Gustav Jung e l’irruzione del nuovo
di Emanuele Severino
La psicologia analitica di Jung
La “psicologia analitica” di Jung si porta decisamente al di là della prospettiva deterministico-meccanicistica, all’interno della quale la psicoanalisi interpreta la vita dell’uomo: la vita psichica non è sottoposta a leggi causali necessarie, ma, proprio perché è divenire, è possibilità e rischio.
L’energia psichica originaria, inoltre, non si costituisce solo come inconscio individuale, ma innanzitutto come “inconscio collettivo”.
Come il corpo umano presenta, al di là delle differenze razziali, un’anatomia comune, così nella psiche esiste — al di là delle diverse configurazioni psichiche, dovute alla cultura e al modo in cui gli individui sono coscienti del mondo — un substrato comune inconscio, “l’inconscio collettivo”, appunto, che non è tanto un insieme di contenuti che tendono a diventare consci, ma di «disposizioni latenti a certe reazioni identiche».
Gli archetipi
L’inconscio collettivo è la base comune che spiega le analogie sostanziali tra le grandi immagini primordiali dell’uomo (miti, simboli, possibilità di intesa tra gli esseri umani): è l’insieme degli istinti di rappresentazione e di azione, l’insieme delle immagini archetipiche inconsce, gli “archétipi”, appunto, che si sono formati lungo l’esistenza dell’uomo.
Essi formano la sedimentazione della sua esperienza e dunque sono strutture ereditarie, forme che condizionano il suo sviluppo.
Tuttavia, a differenza delle forme a priori kantiane, gli archetipi non hanno un valore assoluto, ma sono il fatto che sta all’inizio della storia dell’uomo e di cui l’uomo prende coscienza come di qualcosa di oggettivo: “nascita”, “morte”, padre, madre, pace, guerra, amore, Dio, sono appunto archetipi che traducono sul piano della coscienza un insieme di istinti originari della psiche.
A una situazione in cui la coscienza non è molto sviluppata, corrisponde uno stato primitivo di benessere psichico, che viene perduto man mano che la coscienza si rende autonoma rispetto all’inconscio e si ribella «contro i vecchi dèi, che altro non sono che le potenti immagini archetipiche inconsce che fino allora avevano tenuto la coscienza in stato di soggezione» (C. Jung, “Commento europeo”, a Il segreto del fiore d’oro, 1929).
La rottura dell’unità tra inconscio e coscienza
Sradicandosi dalle immagini arcaiche, la coscienza diventa hybris e in questa conflittualità tra inconscio e coscienza si stabiliscono le condizioni del crollo psichico. Il compito della psicologia è di superare il conflitto — e per Jung l’assolvimento autentico di tale compito mette la psicologia in una profonda sintonia con le grandi forme di saggezza dell’Oriente. La nevrosi scaturisce dalla rottura dell’unità originaria di inconscio e coscienza.
Si tratta di ricostituirla. Ma la terapia non consiste nel rimuovere le contraddizioni che si presentano nel paziente quando quell’unità viene perduta, bensì nel favorire in lui un «innalzamento del livello della coscienza, e cioè il comparire di un interesse più elevato e più ampio», che non rimuove la contraddizione, ma le fa perdere importanza, come quando dalle cime di un monte si contempla un temporale nella valle.
Il nuovo come funzione liberatoria
Il paziente non si identifica più allo stato affettivo patologico e diventa cosciente della propria sofferenza. I problemi, le sofferenze, le contraddizioni non si risolvono: ci si può portare al di sopra di essi.
Il fatto patologico consiste nel restare bloccati all’interno di un conflitto e nel non affidarsi al “nuovo” che il divenire del mondo porta sempre con sé e che quindi non deve essere intenzionalmente perseguito all’interno della volontà di controllare l’accadere delle cose.
Il “nuovo” inviato all’uomo dal “destino impenetrabile”, non corrisponde alle attese.
Perché il “nuovo” compia la sua funzione liberatoria, l’individuo non deve fare proprio nulla, come suggerisce il taoismo e, nella mistica europea, Eckhart.
Bisogna essere psichicamente in grado di lasciar accadere le cose.
Non dobbiamo voler imporre al loro accadimento la nostra volontà e le nostre costruzioni concettuali. La critica di ogni valore epistemico della psicologia, in questo modo, è perentoria.
Emanuele Severino, La filosofia contemporanea, Milano, RCS libri, 2010, pp. 330–331