I racconti di Canterbury di Pier Paolo Pasolini nella critica del tempo
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Tra scherzi e giochi gran verità si possono dire!
Il cuoco dal volto tatuato, filosoficamente, a Chaucer (interpretato da Pasolini)
Non mi piace il modo di vivere, la qualità della vita. E per ciò, rimpiango il passato.
Pier Paolo Pasolini
Secondo film della Trilogia della vita in cui Pasolini ridusse per lo schermo le famose raccolte di novelle del Trecento. Questa volta è di scena l’Inghilterra di Geoffrey Chaucer con i suoi pellegrini sulla via dell’abbazia di Canterbury per onorare la tomba di san Thomas Beckett. I racconti che narrano per ingannare la noia del viaggio sono ora drammatici, ora farseschi, ora teneri, ora grossolani.
Renato Proni
Pasolini giudica Chaucer un borghese. Lo scrittore italiano sta girando in Inghilterra le “Canterbury Tales” — ha dichiarato il regista al nuovo settimanale “7 days” — no appartiene al popolo, anche se trae le sue storie dal popolo. Egli era già un borghese. Egli guarda verso la rivoluzione protestante e persino alla rivoluzione liberale, al meno nella misura in cui le due cose erano combinate in Cromwell”.
Pasolini ha confessato di essere “disincantato”, deluso dalla vita. Il regista ha detto, parlando di se stesso: “Sento la perdita del mondo del passato. sono un uomo deluso. Sono sempre stato in lotta con la società. Mi sono battuto contro di essa e da essa sono stato perseguitato, ma mi ha anche dato una misura di successo. Ora, non mi piace più. Non mi piace il suo modo di vivere, la qualità della sua vita. E per ciò, rimpiango il passato. Alla mia età, suppongo è quasi convenzionale.”
Una delle cose che l’hanno colpito in Inghilterra, ha detto Pasolini, è la mancanza di senso d’umorismo nella classe operaia. ha precisato: “I ragazzi e le donne che ho impiegato per piccole parti, qui, non sembrano avere lo stesso senso di umorismo delle classi privilegiate inglesi. Forse, il senso dell’umorismo è un privilegio in Inghilterra. Non lo sapevo prima di venire qui”
Pasolini ha ammesso di avere scelto di filmare le “Canterbury Tales” , proprio perché appartengono al passato: “Il mondo di Chaucer e di Boccaccio non aveva sperimentato l’industrializzazione. Non c’era la società del consumi, non c’erano le catene di montaggio. La società di allora non aveva nulla in comune con questa di adesso”.
Dal rimpianto per il passato, Pasolini è poi venuto a discorrere del presente e del futuro: il processo nella veste di ex direttore responsabile di Lotta Continua, infatti, lo aspetta. Non è particolarmente preoccupato. Un poco “eroicamente”, ha detto: “Non c’è nulla di intollerabile nell’essere processato. Che significa per me il processo? Non mi interessa nulla se mi mettono in prigione, neppure sotto il profilo economico. Se mi mandano in galera, avrò l’opportunità di leggere i libri che altrimenti non leggerei mai”.
Pasolini ha affermato di non essere d’accordo con Lotta continua, ma di avere firmato la pubblicazione “per senso democratico”.
Da: La Stampa, 22 novembre 1971
Tullio Kezich
«C’è dentro ogni ben di Dio», scrisse John Dryden dei Canterbury Tales di Geoffrey Chaucer (1340?-1400), vasto affresco incompiuto in versi sulla società inglese del XIV secolo. Ispirandosi forse a Boccaccio, ma comunque da buon conoscitore degli autori nostri, Chaucer immagina che nell’aprile 1383, durante un pellegrinaggio da Southwark all’abbazia di Canterbury, i partecipanti si narrino delle storie. Questi racconti dovevano essere 120: l’autore ne completò ventuno, ne lasciò abbozzati tre.
Pasolini (che ridacchia in prima persona impersonando Chaucer nel film) ne ha scelti otto di tipo grottesco e scurrile, sorvolando sulla cornice che nel testo invece è molto significativa. Chi ha apprezzato il Decameron, più che il divertimento filologico stavolta assente per ovvie ragioni di lingua, ne ritroverà gli estri ribaldi nella nuova silloge (addirittura preceduta stavolta dalle solite contraffazioni truffaldine).
In un carosello di peti, fornicazioni, nudi integrali e parolacce, Pasolini sembra rispondere all’esigenza del critico inglese che raccomandò, a proposito di Chaucer: «read him valiantly aloud», leggetelo coraggiosamente ad alta voce.
Forse il brano più bello, tra altri di valore ineguale, è la Novella del venditore di indulgenze, che racconta i casi di tre compari alla ricerca della morte; oppure la Novella del frate, che vede il diavolo Franco Citti trascinare all’inferno un briccone. I toni acri e funerari si addicono al nuovo Pasolini, autocondannatosi all’umorismo coatto
Da Tullio Kezich, Il Mille film. Dieci anni al cinema 1967–1977, Edizioni Il Formichiere
Giovanni Grazzini
Ancora una volta il verdetto di una giuria cinematografica non aderisce all’opinione che la maggioranza del pubblico e della critica si è fatta di un film. Un applauso striminzito, e commenti imbarazzati nonostante molte grasse risate durante la proiezione, hanno accolto la prima mondiale dei Racconti di Canterbury, il film di Pier Paolo Pasolini girato in Inghilterra (e quella inglese è l’edizione che l’autore considera originale) ma presentato dall’Italia al Festival di Berlino, secondo pannello d’un trittico ideale, governato dalla gioia di raccontare, che fu aperto dal Decameron e sarà chiuso dalle Mille e una notte.
La reazione del pubblico tedesco, assai calorosa finché le luci erano spente, riservata e quasi polemica quando si sono riaccese, è significativa, e non certo perché dettata dalla scabrosità della materia: proprio di fronte al grande Zoo Palast in cui il festival celebra i suoi fasti, una ormai famosa organizzazione con licenza di sconcezze proietta regolarmente i suoi filmini pornografici a un pubblico avvezzo a ben altro che ai nudi integrali e agli amplessi promiscui cari al cinema di Pasolini.
A parer nostro la platea di Berlino ha istintivamente afferrato che I racconti di Canterbury, anziché riecheggiare la struttura unitaria dell’originale letterario, è un film frammentario sia nell’ispirazione sia nella conduzione di ciascuna novella, come dire è divertente e spassoso in alcune scene, talché sbellicarsi dalle risa non è affatto indice di scostumatezza, ma anche, in molte altre, è confuso e di ritmo fiacco, e persino malinconico in quel frequente ricorrere, per far ridere, alle più sonore flatulenze.
Da qui, nel complesso, un senso di insoddisfazione, di non rifinito e di affrettato, che l’autore ammette per primo (e infatti annuncia ritocchi), ma probabilmente dovuto anche al vezzo di Pasolini di far parlare i suoi personaggi, fraintendendo la nozione di naturalezza, con voci prese dalla strada, di amici personali o di indotti, controproducenti in un film che deve ricavare espressività anche dal colore e dal corpo del dialogo.
Come già per Decameron, accade che il prolifico Pasolini — un film l’anno, oltre i saggi, il teatro, la poesia — portando sullo schermo otto novelle di Chaucer, il poeta inglese del Trecento da lui stesso qui interpretato con simpatica ironia, e aggiungendovi qualche siparietto di dubbio gusto, confezioni uno spettacolo per le masse che ha grandi meriti nell’ordine paesistico e scenografico ma che stringe poca sostanza poetica e morale — benché si proponga di dire «grandi verità» tra scherzi e giochi — e nel rapporto fra realistico e fantastico perde colpi (soprattutto nella piuttosto scipita seconda parte).
Sicché quel gran senso vitale che il film dovrebbe glorificare a scorno delle ideologie, e quella idealizzazione del medioevo cui dovrebbe condurre la nausea dell’oggi, sono assai più godibili nella composizione figurativa e nella visionaria interpretazione ambientale, spesso d’alta classe, che sulla tastiera emotiva e tonale delle varie novelle, mosse intorno ai soliti casi salaci e piccanti di mariti cornuti, di vecchi lascivi, di donne vogliose e ragazzi all’assalto, dove anche la morte ha ovviamente la sua parte, ma ciò che domina è la beffa, l’idea che il sesso è sempre allegria, e l’irresistibile provocazione visiva simbolizzata dalle natiche affacciate ai balconi della prima novella, strumento di spietato dileggio e veicolo di infernale castigo.
Motivi della stessa qualità farsesca, nutriti di festosa naturalezza ma raramente maturati a valori lirici, si ritrovano un po’ dovunque: sia nella novella della lussuriosa comare di Bath (Laura Betti), sia in quella dei due giovanottini che si vendicano di un ladrissimo mugnaio godendosene la moglie e la figlia, sia nella più lunga ed elaborata, del vecchio castellano (Hugh Griffith) che sposa una ragazzina (Josephine Chaplin), perde la vista, e la riottiene giusto in tempo per scoprirsi tradito.
Cui si intrecciano le tragiche: dei tre amici che per impossessarsi d’un tesoro si ammazzano a vicenda, d’un venditore di frittelle che spia i viziosi e assiste alla loro morte sul rogo, del diavolo (Franco Citti) che s’accompagna a un ricattatore.
A mezza strada, Pasolini ha ritagliato per Ninetto Davoli, memore del Circo , una sorta di balletto chapliniano molto amabile — forse la cosa migliore di tutta la pellicola — e in chiusura ha inventato sulle pendici dell’Etna un memorabile inferno bruegheliano, ancora una volta percorso dai temi petofoni, quasi leit-motiv d’un film che ad ogni buon conto ha per sigillo un sarcastico amen.
Riflesso schietto d’un artista che ha bandito i direttori di coscienza e s’è fatto una idea sempre più godereccia della vita e popolaresca del cinema, I racconti di Canterbury è un film che facilmente, nonostante i suoi difetti, diverrà un campione di incasso. Quella piccola frangia di pubblico che volesse trovarvi da ridire farà bene a non invocare fulmini censorii, perché nonostante gli eccessi cui può condurre la violenza espressiva la volgarità non è ancora l’osceno.
Uno spunto di riflessione le sarà invece fornito dal fatto che di Pasolini, a Berlino, è stato presentato anche il documentario Dodici dicembre, ispirato alla strage di Piazza Fontana: un pamphlet che serve a smentire l’immagine d’un Pasolini ormai consegnatosi al più reazionario edonismo.
Da Corriere della Sera, 5 luglio 1972
Goffredo Fofi
Questo film ci pare di una totale nullità, e ci costringe, per onestà, a una autocritica. Contrariamente all’opinione di alcuni, cerchiamo di essere disperatamente comprensivi, fiduciosi, ottimisti. Dopo alcuni bruttissimi film di Pasolini, ci era parso di vedere nel Decameron segni incerti di una qualche luce. Ci eravamo sbagliati. Né riteniamo che valga la pena di architettare, su quest’informe ultima cosa senza nerbo, senza vita e senza morte, senza esigenza e senza prospettiva, senza senso e senza sesso, un qualsiasi discorso critico o interpretativo.
Da Quaderni piacentini, n. 48–49, 1973
Vincent Canby
Pier Paolo Pasolini’s “The Canterbury Tales” is so totally confused one can’t be sure whether the film that opens today at Cinema II is really Mr. Pasolini’s or whether essential bits and pieces have been lost or cut since it was made eight years ago, and when it took the top prize at the 1972 Berlin Film Festival.
One thing is verifiable: “The Canterbury Tales” is the second of the three multinarrative films made by Mr. Pasolini in the first half of the 70’s. The first — and by far the most successful — was “The Decameron” (1971) and the last “A Thousand and One Nights (1974), a series of mostly homoerotic fantasies that are of interest principally for the way Mr. Pasolini once attempted to justify them as attacks on contemporary Western European decadence.
As is apparent to anyone who sat through “Salo,” Mr. Pasolini’s adaptation of the Marquis de Sade’s “120 Days in Sodom,” which he completed in 1975, shortly before he was murdered, this curious Italian director’s last films are virtually spellbound by their depictions of the depravity made possible by the social and political institutions he abhorred.
Though “The Canterbury Tales” is X-rated, it’s not pornographic in the hard-core way of “Deep Throat.” There are a lot of nudity (mostly of young men who have the air of male hustlers) and a good deal of emphasis on scatology that, in Chaucer, is bawdily comic but, in this film, is aggressively infantile. The movie ends with a vision of hell that borrows — though not very successfully — from Hieronymus Bosch, whose fantasies were clearly of more immediate interest to Mr. Pasolini than Chaucer’s tales.
The movie, being released in New York in its English-language version, uses eight of the more familiar tales, and unreels behind an almost impenetrable sound barrier. Though Mr. Pasolini shot much of the film in England with a cast of English and Italian actors, both professional and amateur, the voices of everyone, from Hugh Griffith and Alan Webb to Laura Betti and Ninetto Davoli, have been very sloppily postsynchronized. Adding to the confusion is the narrative continuity, which is so slapdash one can’t always be sure when one tale has ended and another has begun.
Nor do Chaucer’s euphemisms and his courtly, mock-distaste for the not-so-shocking details he must disclose have much to do with Mr. Pasolini’s method. This is to show everything possible, short of hard-core porn, embellished with 20th-century kinkinesses that are the director’s own obsessions.
Because of the terrible soundtrack, it’s impossible to judge the performances fairly, though Mr. Griffith and Josephine Chaplin work very energetically in “The Merchant’s Tale,” and Miss Betti, even if she’s badly miscast, is a most appealing, though very tiny, Wife of Bath.Mr. Davoli, an Italian actor without wit or charm, comes close to being offensive in “The Cook’s Tale,” a segment of the film apparently meant to be an homage to Charlie Chaplin but looks, instead, like a low blow to the memory of a great comedian.
Mr. Pasolini himself shows up from time to time as Chaucer, sitting in front of a writing desk, smiling unpleasantly as he takes quill in hand to record yet another failed joke.
Da, The New York Times, 30 maggio 1980
Walter Veltroni
Un film è una creazione delicata, come le ali di una farfalla. Essa vive del suo essere «sistema», si alimenta cioè dell’interdipendenza di tutti i suoi momenti, di tutte le sue parti. Nulla assomiglia di più a un organismo naturale, con la sua complessa struttura di organi tutti necessari, tutti funzionali.
Per questo sono assurde, persino barbare, le colorazioni moderne delle vecchie pellicole in bianco e nero. Per questo fu giusto battersi contro le interruzioni pubblicitarie che, come dicemmo, «spezzavano una storia, interrompevano una emozione».
Ma la più odiosa delle amputazioni è quella della censura. L’azione di chi, in ragione di una linea immaginaria, fissata nel nome della «morale» o del senso del pudore, taglia, amputa, distrugge tutto ciò che a suo arbitrario parere supera quel confine. Così, per mandare in onda un film di Pasolini, uno della «trilogia della vita», si è costretti a farlo diventare un’altra cosa, un altro film. Non di Pasolini. Che lo aveva concepito, voluto, girato con quella struttura, quegli episodi, quei personaggi, persino quella “morale”. Chi taglia i film è un assassino. Perché cerca di distruggere un organismo, perché amputa una creazione umana.
Da Certi piccoli amori. Dizionario sentimentale di film, Sperling & Kupfer Editori, Milano, 1994