indipendente rispetto al conoscere umano).
Si tratta di comprendere — in questo consiste l’essenza dell’idealismo — che il concetto di “cosa in sé” è contraddittorio.
La “cosa in sé” è infatti la cosa come essa è al di fuori e indipendentemente dal suo essere conosciuta: è la cosa, chiusa in sé e chiusa al conoscere. Ma nel concetto di “cosa in sé”, la cosa in sé è, appunto, concepita, cioè conosciuta, e, in quanto concepita e conosciuta, essa non è chiusa in sé e chiusa al conoscere, ma aperta al conoscere. Proprio perché è concepita, la “cosa in sé” non può essere in sé.
Niente può esistere fuori dal conoscere
Nel concetto di “cosa in sé”, dunque, la cosa in sé è concepita, da un lato, come cosa in sé, ma dall’altro, proprio perché essa è concepita, essa non è cosa in sé, ma, appunto, qualcosa di concepito, pensato, conosciuto.
Comprendere che il concetto di cosa in sé è contraddittorio significa comprendere che al di là del pensiero non può esistere alcuna cosa in sé esterna e indipendente da esso.
Kant aveva distinto il “conoscere”, che ha come contenuto l’esperienza, dal “pensare”, che ha come contenuto la cosa in sé. A quest’ultima non compete cioè alcuna delle determinazioni dell’esperienza (né le determinazioni che costituiscono il molteplice empirico, né le forme a priori dello spirito), e appunto per questo essa non è conoscibile. E tuttavia essa sarebbe, per Kant, pensabile.
L’idealismo mostra l’infondatezza di questa distinzione, perché anche le determinazioni indicate dai termini “cosa”, “in sé”, “oggetto trascendentale”, “inconoscibile”, “X” sono pur sempre determinazioni conoscitive, rappresentazioni connesse con tutte le altre determinazioni conosciute, e quindi sono anch’esse determinazioni che non possono esistere esternamente e indipendentemente dal conoscere.
Proprio perché la cosa in sé è “pensata”, essa non può dunque essere “in sé”, né qualcosa di assolutamente inconoscibile. Il tentativo di stabilire dei limiti al conoscere, quindi, non può che fallire, perché tali limiti possono essere posti solo in quanto, in qualche modo, si conosce ciò che sta al di là di essi, e cioè solo in quanto essi sono oltrepassati.
Il superamento del criticismo kantiano
La “cosa in sé” kantiana è un assurdo, e quindi non esiste e non può esistere. Agli occhi dell’idealismo essa appare pertanto come un residuo di quell’atteggiamento dogmatico che attribuisce ai contenuti del pensiero il valore di determinazioni di un mondo fittizio esistente al di là del pensiero e che Kant ha così potentemente contribuito a dissolvere.
Tanto più ci si sforza di pensare una dimensione dove le cose sono in sé stesse, indipendenti e indifferenti al pensiero, tanto più è presente quel pensiero dal quale si vorrebbe prescindere, e tanto più appare l’impossibilità di pensare la cosa in sé, cioè il non pensato, il non conosciuto, il non concepito.
In questo senso, l’idealismo spinge a fondo e porta a compimento il criticismo kantiano; ma, proprio per questo, perviene a un senso completamente nuovo della realtà e del pensiero.
Giacché è vero che Berkeley anticipa la critica idealistica alla pretesa di concepire ciò che peraltro è definito come il non concepibile, ma Berkeley non riesce a dare un valore assoluto alla propria critica e concepisce la stessa Realtà suprema (Dio) come esistente in sé stessa, cioè come una cosa in sé, indipendente, esterna e indifferente rispetto al concepire umano — una conoscenza di Dio, questa, che peraltro risulta insostenibile già dal punto di vista del criticismo kantiano.
Da: Da Emanuele Severino, La filosofia del greci al nostro tempo. La filosofia moderna, Garzanti, Milano, 1996