I luoghi persi nel cuore campestre d’Italia
Pier Paolo Pasolini e gli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo
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Con Longhi
Per Pasolini, che vive con angoscia il boom economico e la corsa all’arricchimento, la ricchezza è un’altra cosa a quella che si immagina l’Italia in quel periodo La vera ricchezza è quella del conoscere, del sapere, del pensare.
La contrapposizione drammatica di queste due ricchezze si trova proprio nel poemetto La ricchezza e ad farla venire alla luce è proprio il modo di guardare gli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo, ne Le storie della Vera Croce nella chiesa di San Francesco della città toscana.
Pasolini aveva studiato storia dell’arte con Roberto Longhi a Bologna e doveva laurearsi con il grande critico se non avesse perduto la tesi durante il periodo di guerra quando nel 1943 era sotto le armi.
Successivamente decise di laurearsi con una tesi su Pascoli.
E si deve proprio a Longhi la scoperta di Piero della Francesca che fino ad allora era considerato un pittore umbro minore. Probabilmente Pasolini arriva a Piero per il tramite di Longhi
Ad Arezzo
Pasolini va ad Arezzo, sosta davanti agli affreschi e ne trae aspirazione per un poemetto nel quale mette a fuoco alcune scene della raffigurazione di Piero. Abbiamo anche una foto che o ritrae insieme a Ninetto Davoli davanti alle scene raffigurate nella cappella
Lo colpiscono alcuni particolari dell’Annunciazione, del Sonno di Costantino, della Battaglia di Eraclio contro Cosroè.
Tale è l’impressione che la figurazione di Piero ha su Pasolini che troveremo nei suoi film, come n Il Vangelo secondo Matteo, delle citazioni dai suoi affreschi, nei costumi, nelle posture, in intere scene ricalcate su Piero.
Nel prologo dalla sceneggiatura del Il Vangelo secondo Matteo Pasolini delinea l’indentikit della Madonna: deve essere una ragazza bruna del popolo, umile ma deve avere qualcosa di regale come la “Madonna del parto” di Monterchi.
Il senso della pittura
Poi ci sono i copricati geometrici dei sacerdoti e gli abiti dei Farisei che sono delle “copie”, realizzate dal costumista Danilo Donati, di quelli delle figure che vediamo negli affreschi di Arezzo.
Nella intervista dello storico olandese Jon Halliday, a Pasolini viene chiesto se non creda “di aver troppo sovraccaricato il testo di Matteo, ad esempio con tutte quelle citazioni pittoriche?.” Al che Pasolini risponde
“No, credo che siano appropriate — dice Pasolini –, come dimostra l’unità finale raggiunta. Lei ne è stato sfavorevolmente colpito, ma io non le trovo irritanti. Inoltre, come le ho detto, io volevo fare la storia di Cristo più duemila anni di cristianesimo. E, almeno per un italiano come me, la pittura ha avuto enorme importanza in questi duemila anni, e anzi è il maggiore elemento della tradizione cristologica”.
La ricchezza
Fa qualche passo, alzando il mento,
ma come se una mano gli calcasse
in basso il capo. E in quell’ingenuo
e stento gesto, resta fermo, ammesso
tra queste pareti, in questa luce,
di cui egli ha timore, quasi, indegno,
ne avesse turbato la purezza…
Si gira, sotto la base scalcinata,
col suo minuto cranio, le sue rase
mascelle di operaio. E sulle volte
ardenti sopra la penembra in cui stanato
si muove, lancia sospetti sguardi
di animale: poi su noi, umiliato
per il suo ardire, punta un attimo i caldi
occhi: poi di nuovo in alto… Il sole
lungo le volte così puro riarde
dal non visto orizzonte…
Fiati di fiamma dalla vetrata a ponente
tingono la parete, che quegli occhi
scrutano intimoriti, in mezzo a gente
che ne è padrona, e non piega i ginocchi,
dentro la chiesa, non china il capo: eppure
è così pio il suo ammirare, ai fiotti
del lume diurno, le figure
che un altro lume soffia nello spazio.
Quelle braccia d’indemoniati, quelle scure
schiene, quel caos di verdi soldati
e cavalli violetti, e quella pura
luce che tutto vela
di toni di pulviscolo: ed è bufera,
è strage. Distingue l’umiliato sguardo
briglia da sciarpa, frangia da criniera;
il braccio azzurrino che sgozzando
si alza, da quello che marrone ripara
ripiegato, il cavallo che rincula testardo
dal cavallo che, supino, spara
calci nella torma dei dissanguati.
Ma di lì già l’occhio cala,
sperduto, altrove… Sperduto si ferma
sul muro in cui, sospesi,
come due mondi, scopre due corpi… l’uno
di fronte all’altro, in un’asiatica
penembra… Un giovincello bruno,
snodato nei massicci panni, e lei,
lei, l’ingenua madre, la matrona implume,
Maria. Subito la riconoscono quei
poveri occhi: ma non si rischiarano, miti
nella loro impotenza. E non è, a velarli,
il vespro che avvampa nei sopiti
colli di Arezzo… È una luce
— ah, certo non meno soave
di quella, ma suprema — che si spande
da un sole racchiuso dove fu divino
l’Uomo, su quell’umile ora dell’Ave.
Che si spande, più bassa,
sull’ora del primo sonno, della
notte, che acerba e senza stelle Costantino
circonda, sconfinando dalla terra
il cui tepore è magico silenzio.
Il vento si è calmato, e, vecchio, erra
qualche suo soffio, come senza
vita, tra macchie di noccioli inerti.
Forse, a folate, con scorata veemenza,
fiata nel padiglione aperto
il beato rantolo degli insetti,
tra qualche insonne voce, forse, e incerti
mottetti di ghitarre…
Ma qui, sul latteo tendaggio sollevato,
la cuspide, l’interno disadorno,
non c’è che il colore ottenebrato
del sonno: nella sua cuccetta dorme,
come una bianca gobba di collina,
l’imperatore dalla cui quieta forma
di sognante atterrisce la quiete divina.
Schiuma è questo sguardo che servile
lotta contro questa Quiete; e, ormai,
rassegnato, sbircia se sia giunto
il momento di uscire, se il via vai
che qui ronza attutito, lo richiami
agli atti quotidiani, ai gai
schiamazzi della sera. Schiuma gli sciami
di borghesi che dietro i calcinacci
dell’altare, con le mani
si fanno specchio, stirano le faccie
affaticate, presi dalla sete
(che li trascende, li mette sulle traccie
d’altra testimonianza) d’essere i fedeli
testimoni d’un passato che è loro.
Schiuma — sotto i mattoni già neri
di San Francesco, sui selciati che il sole
allaga lontano di una luce
ormai perdutamente incolore -
gli stanchi rumori dei posteggi,
i caffè semivuoti…
Schiuma, benché più fervida, e anzi,
felice, questo fermento
di tanta vita perduta, e troppo bella
se ritrovata qui, fuggevolmente
e disperatamente, in una terra
che è solo visione…
Non si sente, nella piazza, dentro il cerchio
delle trecentesche case, che un sospeso
chiasso di ragazzi: se ti guardi intorno,
con visucci di figli provinciali,
pudichi calzoncini, non ne conti
meno di mille; e poiché i ferri e i pali
dei palchi per il palio
fanno della piazza quasi una gabbia,
eccolo brulicante saltellare,
con un sussurro che nella sera impazza,
quel disperato stuolo d’uccellini…
Ah, fuori, riapparso tempo della pia
sera provinciale, e, dentro,
riaperte ferite della nostalgia!
Sono questi i luoghi, persi nel cuore
campestre dell’Italia, dove ha peso
ancora il male, e peso il bene, mentre
schiumeggia innocente l’ardore
dei ragazzi, e i giovani sono virili
nell’anima offesa, non esaltata,
dalla umiliante prova
del sesso, dalla quotidiana
cattiveria del mondo. E se pieni
d’una onestà vecchia come l’anima,
qui gli uomini restano credenti
in qualche fede — e il povero fervore
dei loro atti li possiede tanto
da perderli in un brusio senza memoria -
più poetico e alto
è questo schiumeggiare della vita.
E più cieco il sensuale rimpianto
di non essere senso altrui, sua ebbrezza antica.
Da La religione del mio tempo (1961)
“A Elsa Morante”, I, La ricchezza (1955–1959)