Gramsci: dalla dittatura del proletariato all’egemonia
di Emanuele Severino
L’egemonia
Per Antonio Gramsci (1891–1937) non è possibile, nelle società occidentali, uno scontro frontale tra proletariato e borghesia, cioè una rivoluzione violenta come quella sovietica.
La coscienza di classe, nel proletariato occidentale — ossia in condizioni di avanzato sviluppo capitalistico — è soprattutto conquista, da parte della classe rivoluzionaria, dell’“egemonia” sul piano intellettuale, culturale e morale, prima ancora che su quello istituzionale e economico.
Egemonia, che è capacità di direzione culturale e diffusione in tutte le istituzioni sociali di un nuovo “senso comune”, quello della classe rivoluzionaria in ascesa. Gramsci, che pur si dichiara “leninista”, ritiene cioè che nella diversa situazione storica in cui si trova il proletariato occidentale, si debba rovesciare la strategia leninista, per la quale la conquista del potere è il momento fondamentale e l’egemonia è quello derivato — un modello strategico, questo, valido per le società relativamente arretrate.
Ma per Gramsci lo sviluppo storico e il movimento rivoluzionario non hanno un carattere deterministico: la dialettica della realtà non è uno sviluppo necessario, regolato da leggi costanti, regolari, uniformi, e quindi prevedibili all’interno di una prospettiva teorica. Il determinismo, il meccanicismo e il fatalismo, che stabiliscono il clima della Seconda Internazionale, producono l’inerzia nelle masse proletarie e la loro subordinazione alle strutture del mondo borghese.
Il superamento della concezione deterministica
Per Gramsci è innanzitutto inaccettabile la concezione deterministica del rapporto tra struttura economica e sovrastruttura ideologica. L’affermazione della coscienza di classe e dell’egemonia del proletariato rivoluzionario è espressione della libertà, non della necessità. E libertà è la prassi, l’azione umana, e quindi l’azione rivoluzionaria.
Il marxismo non è naturalismo meccanicistico ed evoluzionistico: il “materialismo storico” è “umanesimo assoluto”, storicismo rigorosamente immanentistico — a differenza dello storicismo crociano ancora gravato, per Gramsci, dalle categorie “speculative”, “teologiche” e della trascendenza metafisica.
Le scienze naturali non possono essere dunque il modello concettuale del marxismo, e la metodologia storica non può essere concepita “scientificamente”: non può avere il compito di “prevedere” l’avvenire della società, in modo analogo a quello in cui le scienze naturali prevedono l’evoluzione dei processi naturali. Non esiste una “causa prima” dalla quale discenda necessariamente la serie delle cause seconde dell’evoluzione sociale.
Nel suo carattere autenticamente storico, il divenire è imprevedibilità e libertà. Una causa prima e una gerarchia di cause sarebbe la negazione dell’imprevedibilità e libertà della storia umana. (È, questo, si è visto, il modo tipico con cui, nella filosofia contemporanea si configura la distruzione dell’epistéme.)
Non esiste una previsione scientifica dei momenti concreti della lotta del proletariato contro la borghesia, perché essi sono il risultato di «forze contrastanti in continuo movimento», e quindi «non riducibili mai a quantità fisse» esprimibili da leggi «costanti, regolari e uniformi».
Per Gramsci, la previsione reale è diversa dalle illusioni «scientistiche», perché non è «un atto scientifico di coscienza», ma è un atto della volontà: la previsione reale è possibile «nella misura in cui si opera», perché la volontà, muovendosi verso un risultato determinato, preveduto, «contribuisce concretamente a creare il risultato preveduto». La previsione è espressione dello sforzo ed è il nucleo intorno al quale si costituisce la “volontà collettiva” (A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Einaudi, Torino 1949, p. 40).
Emanuele Severino, La filosofia contemporanea, Milano, RCS libri, 2010, pp. 290–91