Heidegger, solo un Dio ci può salvare
L’ultima intervista a Der Spiegel nel 1976
Si rinvia alla interessante e puntale introduzione di Alfredo Marini all’edizione italiana di Nur ein Gott kan us retten (a cura dello stesso Alfredo Marini), per in inquadramento dell’intervista nel suo contesto storico, nella biografia e nell’opera di Heidegger. Qui ci limitiamo a riportare il contenuto dell’intervista tratto dalla raccolta degli Scritti politici (1933–1966) a cura di François Fédier pubblicata Piemme nel 1998. Abbiamo omesso le note per le quali rimandiamo all’edizione Piemme.
Buona lettura.
Spiegel: Professor Heidegger, abbiamo sempre constatato che, sulla sua opera filosofica, grava un’ombra, a causa di avvenimenti della sua vita che non hanno avuto una lunga durata e che non sono mai stati veramente chiariti, sia perché Lei era troppo orgoglioso per farlo, sia perché non ha mai ritenuto opportuno esprimersi al riguardo.
Heidegger: Sta parlando del 1933?
Spiegel: Sì, prima e dopo. Vorremmo porre la cosa in un contesto più ampio e da lì giungere ad alcune questioni che sembrano importanti, per esempio: che possibilità c’è, a partire dalla filosofia, di agire sulla realtà, anche sulla realtà politica? Esiste ancora una tale possibilità? E, se sì, qual è?
Heidegger: Sono davvero delle questioni importanti; mi chiedo se riuscirò a rispondere a tutte. Ma, prima di ogni cosa, devo dire che, negli anni precedenti al mio rettorato, non svolsi mai attività politica. Durante il semestre invernale 1932/33, ero in congedo, e, per la maggior parte del tempo, rimasi nella mia baita.
Spiegel: Com’è accaduto allora che Lei sia diventato rettore dell’Università di Friburgo?
Heidegger: Nel dicembre 1932, il mio vicino, von Möllendorff, ordinario di anatomia, era stato eletto rettore. Nella nostra Università, il nuovo rettore entra in carica il 15 aprile. Durante il semestre invernale 1932/33, parlammo spesso della situazione, non solo di quella politica, ma in particolare di quella delle Università e di quella, per certi versi senza speranza, degli studenti. Il mio parere era questo: per quanto io sia in grado di valutare le cose, resta, come unica possibilità, quella di tentare, con le forze costruttive ancora veramente vive, di cogliere l’elemento promettente dell’odierna evoluzione.
Seguii gli avvenimenti politici fra il gennaio e il marzo 1933; in quell’occasione, ne parlai anche con dei colleghi più giovani. Ma il mio lavoro, allora, era dedicato ad un’ampia interpretazione del pensiero presocratico. All’inizio del semestre estivo, feci ritorno a Friburgo. Nel frattempo, il 15 aprile, il professor von Möllendorff aveva assunto la carica di rettore. Ma, già due settimane più tardi, il ministro della cultura del Baden, Wacker, lo aveva sollevato dall’incarico. Il pretesto per questa decisione, sicuramente benvenuto, fu fornito dal divieto, emanato dal rettore, di affiggere, in Università, il c.d. Manifesto sugli Ebrei.
Spiegel: Von Möllendorff era un socialdemocratico. Cosa fece dopo essere stato sollevato dall’incarico di rettore?
Heidegger: Il giorno stesso della sua destituzione, von Möllendorff venne da me e mi disse: «Heidegger, ora è Lei che deve assumere il rettorato». Gli feci notare che mi mancava ogni esperienza in campo amministrativo. L’allora prorettore Sauer (teologo) fece anch’egli pressioni affinché mi candidassi alle elezioni del nuovo rettore; sembrava infatti vi fosse il pericolo che, altrimenti, potesse essere nominato rettore un funzionario. Alcuni colleghi più giovani, con i quali, già da parecchi anni, discutevo di questioni riguardanti l’organizzazione dell’Università, fecero di tutto per convincermi ad assumere il rettorato. Esitai a lungo. Alla fine, mi dichiarai disposto ad assumere la carica unicamente nell’interesse dell’Università, qualora avessi potuto essere certo dell’unanime approvazione del Plenum. Intanto i dubbi riguardo alla mia idoneità al rettorato restarono, sicché, ancora la mattina del giorno fissato per le elezioni, mi recai in rettorato e dichiarai a von Möllendorff e al prorettore Sauer che non potevo assumere l’incarico. A ciò i miei due colleghi risposero che l’elezione era stata preparata in modo che ora non potevo più ritirare la mia candidatura.
Spiegel: A questo punto, Lei si dichiarò definitivamente disponibile ad accettare l’incarico. Che forma assunse allora il suo rapporto coi nazionalsocialisti?
Heidegger: Due giorni dopo il mio insediamento, il capo degli studenti nazionalsocialisti venne in rettorato con due compagni pretendendo nuovamente che venisse affisso il Manifesto sugli ebrei. Rifiutai. I tre studenti se ne andarono, sottolineando che il mio divieto sarebbe stato comunicato alla direzione nazionale degli studenti nazionalsocialisti. Qualche giorno dopo fui chiamato al telefono direttamente dal capogruppo delle SA, dr Baumann, dell’ufficio incaricato dell’istruzione superiore (che faceva parte della direzione centrale delle SA stesse). Il dr Baumann pretendeva che venisse affisso il suddetto manifesto come era già stato fatto in altre Università. In caso di rifiuto, avrei rischiato la deposizione se non addirittura la chiusura dell’Ateneo. Rifiutai e cercai di fare in modo che il ministro della cultura del Baden appoggiasse il mio divieto. Questi rispose che non poteva fare nulla contro le SA. Ciò nonostante, non ritirai il mio divieto.
Spiegel: Fino ad ora, non si sapeva che le cose fossero andate così.
Heidegger: Il motivo principale che mi spinse ad assumere il rettorato è già enunciato nella mia lezione inaugurale Che cos’è la metafisica?, pronunciata a Friburgo nel 1929; a pagina 8 si legge: «Gli ambiti delle scienze giacciono l’uno lontano dall’altro. I modi in cui trattano rispettivamente i loro oggetti sono fondamentalmente diversi. Questa sconnessa molteplicità di discipline può oggi ottenere un senso di coerenza e di unità soltanto attraverso l’organizzazione tecnica delle Università e delle Facoltà e grazie alla finalizzazione pratica delle materie. Il radicamento dei saperi scientifici nel loro fondamento essenziale è invece cosa morta». Ciò che tentai di fare, nel periodo di tempo in cui restai in carica, rispetto a questo stato in cui si trovano le Università — nel frattempo degenerato fino all’estremo — è esposto nel mio Discorso di rettorato.
Spiegel: Cerchiamo di capire in che modo e in che misura questa sua affermazione del 1929 corrisponde a ciò che Lei disse nel 1933 nella Sua prolusione rettorale. Stralciamo qui una frase dal suo contesto:
«La libertà accademica, che è stata così tanto cantata, è espulsa dall’Università tedesca; infatti, tale libertà non era genuina perché era soltanto negativa».
Crediamo di poter supporre che questa frase esprima almeno una parte delle concezioni dalle quali ancora oggi Lei non si allontana.
Heidegger: Sì. La penso ancora così. Infatti quella “libertà accademica” era in fondo una libertà puramente negativa; la libertà dalla preoccupazione di aprirsi alla riflessione e alla meditazione richieste dagli studi scientifici. Del resto la frase da Lei estrapolata non dovrebbe essere letta isolatamente, ma all’interno del suo contesto; risulterebbe allora chiaro quello che volevo fare intendere, parlando di libertà negativa.
Spiegel: Bene, questo si capisce. Tuttavia crediamo di percepire un tono nuovo nel suo Discorso di rettorato, là dove Lei, quattro mesi dopo la nomina di Hitler a cancelliere del Reich, parla della «grandezza e magnificenza di questo scardinamento che è anche il cardine di un avvio».
Heidegger: Sì, e ne ero anche convinto.
Spiegel: Potrebbe illustrarlo un po’ più diffusamente?
Heidegger: Volentieri. A quell’epoca, non vedevo altra alternativa. Data la confusione generale delle opinioni e delle tendenze politiche rappresentate da trentadue partiti, si trattava di trovare una posizione nazionale e soprattutto sociale, qualcosa nel senso del tentativo di Friedrich Naumann. Potrei citare qui, tanto per fare un esempio, un saggio di Eduard Spranger che va ben oltre il mio Discorso di rettorato.
Spiegel: Quando ha cominciato ad occuparsi della situazione politica? I trentadue partiti c’erano già da parecchio tempo. E nel 1930 i disoccupati erano già milioni.
Heidegger: A quell’epoca, ero ancora interamente assorbito dai problemi sviluppati in Essere e tempo (1927) e negli scritti e conferenze che seguirono: questioni fondamentali del pensiero che riguardano, mediatamente, anche le questioni nazionali e sociali. Per me, in quanto docente dell’Università, si poneva immediatamente la questione del senso dei saperi scientifici e, con essa, quella della determinazione del compito dell’Università. Questa preoccupazione è espressa nel titolo del mio Discorso di rettorato: L’autoaffermazione dell’Università tedesca. Nessuno, nei discorsi di rettorato dell’epoca, ha mai azzardato un tale titolo. Ma chi, fra coloro che polemizzano contro questo discorso, l’ha letto attentamente, l’ha meditato e interpretato a partire dalla situazione dell’epoca?
Spiegel: Selbstbehauptung der deutschen Universität — Autoaffermazione dell’Università tedesca — in un mondo così turbolento, questa formula non dà l’impressione di essere un po’ fuori luogo?
Heidegger: Perché mai? L’autoaffermazione dell’Università va contro la cosiddetta scienza politica, che già allora s’invocava nel Partito e nelle organizzazioni studentesche nazionalsocialiste. Questa espressione, “scienza politica”, aveva allora un significato ben diverso da quello odierno; non indicava la politologia, ma voleva dire questo: la scienza in quanto tale, il suo senso e il suo valore sono stimati in base all’utilità che hanno, di fatto, per il popolo. La posizione contraria a questa politicizzazione della scienza viene appunto espressa nel Discorso di rettorato.
Spiegel: Vediamo se abbiamo capito bene. Rendendo partecipe l’Università di quello che Lei allora sentiva come uno “scardinamento avviante”, Lei voleva far sì che l’Università facesse quadrato in se stessa contro delle correnti che, altrimenti, avrebbero preso il sopravvento e che non le avrebbero più lasciato il suo carattere peculiare.
Heidegger: Certo. Ma, di fronte all’organizzazione esclusivamente tecnica dell’Università, la sua quadratura in se stessa doveva, al tempo stesso, porsi il compito di riguadagnare un senso nuovo a partire da una meditazione sulla tradizione del pensiero occidentale europeo.
Spiegel: Professore, dobbiamo intendere che Lei allora pensava di poter ottenere un risanamento dell’Università collaborando con i nazionalsocialisti?
Heidegger: Questa formulazione non è esatta. Non parlerei di una “collaborazione con i nazionalsocialisti”. L’Università doveva rinnovarsi a partire da un inquadramento senziente di sé e assumere, in tal modo, una posizione salda di fronte al pericolo della politicizzazione del sapere scientifico — nel senso che ho detto prima.
Spiegel: Proprio per questo, nel suo Discorso di rettorato, ha proclamato questi tre capisaldi: “Servizio del lavoro”, “Servizio di difesa”, “Servizio del sapere”. In tal modo, secondo quel che Lei pensava allora, il “servizio del sapere” sarebbe stato elevato allo stesso rango degli altri, cioè ad una posizione che i nazionalsocialisti non gli avevano concesso?
Heidegger: [Nel discorso] Non si tratta di “capisaldi”. Se Lei legge attentamente, il servizio del sapere, in questa enumerazione, occupa sì il terzo posto, ma, in base al senso, si colloca al primo posto. Da meditare resta il fatto che lavoro e difesa, come ogni agire umano, si fondano su un sapere e da esso vengono illuminati.
Spiegel: Tuttavia — e con ciò mettiamo fine a queste fastidiose citazioni — dobbiamo ancora riportare una frase che non riusciamo ad immaginare Lei possa sottoscrivere ancora oggi. Nell’autunno 1933, Lei ha detto:
«Che le regole del vostro essere non siano né formule dottrinali né “idee. Il Führer stesso, e lui solo, è la realtà tedesca di oggi, ma è anche la realtà di domani e quindi la sua legge.»
Heidegger: Queste frasi non si trovano nel discorso di rettorato, ma solo nella Freiburger Studentenzeitung e furono scritte all’inizio del semestre invernale 1933–1934. Quando assunsi il rettorato, avevo ben chiaro che non ce l’avrei fatta senza compromessi. Le frasi citate, oggi non le scriverei più. Cose del genere non le dicevo già più nel 1934. Ma, ancora oggi, e oggi più che mai, ripeterei il discorso dell’autoaffermazione dell’Università tedesca, naturalmente senza alcun riferimento al nazionalismo. La società ha preso il posto del “popolo”. In ogni caso, il discorso oggi sarebbe un parlare al vento, esattamente come allora.
Spiegel: Possiamo porle un’altra domanda interlocutoria? In questo nostro colloquio, è risultato fino ad ora chiaro che il suo comportamento nel 1933 si muoveva fra due poli. Per prima cosa, Lei dovette dire certe cose ad usum Delphini. E questo era il primo polo. L’altro polo era invece più positivo; Lei lo esprime così:
«Avevo la sensazione che lì vi fosse qualcosa di nuovo, che si trattasse di uno scardinamento su cui potesse incardinarsi un avvio».
Heidegger: È proprio così.
Spiegel: Fra questi due poli vi fu — ciò si spiega assolutamente a partire dalla situazione…
Heidegger: Certo. Ma devo sottolineare che l’espressione ad usum Delphini dice troppo poco. Allora, credevo fermamente che nel dibattito dirimente con il nazionalsocialismo si sarebbe potuto aprire un nuovo cammino, l’unico cammino ancora possibile verso un rinnovamento.
Spiegel: Lei sa che, a questo proposito, Le sono stati mossi dei rimproveri riguardo alla sua collaborazione col NSDAP e le sue associazioni, rimproveri che, ancora oggi, per il vasto pubblico, restano senza risposta. Per esempio, Le è stato rimproverato di aver preso parte a dei roghi di libri organizzati dagli studenti o dalla Hitler-Jugend.
Heidegger: Io ho vietato il rogo di libri che doveva aver luogo davanti all’Università.
Spiegel: Poi Le è stato rimproverato di aver fatto eliminare libri di autori ebrei dalla biblioteca dell’Università e da quella del Seminario filosofico.
Heidegger: Come direttore del Seminario, potevo disporre solo di quella biblioteca. Non ho ceduto alle ripetute pressioni affinché facessi ritirare i libri di autori ebrei. Coloro che parteciparono ai miei seminari, possono oggi testimoniare che non solo non furono eliminati i libri di autori ebrei, ma che questi autori, soprattutto Husserl, continuarono ad essere citati, trattati e commentati proprio come prima del 1933.
Spiegel: Ne prendiamo atto. Ma come spiega Lei il sorgere di simili voci? Si tratta di malignità?
Heidegger: Per quel che so della loro provenienza, sarei incline a crederlo; ma i motivi della calunnia sono più profondi. L’assunzione dell’incarico di rettore è stato probabilmente solo un pretesto, non il motivo determinante. Per questa ragione, probabilmente, la polemica si riaccenderà sempre di nuovo ogni volta che vi sarà un pretesto.
Spiegel: Si dice che i suoi rapporti, senza dubbio non con tutti, ma con alcuni di questi studenti ebrei siano stati molto cordiali anche dopo il ’33. È così vero?
Heidegger: Dopo il 1933, il mio atteggiamento è rimasto immutato. Una delle mie prime e più dotate allieve, Helene Weiß, più tardi emigrata in Scozia, ha superato il suo esame di dottorato a Basilea — quando qui a Friburgo non era più possibile sostenerlo — con un lavoro molto importante su Causalità e casualità nella filosofia di Aristotele, stampato a Basilea nel 1942. Alla fine della premessa l’autrice scrive: «Il saggio d’interpretazione fenomenologica, che presentiamo qui nella sua prima parte, è stato possibile grazie alle interpretazioni ancora inedite della filosofia greca di Martin Heidegger». Ecco qui un esemplare con dedica inviatomi dall’autrice nel 1948. Ho fatto visita molte volte alla dottoressa Weiß a Basilea, fino a poco prima che morisse.
Spiegel: Lei fu a lungo in amicizia con Jaspers. Dopo il 1933 questa relazione cominciò a sfaldarsi. Corre voce che questo offuscamento debba essere interpretato in rapporto al fatto che la moglie di Jaspers era ebrea. Può dire qualcosa in proposito?
Heidegger: Ciò che Lei qui riferisce è una menzogna. Fui in amicizia con Karl Jaspers fin dal 1919. Ho fatto visita a lui e a sua moglie nel semestre estivo del 1933, in occasione di una conferenza tenuta ad Heidelberg. Karl Jaspers mi ha spedito tutte le sue pubblicazioni degli anni tra il 1934 e il 1938 «con [i suoi] cordiali saluti». Ecco qui gli scritti.
Spiegel: È vero c’è scritto «con cordiali saluti». Certo, i saluti non sarebbero stati affatto “cordiali” se prima ci fosse stato un urto o un offuscamento dei rapporti. Un’altra domanda dello stesso genere: Lei è stato allievo del suo predecessore ebreo alla cattedra di filosofia dell’Università di Friburgo, Edmund Husserl. Fu lui a raccomandarLa alla Facoltà come proprio successore nell’ordinariato. Il Suo rapporto con lui deve necessariamente essere stato improntato alla gratitudine e alla riconoscenza.
Heidegger: Lei conosce certamente la dedica di Essere e tempo.
Spiegel: Naturalmente.
Heidegger: Nel 1929, sono stato curatore degli scritti per i suoi settant’anni, e, durante la festa, a casa sua, ho pronunciato il discorso riprodotto nel bollettino dell’Università dello stesso mese (maggio 1929).
Spiegel: E ciononostante i vostri rapporti si offuscarono. Lei oggi può e vuole dirci a cosa ciò fu dovuto?
Heidegger: Le differenze riguardo al fondamento stesso delle questioni si accentuarono. All’inizio degli anni ’30, Husserl liquidò pubblicamente me e Max Scheler, e in un modo che non poteva essere più chiaro. Che cosa avesse spinto Husserl a prendere così pubblicamente una posizione contro il mio pensiero non sono mai riuscito mai a saperlo.
Spiegel: In che occasione accadde?
Heidegger: All’Università di Berlino Husserl tenne il suo discorso dinanzi a 1600 ascoltatori. In un importante giornale berlinese, Heinrich Mühsam, descrivendo questo intervento, parlò di «atmosfera da Palazzo dello sport».
Spiegel: Il contrasto, di per sé, in questo contesto non ci interessa. L’elemento interessante, qui, è che non fu un contrasto che avesse a che fare con l’anno 1933.
Heidegger: Assolutamente no.
Spiegel: È quello che abbiamo constatato anche noi. Che Lei abbia espunto da Essere e tempo la dedica a Husserl non è dunque esatto?
Heidegger: No, no — è esatto. Ho spiegato la questione nel mio libro Unterwegs zur Sprache (1959, p. 269; ed. it. In cammino verso il linguaggio, Milano, p. 215). Il testo diceva: «Per rispondere a false affermazioni variamente diffuse, sia qui detto espressamente che la dedica di Essere e tempo rimase anche nella IV edizione del libro, quella del 1935. Quando l’editore vide che la stampa della V edizione, nel 1941, poteva essere compromessa o il libro addirittura vietato, su proposta e per desiderio di Niemeyer si decise che la dedica, in quell’edizione, sarebbe stata espunta alle condizioni da me poste, e cioè che rimanesse la nota a pagina 38, la quale, di fatto, motivava quella dedica; la nota dice: “Se le ricerca che segue fa qualche passo in avanti nello schiudimento delle ‘cose stesse’, l’autore lo deve, in primo luogo, a Edmund Husserl; questi, infatti, durante gli anni di studio trascorsi dall’autore a Friburgo, lo ha diretto da vicino costantemente e gli ha consentito il libero accesso alle proprie ricerche inedite, rendendolo così familiare con i campi più vari della ricerca fenomenologica”».
Spiegel: A questo punto non c’è quasi più bisogno di porre la domanda se sia vero che Lei, in qualità di rettore dell’Università di Friburgo, avesse proibito all’emerito prof. Husserl l’ingresso o l’utilizzo della biblioteca universitaria o di quella del Seminario filosofico.
Heidegger: È una calunnia.
Spiegel: E non esiste nessuna lettera in cui sia stata espressa questa proibizione contro Husserl? Com’è nata, dunque, questa voce?
Heidegger: Non lo so neanch’io. Non trovo alcuna spiegazione. Le posso dimostrare l’impossibilità di tutta questa vicenda con un fatto non ancora conosciuto: durante il mio rettorato, con un colloquio privato dal Ministro, riuscii a mantenere in carica sia il direttore della Clinica medica, prof. Tannhauser, sia il futuro premio Nobel von Hevesy, professore di fisica chimica, entrambi ebrei, che il Ministro stesso voleva destituire.
Ora che io mi fossi adoperato, riuscendoci, per mantenere in servizio questi due scienziati e, simultaneamente, avessi agito, secondo quanto divulgato, contro Husserl, professore allora già in pensione e mio maestro — è affatto assurdo. Impedii anche che studenti e docenti inscenassero una manifestazione contro il professor Tannhauser davanti alla sua clinica.
Nell’annuncio mortuario, fatto pubblicare dalla famiglia Tannhauser sul giornale locale, c’era scritto: «Fino al 1934 fu onorato direttore della clinica universitaria di Friburgo i. Br., Brockline, Mass., 18.12.1962». Sul prof. von Hevesy, nel n. 11 del febbraio 1966 dei Freiburger Universitätsblätter, si riporta questa notizia: «Dal 1926 al 1934 von Hevesy diresse l’Istituto di fisica e chimica dell’Università di Friburgo i. Br.» Dopo le mie dimissioni dal rettorato, i due direttori furono sollevati dai loro incarichi. A quell’epoca vi erano dei liberi docenti che non avevano fatto carriera e che pensavano: ecco, ora è il momento di avanzare [prendendo il posto dei professori destituiti]. Quando queste persone mi si presentarono, le respinsi tutte.
Spiegel: Nel 1938, Lei non partecipò ai funerali di Husserl. Come mai?
Heidegger: Al riguardo vorrei dire solo quanto segue: il rimprovero, che mi si muove, di avere interrotto i rapporti con Husserl è privo di fondamento. Nel maggio del 1933, mia moglie scrisse alla signora Husserl una lettera, a nome di entrambi, nella quale attestavamo la nostra «immutata riconoscenza», e la inviò a casa Husserl con un mazzo di fiori.
La signora Husserl rispose brevemente con un ringraziamento formale, aggiungendo che i rapporti fra le nostre due famiglie erano interrotti. Che poi, durante la malattia di Husserl e alla sua morte, non avessi ancora una volta espresso la mia gratitudine e la mia venerazione, fu un errore umano, del quale mi scusai più tardi in una lettera alla signora Husserl.
Spiegel: Husserl morì nel 1938. Già nel febbraio del ’34, Lei aveva dato le dimissioni dalla carica di rettore. Come giunse a questa decisione?
Heidegger: Devo qui dilungarmi un po’ sui dettagli. Guidato dall’intenzione di superare l’organizzazione tecnica dell’Università, cioè di rinnovare le Facoltà dall’interno, a partire dai loro compiti in rapporto alle “cose stesse”, proposi, per il semestre invernale 1933/34, di nominare, come presidi delle varie Facoltà, dei colleghi più giovani, e soprattutto molto competenti, senza tener conto della loro posizione rispetto al Partito.
Così furono nominati presidi il professor Erik Wolf per la Facoltà di giurisprudenza, il professor Schadewaldt per la Facoltà di lettere e filosofia, il professor Soergel per la Facoltà di scienze naturali e, per la Facoltà di medicina, il prof. von Möllendorff, che era stato deposto dalla carica di rettore in primavera. Ma già verso il Natale del 1933, mi fu chiaro che il rinnovamento dell’Università, cui pensavo, non avrebbe potuto vincere né le resistenze all’interno del corpo accademico, né quelle del Partito.
Ad esempio, i colleghi se la presero molto con me perché avevo accolto gli studenti nell’amministrazione responsabile dell’Università — esattamente come avviene oggi, del resto. Un giorno fui chiamato a Karlsruhe dove il ministro, tramite il suo consigliere e in presenza del Gaustudentenführer, pretese da me la sostituzione dei decani delle Facoltà di diritto e medicina con altri colleghi graditi al partito.
Respinsi questa richiesta e annunciai le mie dimissioni dal rettorato qualora il ministro avesse insistito nella sua richiesta. E così avvenne. Era il febbraio del 1934; dopo dieci mesi di servizio, mi ritiravo, mentre i rettori, in quell’epoca, restavano in carica per due o più anni. Mentre la stampa interna ed estera aveva commentato nei modi più svariati la mia assunzione del rettorato, le mie dimissioni passarono completamente sotto silenzio.
Spiegel: A quell’epoca, ha mai trattato o discusso con Rust? (Bernhard Rust, Ministro della Scienza, Educazione e Cultura Germania nazista).
Heidegger: A quell’epoca, quando?
Spiegel: Lei sa che si parla sempre ancora di un viaggio che Rust avrebbe fatto a Friburgo nel 1933.
Heidegger: Si tratta di due diversi episodi: in occasione di una celebrazione in memoria di Schlageter nella sua [natale — Schönau im Wiesental –, pronunciai un breve saluto formale rivolto al Ministro. In seguito, il Ministro non mi tenne in alcuna considerazione. D’altro canto, io non cercai affatto di parlare con lui. Schlageter era uno studente di Friburgo, membro di una corporazione di studenti cattolici.
Il colloquio con il Ministro ebbe luogo nel novembre del 1933, a Berlino, in occasione di una conferenza dei rettori. Esposi al Ministro la mia idea della scienza e della forma che si sarebbe potuta conferire alle Facoltà. Egli ascoltò tutto con attenzione, tanto che coltivai la speranza che la mia relazione potesse sortire qualche effetto. Ma non accadde nulla. Non capisco perché mi si deve rimproverare questo colloquio con l’allora Ministro dell’educazione del Reich, mentre, nello stesso periodo, tutti i governi stranieri si affrettavano a riconoscere Hitler e a manifestargli l’ossequio consueto nelle relazioni internazionali.
Spiegel: Quale fu l’evoluzione dei suoi rapporti con la NSDAP, dopo le dimissioni dalla carica di rettore?
Heidegger: Dopo le dimissioni dal rettorato, mi dedicai unicamente ai miei compiti didattici. Nel semestre estivo del 1934, tenni un corso sulla Logica. Il semestre seguente (1934/1935), tenni il mio primo corso su Hölderlin. Nel 1936, ebbe inizio la serie di corsi su Nietzsche. Tutti coloro che avevano orecchie per intendere intesero che questo era un dibattito dirimente con il nazionalsocialismo.
Spiegel: Come avvenne il passaggio delle consegne? Non partecipò alla cerimonia?
Heidegger: Proprio così! Mi rifiutai di prendere parte alla cerimonia ufficiale per il passaggio delle consegne.
Spiegel: Il Suo successore era un militante del Partito?
Heidegger: Era un giurista; il giornale di Partito, “Der Alemanne”, annunciò la sua nomina a rettore con un titolo a caratteri cubitali: «Il primo rettore nazionalsocialista dell’Università».
Spiegel: In seguito, ebbe delle difficoltà con il Partito?
Heidegger: Venivo costantemente tenuto sotto sorveglianza.
Spiegel: Può fare un esempio?
Heidegger: Sì, il caso del dott. Hancke.
Spiegel: Come se n’è accorto?
Heidegger: Perché fu lui stesso a venire da me. Aveva già ottenuto il dottorato e, nel semestre invernale 1936/1937, e nel semestre estivo del 1937, prese parte al mio seminario ristretto. Era stato mandato dal servizio di sicurezza (SD) per sorvegliarmi.
Spiegel: E per quale ragione venne improvvisamente da Lei?
Heidegger: Avendo seguito il mio seminario su Nietzsche nel semestre estivo 1937, e visto il modo in cui procedeva il lavoro, mi confidò di non poter più reggere il suo incarico di sorveglianza; disse che voleva mettermi al corrente della situazione in vista della mia futura attività didattica.
Spiegel: Ha avuto altri problemi con il Partito?
Heidegger: Sapevo semplicemente che i miei scritti non potevano essere recensiti, per esempio il saggio Platons lehre von der Wahreit. La conferenza su Hölderlin, tenuta all’Istituto germanico di Roma nella primavera del 1936, venne attaccata in modo ripugnante dalla rivista della gioventù hitleriana “Wille und Macht”. Quanti hanno interesse dovrebbero leggere la polemica iniziata contro di me a partire dall’estate del 1934 sulla rivista di E. Krieck “Volk im Werden”.
Al Congresso internazionale di filosofia tenutosi a Praga nel 1935, non fui incluso nella delegazione tedesca, né fui invitato a partecipare. Ugualmente, dovevo rimanere escluso dal congresso internazionale su Cartesio, che ebbe luogo a Parigi nel 1937. Questo fatto produsse un tale sconcerto a Parigi che la direzione del congresso, nella persona del professor Bréhier della Sorbona, prese l’iniziativa di chiedere a me direttamente come mai non facessi parte della delegazione tedesca. Risposi che la direzione del congresso doveva informarsi del caso presso il Ministero dell’educazione del Reich.
Dopo qualche tempo giunse da Berlino l’invito ad aggiungermi alla già costituita delegazione, ma lo declinai. Le conferenze Was ist Metaphysik? e Vom Wesen der Wahreit venivano vendute sottobanco con una copertina senza titolo. Il Discorso di rettorato fu ben presto ritirato dal commercio, dopo il 1934, per ordine del Partito. Se ne poteva discutere solo nelle riunioni di docenti nazisti come oggetto di polemica nel quadro della politica del Partito.
Spiegel: E quando la guerra, nel 1939…
Heidegger: Nell’ultimo anno di guerra, cinquecento tra i più importanti studiosi e artisti furono esentati da ogni sorta di servizio militare. Io non facevo parte degli esonerati; al contrario, nell’estate del 1944 fui reclutato per i lavori di scavo e di fortificazione sul Reno, ai piedi del Kaiserstuhl.
Spiegel: Sull’altra riva, dalla parte della Svizzera, c’era Karl Barth a scavare.
Heidegger: Interessante è il modo in cui andarono le cose. Il rettore aveva invitato tutto il corpo docente nell’aula 5. Tenne un breve discorso il cui contenuto era il seguente: Ciò che stava dicendo era stato concordato col Capo-distretto e col Capo-provincia del Partito nazionalsocialista. Su tale base, avrebbe suddiviso l’intero corpo docente in tre gruppi: innanzitutto, il gruppo di coloro di cui si poteva completamente fare a meno; poi era la volta di coloro di cui si poteva fare a meno per metà; e infine, in un ultimo gruppo, sarebbero stati accolti coloro di cui non si poteva assolutamente fare a meno. Al primo posto, fra i docenti del tutto superflui, furono nominati Heidegger e, di seguito, Gerhard Ritter. Nel semestre invernale 1944/45, terminati i lavori di fortificazione sul Reno, tenni un corso dal titolo Dichten und Denken, in un certo senso una prosecuzione del mio corso su Nietzsche, vale a dire un dibattito dirimente con il nazionalsocialismo. Dopo la seconda ora, fui arruolato nella milizia popolare; ero il più vecchio fra i membri del corpo insegnante che erano stati convocati.
Spiegel: Credo che non abbiamo bisogno di sentire il professor Heidegger in merito agli avvenimenti fino al suo effettivo ritiro in pensione o, diciamo, fino al suo pensionamento di diritto. Queste cose sono note.
Heidegger: Gli avvenimenti non sono affatto noti. E non si è trattato di cose molto belle.
Spiegel: A meno che Lei non voglia aggiungere ancora qualcosa.
Heidegger: No.
Spiegel: Forse possiamo riassumere tutto in questo modo: nel 1933, in qualità di non politico in senso stretto e non in senso lato, Lei è entrato nella politica di questo movimento percepito come uno “scardinamento avviante”…
Heidegger: … sul cammino dell’Università…
Spiegel: … sul camino dell’Università Lei è venuto a trovarsi in questo presunto scardinamento avviante. Dopo circa un anno, Lei rinunciò alla carica che aveva assunto. Ma in un Corso del 1935, pubblicato nel 1953, intitolato Einführung in die Metaphysik, Lei ha detto: «Ciò che oggi — si era nel 1935 — viene spacciato per filosofia del nazionalsocialismo, ma che non ha minimamente da fare con l’intima verità e con la grandezza di questo movimento (e cioè con l’incontro della tecnica planetaria con l’uomo moderno), tutto ciò pesca nelle acque torbide dei “valori” e delle “totalità”».
Le parole tra parentesi sono state aggiunte solo nel 1953, in occasione della stampa — quasi per spiegare al lettore del 1953 in che cosa Lei vedesse, nel 1935, l’«intima verità e la grandezza di questo movimento», vale a dire il nazionalsocialismo — o invece queste parentesi esplicative c’erano già nel 1935?
Heidegger: Erano anche nel mio manoscritto; esse corrispondevano esattamente alla concezione della tecnica che avevo e non alla più tarda interpretazione dell’essenza della tecnica in quanto Ge-stell. Non lessi a lezione questo passo perché ero convinto che i miei ascoltatori mi intendessero; poco mi importava che gli sciocchi, le spie e gli spioni la intendessero in un’altra maniera.
Spiegel: Anche il movimento comunista appartiene, secondo Lei, allo stesso ordine?
Heidegger: Assolutamente sì; anche il comunismo è totalmente determinato dalla tecnica planetaria.
Spiegel: Probabilmente Lei mette sullo stesso piano anche l’insieme di tutti gli sforzi fatti da parte americana?
Heidegger: Anch’essi, direi. Negli ultimi trent’anni, dovrebbe essere risultato chiaro che il movimento planetario della tecnica moderna è una potenza che determina la storia e la cui grandezza non può essere assolutamente sopravvalutata. Per me, oggi, è una questione decisiva stabilire come si possa far corrispondere, in generale, un sistema politico all’epoca tecnica e di quale sistema potrebbe trattarsi. A questa domanda, non so dare risposta. Non sono convinto che sia la democrazia.
Spiegel: Ma “la” democrazia non è che un concetto globale sotto il quale si possono assumere concezioni molto diverse fra loro. Il problema è se sia ancora possibile una trasformazione di questa forma politica. Dopo il 1945, Lei ha parlato delle aspirazioni politiche del mondo occidentale e anche della democrazia, della visione cristiana del mondo espressa in forma politica e dello Stato fondato sul diritto — e tutte queste aspirazioni le ha chiamate delle “cose a metà”.
Heidegger: In primo luogo, La pregherei di dirmi dove io abbia parlato di democrazia e delle cose che ha appena citato. In effetti, le chiamerei delle cose a metà, poiché, tra l’altro, in esse non riscontro alcun dibattito dirimente col mondo tecnico; infatti, ciò che anima tutto questo, a mio parere, è sempre la concezione secondo cui la tecnica, nella sua essenza, sia qualcosa che l’uomo abbia in mano. Credo che ciò non sia possibile. La tecnica, nella sua essenza, è qualcosa che l’uomo, di per sé, non è in grado di dominare.
Spiegel: Quale delle correnti appena indicate sarebbe, secondo Lei, la più adatta ai tempi?
Heidegger: Non saprei. Tuttavia vedo qui una questione decisiva. Innanzitutto, bisognerebbe chiarire che cosa intende Lei quando dice “adatta ai tempi”, e quindi quello che qui significa “tempo”. Ancora ci si dovrebbe chiedere se l’adeguatezza ai tempi sia la misura dell’“intima verità” dell’agire umano e se poi l’agire capace di assegnare la misura non sia il “pensare e poetare”, nonostante il discredito in cui è caduta questa espressione.
Spiegel: Tuttavia è evidente che l’uomo, in ogni epoca della sua storia, non sia mai stato in grado di dominare il proprio strumento; si veda l’apprendista stregone. Non è forse un po’ troppo pessimista dire: non riusciremo mai a dominare questo strumento — certamente molto più grande dei precedenti — che è, appunto, la tecnica moderna?
Heidegger: Pessimismo? No. Il pessimismo e l’ottimismo, nell’ambito della riflessione che tentiamo di fare, sono delle posizioni di portata troppo scarsa. Ma soprattutto — la tecnica moderna non è uno “strumento” e non ha più nulla da fare con gli strumenti
Spiegel: Perché dovremmo essere a tal punto sopraffatti dalla tecnica…?
Heidegger: Non dico “sopraffatti”. Dico che non disponiamo ancora di un cammino che corrisponda all’essenza della tecnica.
Spiegel: Le si potrebbe però, del tutto ingenuamente, obiettare: che cosa si tratta di dominare qui? In fin dei conti, tutto funziona. Si costruiscono sempre più centrali elettriche. La produzione aumenta. Gli uomini che abitano nella parte del globo dove la tecnica ha un elevato sviluppo, vengono ben soddisfatti nei loro bisogni. Viviamo nel benessere. Che cosa manca dunque qui?
Heidegger: Tutto funziona. Ma proprio questo è l’elemento inquietante: che tutto funzioni e che il funzionare spinga sempre avanti verso un ulteriore funzionare, e che la tecnica strappi e sradichi sempre di più l’uomo dalla terra. Non so se Lei sia spaventato; in ogni caso io lo sono stato alla vista delle fotografie della terra scattate dalla luna. Non c’è bisogno della bomba atomica. Lo sradicamento dell’uomo è già in atto. Ormai abbiamo solo rapporti puramente tecnici. Non è più la Terra quella su cui oggi vive l’uomo.
Recentemente, in Provenza, ho avuto un lungo colloquio con René Char, il poeta e combattente della Resistenza, come Lei sa. In Provenza, in questo momento, s’installano delle basi missilistiche, e si devasta la campagna in maniera inimmaginabile. Il poeta, che certamente non è sospetto di sentimentalismi o di celebrazioni idilliche, mi diceva che lo sradicamento dell’uomo qui in atto significa la fine, a meno che, ancora una volta, il pensiero e la poesia non prendano il potere — quel potere privo di violenza che è loro proprio.
Spiegel: Diciamo allora che noi preferiamo stare qui e che, in quest’epoca almeno, non saremo certo costretti ad andarcene; ma chi lo sa se la destinazione dell’uomo sia di stare su questa terra? Si potrebbe pensare che l’uomo non abbia alcuna destinazione. Comunque si potrebbe considerare come una possibilità dell’uomo quella di emigrare da questa terra su altri pianeti. Certo, ce ne vorrà di tempo. Ma dove sta scritto che sia proprio questo il posto dell’uomo?
Heidegger: Secondo la storia e l’esperienza di noi uomini, almeno per quel che ne so io, tutto ciò che è essenziale e grande è scaturito unicamente dal fatto che l’uomo avesse una patria e fosse radicato in una tradizione. La letteratura di oggi, per esempio, è ampiamente distruttiva.
Spiegel: La parola “distruttivo” qui ci disturba, anche perché la parola “nichilista” ha subito, grazie a Lei e alla sua filosofia, una profonda ricontestualizzazione. Ci sorprende il termine “distruttivo” applicato alla letteratura, che Lei potrebbe o dovrebbe considerare come facente parte di questo nichilismo.
Heidegger: Vorrei dire che la letteratura di cui parlo non è nichilista nel senso da me pensato (Nietzsche II, p. 335 ss; ed. it. Milano, p. 809).
Spiegel: Lei vede evidentemente — così si è espresso — un movimento mondiale che conduce, o ha addirittura già condotto, allo Stato tecnico assoluto.
Heidegger: Sì! Ma lo Stato tecnico è proprio quello che meno corrisponde al mondo e alla società determinati dall’essenza della tecnica. Lo Stato tecnico sarebbe il servo più servile e più cieco di fronte alla potenza della tecnica.
Spiegel: Bene. A questo punto si pone naturalmente la questione: l’uomo singolo può ancora avere un’influenza su questo intreccio e concatenamento di necessità, o è la filosofia che può influenzarlo, oppure possono influenzarlo entrambi nella misura in cui la filosofia induca l’individuo o più individui a compiere una determinata azione?
Heidegger: Con queste domande, Lei ci riporta all’inizio del nostro colloquio. Se posso rispondere brevemente, e forse un po’ grossolanamente, ma sulla base di una lunga riflessione, direi così: la filosofia non potrà produrre nessuna modificazione immediata dello stato attuale del mondo. E questo non vale solo per la filosofia, ma per ogni riflessione e per ogni aspirazione degli uomini. Solo un Dio, ormai, può aiutarci a trovare una via di scampo. Vedo, come unica possibilità di via di scampo, questo: preparare, nel pensiero e nella poesia, una disponibilità e una prontezza per l’apparizione del Dio oppure per l’assenza, il dis-stanziarsi, del Dio nel tramonto; in modo che il nostro destino non sia quello, per dirla brutalmente, di “crepare”, ma che sia, se dobbiamo tramontare, quello di tramontare al cospetto del Dio assente.
Spiegel: C’è una connessione tra il suo pensiero e l’avvento di questo Dio? Vi è qui, a suo modo di vedere, una relazione causale? Crede che possiamo provocare l’avvento di questo Dio con il lavoro del pensiero?
Heidegger: Noi non possiamo avvicinarlo col pensiero, siamo tutt’al più in grado di risvegliare la disponibilità dell’attesa.
Spiegel: Ma c’è qualcosa che possiamo fare?
Heidegger: La preparazione della disponibilità e della prontezza potrebbe essere il primo aiuto. Il mondo non può essere ciò che è e come è grazie all’uomo, ma neppure senza l’uomo. Secondo ciò che posso vedere, il punto è questo: quello che indico con la dizione “essere” — dizione di lunghissima tradizione e dai molteplici significati, ed ora logorata dall’uso –, ebbene, l’“essere” ha bisogno dell’uomo; infatti l’essere non è essere senza che l’uomo sia usato, impiegato per la sua (dell’essere) aperta manifestazione, per la sua custodia e per la sua configurazione. L’essenza della tecnica la vedo in quello che chiamo Ge-stell, espressione che a prima vista può essere facilmente fraintesa, ma che, se soppesata rettamente, rimanda al cuore della storia della metafisica — ossia di ciò che oggi intona e determina ancora il nostro Dasein. Il vigere del Ge-stell significa questo: l’uomo è posto, preteso e reso oggetto di una ingiunzione da una potenza che diviene apertamente manifesta nell’essenza della tecnica. Ora, esattamente nell’esperienza — che l’essere umano fa — di questo essere posto, preteso e reso oggetto di un’ingiunzione da parte di qualcosa che egli stesso non è e di cui non è affatto padrone, ebbene in tale esperienza gli è offerta la possibilità di gettare uno sguardo nel fatto che l’uomo è usato, impiegato, adoperato dall’essere. Qui, nell’elemento più proprio della tecnica moderna, si nasconde la possibilità dell’esperienza dell’essere usato e impiegato e dell’essere pronto per queste nuove possibilità. Condurci a questo sguardo, a questa “visuale”: il pensiero non pretende più di questo, e la filosofia è finita.
Spiegel: In passato — e non solo in passato — si è tuttavia pensato che la filosofia avesse molti effetti indiretti, raramente degli effetti diretti… insomma, che potesse avere molti effetti indiretti e che avesse aperto la via a nuove correnti. Se ci si limita ai tedeschi e si pensa ai grandi nomi: Kant, Hegel, fino a Nietzsche, per non parlare poi di Marx, possiamo provare che, sia pure per vie traverse, la filosofia ha avuto una grandissima influenza. Lei intende allora dire che questa influenza della filosofia sia finita? E quando dice che la filosofia è morta, che non esiste più, intende con ciò che anche quell’efficacia della filosofia (se pure mai vi sia stata) oggi per lo meno non vi sia più?
Heidegger: Ho appena detto: attraverso un altro pensiero, è possibile un’influenza mediata, ma mai un’influenza diretta che possa far asserire: il pensiero cambia lo stato del mondo in modo causale “cioè: il pensiero come possibile causa di un mutamento del mondo”.
Spiegel: Ci scusi, noi non vogliamo filosofare, non ne siamo all’altezza, ma qui abbiamo il punto di congiunzione fra politica e filosofia, perciò ci perdoni se la trasciniamo in un discorso di questo genere. Ha appena detto che la filosofia e l’individuo non possono fare altro che…
Heidegger: …preparare la disponibilità e la prontezza a tenersi aperti per l’avvento o per il rimaner lontano del Dio. Anche l’esperienza di questo “rimanere lontano” non è mai un nulla, bensì la liberazione dell’uomo da ciò che, in Sein und Zeit, ho chiamato la Verfallenheit verso l’ente. La meditazione su ciò che è oggi, appartiene alla preparazione della suddetta disponibilità.
Spiegel: Ma allora qui sarebbe effettivamente necessaria anche la famosa spinta che viene dall’esterno, da un Dio o da qualcun altro. Dunque, partendo da se stesso e contando sulle proprie forze il pensiero non potrebbe più avere alcun effetto oggi? Una volta ciò fu possibile, questa almeno era l’opinione dei contemporanei e, credo, anche la nostra.
Heidegger: Ma non in modo immediato.
Spiegel: Abbiamo già indicato Kant, Hegel e Marx come dei grandi “incamminanti”, dei grandi datori di indirizzo. Ma anche da Leibniz provengono degli spunti — per lo sviluppo della fisica moderna e per la nascita del mondo moderno in generale. Se abbiamo capito bene, Lei prima ha detto di non contare più, oggi, su un effetto di tal genere?
Heidegger: Non più nel senso della filosofia. Il ruolo della filosofia è stato oggi assunto dalle scienze. Per chiarire esaurientemente l’“effetto” e l’efficacia del pensiero, dovremmo puntualizzare più a fondo cosa possa significare qui “effetto”, “avere degli effetti”. “effettuare”. Dovremmo fare delle distinzioni molto precise fra Anlaß (occasione), Anstoß (urto, impulso), Förderung (promozione), Nachhilfe (aiuto), Behinderung (impedimento), Mithilfe (assistenza). Ma otterremo la dimensione adeguata per queste distinzioni solo quando avremo puntualizzato in modo sufficientemente esauriente “la struttura del principio di ragione”. La filosofia si dissolve in scienze particolari: la psicologia, la logica, la politologia.
Spiegel: E chi prende ora il posto delle filosofia?
Heidegger: La cibernetica.
Spiegel: O l’uomo pio che si mantiene aperto?
Heidegger: Ma questa non è più filosofia.
Spiegel: E che cos’è allora?
Heidegger: Io lo chiamo l’altro pensiero.
Spiegel: Lei lo chiama l’altro pensiero. Potrebbe formularlo un po’ più chiaramente?
Heidegger: Sta pensando alla frase che conclude la mia conferenza Die Frage nach der Technik: «infatti il domandare e l’interrogare sono la pietas del pensiero»?
Spiegel: Nel Suo corso su Nietzsche abbiamo trovato una frase che ci sembra convincente: «Nel pensiero filosofico il legame [l’”amore”] tocca il suo culmine; per questo tutti i grandi pensatori pensano il medesimo. Ma questo medesimo è così essenziale e ricco da non poter essere esaurito da nessun singolo pensatore; anzi: ciascuno lega più rigorosamente tutti gli altri ‘al medesimo’». Ma allora è proprio questa costruzione filosofica che, a suo parere, è giunta ad una certa conclusione, a un certo esito.
Heidegger: Si è conclusa, ma, per noi, non si è annullata, bensì è presente in modo nuovo proprio nel colloquio. Tutto il lavoro che ho svolto nei miei corsi e nei miei seminari, negli ultimi trent’anni, è stato principalmente un’interpretazione della filosofia occidentale. Il ritorno alle posizioni storiche fondamentali del pensiero, la ponderazione fondamentale delle questioni che, a partire dalla filosofia greca, non erano ancora state poste come questioni — tutto ciò non è uno svincolarsi dalla tradizione. Ma io dico: quella modalità del pensiero, caratteristica della tradizione metafisica conclusasi con Nietzsche, non offre più alcuna possibilità al pensiero di esperire i tratti fondamentali dell’età della tecnica che è solo all’inizio.
Spiegel: Circa due anni or sono, in un colloquio con un monaco buddista, Lei ha parlato di “un metodo interamente nuovo del pensiero”, e ha aggiunto che tale nuovo metodo del pensiero “per ora, è alla portata solo di pochi uomini”. Voleva forse dire che solo un piccolissimo numero di persone può avere le intuizioni che, a suo parere, sarebbero possibili e necessarie?
Heidegger: “Avere” in senso assolutamente originario: che essi possono in un certo qual modo dirle.
Spiegel: Sì, ma anche nel colloquio con il buddista, Lei non ha fatto vedere chiaramente la trasmissione che porti ad un effetto, ad una realizzazione.
Heidegger: E non posso neppure far sì che si renda visibile. Non so nulla del modo in cui questo pensiero “effettui”, “abbia effetti”, “realizzi”. Forse il cammino di un pensare conduce oggi a tacere per impedire che il pensiero sia svenduto nel giro di un anno. Può anche darsi che esso abbia bisogno di trecento anni per “avere effetti” e “realizzare qualcosa”.
Spiegel: Comprendiamo molto bene. Ma dato che non vivremo fra trecento anni, ma viviamo qui ed ora, ci è vietato tacere. Noi, politici, semi-politici, cittadini, giornalisti ecc., noi dobbiamo continuamente prendere una qualche decisione. Dobbiamo adattarci al sistema in cui viviamo, dobbiamo cercare di modificarlo, dobbiamo ricercare la porta stretta verso una riforma, oppure quella ancora più stretta verso una rivoluzione. Ci aspettiamo un aiuto dai filosofi, un aiuto indiretto naturalmente, un aiuto per vie traverse. E qui ci sentiamo rispondere: io non vi posso aiutare.
Heidegger: Infatti non posso.
Spiegel: E questo non può che scoraggiare il non filosofo.
Heidegger: Non posso farlo perché le questioni sono così difficili che sarebbe contro il senso di questo compito del pensiero presentarsi, per così dire, in pubblico, predicare e distribuire censure morali. Forse possiamo azzardarci a dire: al segreto dell’ultrapotenza planetaria dell’essenza impensata della tecnica corrisponde il carattere provvisorio e inapparente di quel pensiero che tenta di pensare in modo consono a tale impensato.
Spiegel: Lei non si colloca fra coloro che, se solo venissero ascoltati, potrebbero mostrare un cammino?
Heidegger: Assolutamente no! Non conosco alcun cammino che conduca al cambiamento immediato del presente stato del mondo, posto che un tale cambiamento sia possibile all’uomo. Ma mi sembra che il pensiero tentato potrebbe risvegliare la disponibilità e la prontezza di cui ho parlato prima, chiarirla e rafforzarla.
Spiegel: Una risposta chiara — ma un pensatore può e ha il diritto di dire: abbiate pazienza, entro trecento anni qualcosa ci verrà in mente?
Heidegger: Non si tratta semplicemente di aspettare che l’uomo, passati trecento anni, abbia un’idea, bensì, a partire dai tratti di fondo appena pensati dell’età attuale, di pensare in avanti nel tempo veniente senza pretese profetiche. Il pensare non è inattività, ma, in sé, l’agire che insiste nel diloquio con il destino del mondo. Mi sembra che la distinzione di teoria e prassi derivante dalla metafisica, e la rappresentazione di una trasmissione tra l’una e l’altra, sbarri la strada alla possibilità di gettare uno sguardo in ciò che intendo con la parola “pensiero”. Forse posso rinviarvi qui alle lezioni apparse nel 1954 con il titolo Was heißt Denken? Forse anche questo è un segno dei nostri tempi, e cioè che tale scritto sia proprio il meno letto di tutti quelli che ho pubblicato.
Spiegel: È naturalmente sempre stato un fraintendere della filosofia ritenere che il filosofo debba, con la propria filosofia, avere un qualche effetto diretto, un’efficacia. Ritorniamo al nostro punto di partenza. Non sarebbe pensabile vedere il nazionalsocialismo, da un lato, come la realizzazione di quell’“incontro planetario”, e, dall’altro come l’ultima, la peggiore, la più forte e, al contempo, la più impotente protesta contro questo incontro della “tecnica determinata in modo planetario” con l’uomo dei Tempi moderni? È evidente che nella sua stessa persona, Lei reca una contraddizione o un’opposizione tale che molti prodotti secondari della sua attività si possono spiegare solo in questo modo: per molti lati del suo essere, che non riguardano il nucleo filosofico, Lei è abbarbicato a molte cose delle quali sa, in quanto filosofo, che non hanno alcuna consistenza — per esempio concetti come “patria”, “radicamento” o cose del genere. Come si accordano tra di loro delle cose come tecnica planetaria e patria?
Heidegger: Io non direi questo. Mi sembra che Lei prenda la tecnica in modo un po’ troppo assoluto. Non vedo la situazione dell’uomo, nel mondo della tecnica planetaria, come una sventura inestricabile ed inevitabile, anzi vedo che il compito del pensiero consiste proprio nell’aiutare, entro i propri limiti, l’uomo a entrare innanzitutto in un rapporto equilibrato con l’essenza della tecnica. Il nazionalsocialismo si era mosso in questa direzione; quella gente era però troppo sprovveduta dal punto di vista del pensiero per guadagnare un rapporto veramente esplicito con ciò che oggi accade e che è in cammino da tre secoli.
Spiegel: Questo rapporto esplicito, forse, lo hanno oggi gli Americani?
Heidegger: Neppure loro che l’hanno, sono ancora impigliati in un pensiero che, in quanto pragmatismo, favorisce l’avanzamento delle operazioni e delle manipolazioni tecniche, ma al contempo sbarra il cammino verso la meditazione delle peculiarità [del “proprio”] della tecnica moderna. E, d’altra parte, negli USA si notano qua e là tentativi di svincolarsi dal pensiero pragmatico-positivista. E chi di noi potrebbe affermare che un giorno, in Russia o in Cina, non si sveglino tradizioni molto antiche di un “pensiero”, che contribuiscano a rendere possibile all’uomo un libero rapporto con il mondo tecnico?
Spiegel: Se dunque nessuno l’ha trovato ancora, mentre il filosofo, per quanto stia in lui, non lo può indicare…
Heidegger: Non sta a me decidere fino a dove giungerà il mio tentativo di pensiero, in che modo verrà accolto in avvenire e modificato in maniera feconda. Nel 1957, in una conferenza scritta per il giubileo dell’Università di Friburgo intitolata Der Satz der Identität, ho osato mostrare, in pochi tratti, in che misura, ad un’esperienza pensante di ciò su cui riposa la peculiarità della tecnica moderna, si apra la possibilità che l’uomo dell’età tecnica esperisca il rapporto con un richiamo che non solo egli è in grado di ascoltare, ma al quale, più ancora, egli appartiene. Il mio pensiero insiste in un rapporto inaggirabile con la poesia di Hölderlin. Ma non considero Hölderlin un poeta qualsiasi — un poeta la cui opera possa essere presa in considerazione dagli storici della letteratura accanto a quella di molti altri. Hölderlin è per me il poeta che indica verso l’avvenire, è il poeta che attende il Dio e che quindi non può restare il semplice oggetto degli studi hölderliniani all’interno delle rappresentazioni di storia della letteratura.
Spiegel: A proposito di Hölderlin — ci scusiamo di dover di nuovo fare una citazione: nei suoi corsi su Nietzsche, Lei scrive: «La lotta, variamente nota, fra il dionisiaco e l’apollineo, fra la passione salubre e la rappresentazione sobria, costituisce una nascosta legge stilistica dell’intonatura storica dei Tedeschi; un giorno, essa dovrà trovarci pronti e preparati alla ricerca di una sua configurazione. Questo contrasto non è solo una formula con l’aiuto della quale possiamo descrivere dei fatti “culturali”. Con questa lotta, Hölderlin e Nietzsche hanno posto un punto interrogativo dinanzi al compito dei Tedeschi, consistente nel dover trovare storicamente la loro essenza storica. Riusciremo a comprendere questi segni? Una cosa è certa: la storia si vendicherà di noi se non li comprenderemo.» Non sappiamo in che anno Lei scrivesse queste righe, presumibilmente intorno al 1935.
Heidegger: Probabilmente la citazione fa parte del corso su Nietzsche Der Wille zur Macht als Kunst del 1936/37. Ma potrebbe anche essere stata detta negli anni seguenti.
Spiegel: Non vorrebbe chiarircela un po’ meglio? Essa infatti sembra condurci dal percorso generale a una concreta “intonatura” — come Lei dice — dei Tedeschi.
Heidegger: Potrei riformulare la citazione in questo modo: la mia convinzione è che solo a partire dallo stesso “punto ortivo” del mondo nel quale è sorto il moderno mondo tecnico possa prepararsi una conversione, e che essa non possa prodursi attraverso l’adozione del buddismo zen o di altre esperienze del mondo orientali. La conversione del pensiero ha bisogno dell’aiuto della tradizione europea e di una nuova appropriazione di quest’ultima. Il pensiero può essere trasformato solo da quel pensiero che ha la stessa origine e la stessa intonatura.
Spiegel: Proprio in questo posto dove il mondo tecnico è nato, proprio qui, secondo Lei, esso deve anche…
Heidegger: … essere “tolto” (aufgehoben), nel senso hegeliano del termine — non “messo da parte”, bensì tolto e superato, ma non attraverso l’uomo soltanto.
Spiegel: Lei attribuisce in modo specifico ai Tedeschi un compito particolare ?
Heidegger: Sì, nel senso del colloquio con Hölderlin.
Spiegel: Crede che i Tedeschi abbiano una qualificazione specifica per questa conversione?
Heidegger: Penso alla particolare intima affinità della lingua tedesca con la lingua dei Greci e con il loro pensiero. E questa è una cosa che oggi i Francesi mi confermano continuamente. Quando prendono a pensare parlano tedesco; assicurano che, nella loro lingua non ce la fanno.
Spiegel: Spiega dunque in questo modo l’influenza così forte che Lei ha avuto nei paesi romanzi, soprattutto sui francesi?
Heidegger: Poiché vedono che con tutta la loro grande razionalità non arrivano a nulla, nel mondo odierno, quando si tratti di comprenderlo nella provenienza della sua essenza. Così come non si possono tradurre le poesie, non si può tradurre un pensiero. Si può tutt’al più parafrasarlo. Appena si tenti una traduzione parola per parola, tutto viene trasformato.
Spiegel: Un pensiero non molto agevole, scomodo.
Heidegger: Sarebbe bene prendere questa “scomodità” molto seriamente su vasta scala, e soppesare una buona volta la natura di quella trasformazione, ricca di conseguenze, subita dal pensiero greco attraverso la traduzione nel latino di Roma; si tratta infatti di un accadimento che ancora oggi ci impedisce di pensare correttamente le dizioni fondamentali del pensiero greco.
Spiegel: Professore, noi in realtà vorremmo partire sempre dalla visione ottimistica che qualcosa si possa comunicare ed anche tradurre, poiché se cessa la speranza che i contenuti di pensiero possano essere comunicati anche al di là dei confini linguistici, nasce il rischio della provincializzazione.
Heidegger: Lei definirebbe il pensiero greco, nella sua differenza rispetto al modo di rappresentazione dell’Impero romano, come “provinciale”? Le lettere commerciali si possono tradurre in tutte le lingue. Le scienze, vale a dire anche per noi oggi le scienze naturali, con la fisica matematica in quanto scienza fondamentale, sono traducibili in tutte le lingue del mondo, o meglio: non si traduce nulla, poiché si parla la stessa lingua matematica. Qui sfioriamo un campo molto vasto e difficile da misurare.
Spiegel: Può darsi che anche questo faccia parte del tema: al momento, lo possiamo dire senza esagerare, abbiamo una crisi del sistema democratico parlamentare. È una crisi di lunga data. Essa è presente soprattutto in Germania, ma non soltanto in Germania. Esiste anche nei paesi classici della democrazia, In Inghilterra e in America. In Francia, non la possiamo già più definire una crisi. La domanda allora è: dai pensatori non possono giungere, sia pure come sottoprodotto, delle indicazioni circa la sostituibilità di questo sistema con uno nuovo e su come esso debba essere, oppure circa la possibilità e il modo di una sua riforma? Se no resta al fatto che l’uomo filosoficamente non educato — e cioè, per lo più, proprio quello nelle cui mani stanno le cose (benché non sia lui a determinarle) e che a sua volta è nelle mani delle cose — che quest’uomo, appunto, arrivi a conclusioni sbagliate, anzi forse a terribili cortocircuiti. Perciò: il filosofo non dovrebbe essere pronto a farsi un’idea su come gli uomini possano organizzare la loro vita in comune in questo mondo che loro stessi hanno reso tecnico e che, forse, già li sta dominando? Non si è in diritto di aspettarsi dal filosofo delle indicazioni sul modo in cui si rappresenta una possibilità di vita, e non viene meno il filosofo ad una parte — seppur piccola — della sua professione e della sua vocazione se non trasmette nulla al proposito?
Heidegger: Per quel che posso vedere, un individuo non è in grado, a partire dal pensiero, di avere una visione così penetrante del mondo nella sua interezza da poter dare indicazioni pratiche, e ciò a maggior ragione dove il compito da assumersi sia quello di trovare una nuova base per il pensiero stesso. Il pensiero, nella misura in cui si prenda sul serio rispetto al proprio rapporto con la grande tradizione, è posto dinanzi ad una pretesa eccessiva, se deve mettersi a fornire indicazioni concrete. In base a quale competenza potrebbe accadere qualcosa di simile? Nell’ambito del pensiero, non vi sono enunciazioni autoritative. La sola misura adeguata per il pensiero proviene dalla cosa stessa che deve essere pensata. Ma è proprio questa cosa ciò che, prima di ogni altra, è degna d’essere soppesata, è degna cioè di divenire il pensum stesso del pensiero. Per rendere comprensibile questo stato di cose bisognerebbe innanzitutto puntualizzare il rapporto tra la filosofia e i saperi delle scienze, i cui successi tecnico-pratici fanno apparire oggi sempre più superfluo un pensiero nel senso filosofico della parola. A questa difficile, presente posizione, nella quale il pensiero stesso viene a trovarsi al suo precipuo compito, corrisponde un’estraneazione, alimentata proprio dalla posizione di forza dei saperi scientifici, nei confronti del pensiero, il quale deve rinunciare a fornire risposte, richieste dal momento, alle questioni di ordine pratico e ai problemi tipici delle varie visioni del mondo.
Spiegel: Professore, nell’ambito del pensiero, non vi sono enunciazioni autoritative. Perciò non ci si deve affatto sorprendere che anche l’arte moderna trovi difficile pronunciare enunciati autoritativi. Tuttavia, Lei la chiama “distruttiva”. L’arte moderna intende spesso se stessa come arte sperimentale. Le sue opere sono dei tentativi…
Heidegger: Mi lascio volentieri istruire.
Spiegel: … dei tentativi di uscire da una situazione d’isolamento dell’uomo e dell’artista e, tra mille tentativi, ogni tanto capita che uno faccia centro.
Heidegger: È questo il grande problema: Dove sta l’arte? Qual è il suo luogo?
Spiegel: D’accordo, ma qui Lei pretende dall’arte qualcosa che non pretende più dal pensiero.
Heidegger: Dall’arte non pretendo nulla. Dico solo — ed è una domanda — che bisogna vedere quale luogo occupi l’arte.
Spiegel: Se l’arte non conosce il proprio luogo deve per questo essere distruttiva?
Heidegger: Va bene, cancelli questa parola. Vorrei però constatare che non vedo quale cammino indichi l’arte moderna; soprattutto, perché rimane oscuro in che cosa l’arte veda, o per lo meno cerchi, il suo elemento più proprio.
Spiegel: Anche all’artista manca un legame vincolante verso ciò che è stato tramandato: egli può trovarlo bello e dire: ecco, così si sarebbe potuto dipingere seicento anni fa, o trecento anni fa o ancora trent’anni fa. Ma sta di fatto che egli non può più dipingere così. Anche se volesse, non potrebbe farlo. Altrimenti il più grande artista sarebbe il geniale falsario Hans van Meegeren che allora saprebbe dipingere “meglio” di chiunque altro. Ma, appunto, non è più possibile. Sicché l’artista, lo scrittore, il poeta sono in una situazione simile a quella del pensatore. Quante volte dobbiamo dire a noi stessi: chiudi gli occhi!
Heidegger: Se il quadro scelto per collocare al loro posto l’arte, la poesia e la filosofia è l’“attività culturale”, allora l’equiparazione è giusta. Ma se rendiamo degna di domanda non solo l’attività culturale, ma anche il senso della “cultura”, allora anche la meditazione su questo elemento degno di domanda rientra nei compiti del pensiero, il cui stato di necessità e di urgenza non è neppure immaginabile. Ma la sua più grande urgenza consiste nel fatto che oggi, per quanto io veda, non esiste ancora un pensatore così “grande” la cui parola possa condurre il pensiero, immediatamente e in una forma chiaramente squadrata, dinanzi al suo pensum per porlo così sul suo cammino. Per noi uomini odierni, la grandezza di ciò che deve essere pensato è troppo grande. Possiamo forse concentrare le nostre fatiche (fino all’esaurimento delle forze) nella costruzione di stretti e brevi ponticelli e sentieri di un trapasso, di un trapasso-oltre.
Spiegel: Professor Heidegger, la ringraziamo per questo colloquio.