Gli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara
di Aby Warburg
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Il restauro
I magnifici ed enigmatici affreschi di Palazzo Schifanoia (1468.1470) a Ferrara sono tornati visitabili, dopo la chiusura per restauro a seguito del terremoto del 2012. La messa in sicurezza dell’edificio e il suo unico patrimonio artistico ha richiesto oltre due anni di lavoro.
Gli affreschi dei Mesi di Francesco del Cossa meritano una visita speciale anche per il nuovo allestimento delle luci che permette una maggiore leggibilità del ciclo pittorico.
Vogliamo aiutarvi a preparare la visita offrendovi in lettura il saggio, pubblicato nel lontano 1912, che Aby Warburg ha dedicato agli affreschi di Palazzo Schifanoia.
Il punto di vista di Warburg
Si tratta della relazione che Warburg presentò al Congresso di Roma degli storici dell’arte. In questo intervento scrive Gombrich “presentò la sua interpretazione dei misteriosi affreschi di Palazzo Schifanoia. Questi affreschi si prestavano infatti in modo eccellente al suo intento di chiarire ancora una volta il vero significato del Rinascimento italiano”. Il piano delle raffigurazioni astrologiche dell’affresco che attinge a una fonte classica e non medievale “annuncia, scrive ancora Gombrich, l’incipiente Rinascimento … e le prime tracce della riforma”.
Questo saggio di Warburg può essere considerato una vera e propria svolta nel campo della storia dell’arte, forse paragonabile all’importanza che la teoria della sessualità di Freud ebbe sulle discipline della psicologia umana.
La nascita dell’iconologia
Nella parte finale del saggio Warburg delinea il nuovo spazio entro cui deve avvenire “l’ampliamento metodologico dei confini tematici e geografici della storia dell’arte” nel tentativo di costruire una «psicologia storica dell’espressione umana».
Un metodo simile non si deve far intimorire “dal controllo poliziesco dei confini, ma deve considerare l’Antico, il Medioevo e l’Evo moderno come un’epoca indissolubile, e interrogare altresì le più alte opere artistiche e i prodotti dell’arte applicata come documenti equivalenti dell’espressione umana». Appunto documenti equivalenti dell’espressione umana. Meglio non si poteva dirlo il padre dell’iconologia.
Per alleggerire la lettura sono state rimosse le note. Chiunque desideri accedere alla versione integrale del saggio può procurarsi questo volume da collezione dei millenni: Aby Warburg, Astrologica. Saggi e appunti 1908–1929, Einaudi, Torino, 2019, pp. 23–63. La paragrafatura e i titoli interni al saggio sono della redazione. Buona lettura!
L’emancipazione dalla figurativa medievale
Il mondo formale romano del primo Rinascimento italiano annuncia a noi storici dell’arte che il genio artistico è finalmente giunto a emanciparsi dalla soggezione figurativa medievale. Sarà dunque necessario giustificare perché proprio qui, a Roma, in questa sede, e di fronte a un pubblico intenditore d’arte, mi accingo a parlare dell’astrologia, questa pericolosa nemica della libera creazione, e della sua importanza per lo sviluppo stilistico della pittura italiana.
Spero che nel corso della conferenza tale giustificazione emerga dal problema che intendo affrontare, la cui sua intrinseca complessità — contro la mia stessa inclinazione, che aspira a cose più belle — mi ha costretto a scendere nelle regioni semioscure della superstizione astrologica.
In sostanza, il problema è: quale significato ha l’influsso dell’Antico per la cultura artistica del primo Rinascimento?
Circa ventiquattro anni fa, a Firenze, mi ero reso conto che l’influenza dell’Antico sulla pittura profana del XV secolo, soprattutto in Botticelli e Filippino Lippi, si era manifestata in un mutamento stilistico della figura umana, grazie a un’intensificata mobilità del corpo e delle vesti spirata a modelli dell’arte figurativa e della poesia antiche. Più tardi, ho potuto constatare che autentici superlativi della gestualità antica avevano a loro volta stilizzato la retorica muscolare del Pollaiolo. Ma soprattutto che anche il mondo mitico pagano del giovane Dürer — dalla Morte di Orfeo a La gelosia [Ercole al bivio] — doveva in fondo la forza drammatica della sua espressione a «formulazioni di pathos» (Pathosformeln) schiettamente greche che erano sopravvissute, e che l’artista aveva appreso grazie alla mediazione artistica dell’Italia del Nord.
La penetrazione nell’arte nordica di questo stile patetico anticheggiante non era dovuta a una mancata esperienza con i temi pagani e antichi. Anzi, da studi d’inventario sull’arte profana intorno alla metà del Quattrocento, mi ero reso conto che, per esempio, su arazzi e panni fiamminghi, le figure rappresentate nei realistici costumi dell’epoca «alla franzese» potevano personificare, perfino nei palazzi italiani, personaggi dell’antichità pagana.
Uno studio più approfondito dell’iconografia pagana nei libri illustrati stampati al Nord mi ha permesso inoltre di riconoscere, grazie al raffronto tra testo e immagine, che l’aspetto esterno non-classico, per noi cosi irritante, non era riuscito a distogliere lo sguardo dei contemporanei dalla cosa fondamentale: la volontà ferma, seppur espressa in modo scolastico, di visualizzare in modo autentico l’antichità.
Tanto profonde erano infatti nel Medioevo nordico le radici di questo peculiare interesse per la cultura classica, che fin dai primordi troviamo un particolare genere di manuali illustrati di mitologia per i due gruppi di pubblico che più ne avevano bisogno, vale a dire pittori e astrologi.
Nel Nord ha origine, per esempio, quel trattato latino fondamentale per i pittori di divinità pagane che è il De deorum imaginibus libellus attribuito ad Alberico, monaco inglese del XII secolo. La sua mitologia illustrata, con l’iconografia di ventitré importanti divinità pagane, ha avuto sulla letteratura mitografica successiva un’influenza finora del tutto trascurata, specie in Francia, dove già tra la fine del XIII e il XIV secolo le rielaborazioni poetiche in francese e i commenti moraleggianti in latino di Ovidio avevano offerto asilo agli emigranti pagani.
Nella Germania meridionale già addirittura nel XII secolo affiora un consiglio di divinità olimpiche nello stile di Alberico, la cui dottrina mitologica — come ho avuto modo di dimostrare nel 1909 a proposito delle immagini raffigurate su un camino rinascimentale a Landshut — era determinante ancora nel 1541 per l’interpretazione figurativa di sette divinità pagane.
Si tratta naturalmente dei sette pianeti di Landshut, ossia di quegli dèi greci che, sotto l’influsso della cultura orientale, avevano assunto in seguito la reggenza delle stelle erranti che da essi prendono il nome. Rispetto a quelli olimpici, questi sette dèi si caratterizzavano per la maggiore vitalità, perché la loro selezione non era dovuta a reminiscenze erudite, bensì alla loro peculiare forza di attrazione astrale e religiosa, ancora intatta.
Si credeva che in ciascun periodo dell’anno solare i sette pianeti governassero i mesi, i giorni e le ore del destino umano in base a leggi pseudo-matematiche. A partire dal XV secolo, la teoria della reggenza mensile, la più pratica di queste dottrine, aveva offerto agli dèi in esilio un porto sicuro nei Calendari illustrati medievali decorati da artisti della Germania meridionale.
Questi calendari recano in modo tipico, secondo l’interpretazione ellenistico-araba, le immagini dei sette pianeti e, sebbene presentino le vicende della vita delle divinità pagane come un’ingenua compilazione di scene di genere, hanno avuto su coloro che credevano nell’astrologia l’effetto di geroglifici divinatori di un libro oracolare.
Da questa sorta di tradizione divina, nella quale le figure della leggenda greca avevano acquisito il potere inquietante di dèmoni astrali, doveva prendere le mosse un’importante corrente grazie alla quale nel XV secolo i pagani in costumi nordici si erano diffusi molto velocemente a livello internazionale, proprio perché disponevano dei più mobili e nuovi vettori di immagini, vale a dire dell’arte della stampa inventata al Nord. Per questo motivo i primissimi prodotti a stampa illustrati, e cioè i libri xilografici, avevano subito riprodotto nel testo e nelle immagini i sette pianeti e i loro figli. Con la loro aderenza alla tradizione e la loro concretezza, queste figure avevano contribuito a modo loro alla rinascita dell’Antico in Italia.
Già da parecchio tempo vedevo chiaramente che un’analisi iconologica approfondita degli affreschi di Palazzo Schifanoia avrebbe dovuto rivelare questa duplice tradizione medievale del mondo figurativo degli antichi dèi.
Qui, sulla base delle fonti, ho intenzione di spiegare fin nei particolari tanto l’effetto della sistematica dottrina delle divinità olimpiche, come la tramandavano i dotti mitografi medievali dell’Europa occidentale, quanto l’influsso della mitologia astrale, come si era conservata intatta nei testi e nelle immagini della pratica astrologica.
Gli affreschi di Palazzo Schifanoia
La serie di affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara raffigurava in origine i dodici mesi. Grazie alla loro riscoperta sotto l’intonaco (1840), ne sono stati recuperati sette. La raffigurazione di ogni mese consiste in tre fasce parallele disposte l’una sopra l’altra. Ognuna ha un suo spazio figurativo autonomo e rappresenta figure grandi circa metà del naturale. Nella fascia superiore sono ritratti su carri trionfali gli dèi dell’Olimpo, in basso è narrata l’attività mondana alla corte del duca Borso d’Este, còlto mentre si occupa di questioni di Stato o mentre gioiosamente si sta recando a caccia.
La fascia mediana appartiene invece al mondo delle divinità astrali. Questo aspetto è indicato subito dal segno zodiacale, che circondato da tre figure enigmatiche appare al centro dello spazio. Il simbolismo complesso e fantastico di tali figure ha resistito finora a ogni tentativo di spiegazione. Oggi cercherò di spingere il campo di osservazione verso Oriente, per dimostrare che queste figure sono elementi sopravvissuti di rappresentazioni astrali del mondo delle divinità greche. In sostanza, simboli delle stelle fisse, che nella migrazione secolare dalla Grecia attraverso l’Asia Minore, l’Egitto, la Mesopotamia, l’Arabia e la Spagna hanno perduto la loro fisionomia greca.
Considerato il tempo a disposizione, è impossibile interpretare in modo esaustivo l’intera serie degli affreschi. Mi limiterò quindi alle raffigurazioni di tre mesi, cercando di sottoporre a una analisi iconologica le due fasce superiori dedicate agli dèi.
Comincerò con l’immagine del primo mese, cioè marzo, che secondo la tradizionale cronologia italiana inaugura l’anno. Si tratta di un periodo retto, per quanto riguarda le divinità, da Pallade, e per quanto riguarda lo Zodiaco dall’Ariete.
Esaminerò poi il mese di aprile, governato da Venere e dal Toro. Infine, prenderò in considerazione la raffigurazione del mese di luglio, perché qui una personalità artistica meno pronunciata lascia trasparire in modo più chiaro l’erudito programma iconografico. In seguito, mediante un riferimento a Botticelli, cercherò di spiegare stilisticamente il mondo delle divinità antiche ferraresi come esempio di transizione dal Medioevo internazionale al Rinascimento italiano. Prima di passare all’analisi della reminiscenza del mondo degli dèi pagani offerta da Palazzo Schifanoia, però, devo trattare almeno a grandi linee dell’armamentario e della tecnica dell’astrologia antica.
L’astrologia antica
Strumento fondamentale dell’astrologia sono i nomi delle costellazioni, che si riferiscono a due gruppi di astri differenziati per il loro apparente movimento: le stelle erranti, con la loro orbita irregolare, e le stelle fisse, che appaiono sempre nella stessa posizione reciproca e diventano visibili in base alla collocazione del Sole, al suo sorgere o al suo tramontare.
L’astrologia, basata sulla reale osservazione del cielo, faceva dipendere l’influsso del mondo astrale sulla vita degli uomini da queste condizioni di visibilità e dalla posizione reciproca degli astri. Ma a partire dall’alto Medioevo, l’indagine del cielo passa progressivamente in secondo piano lasciando il posto a un culto primitivo dei nomi astrali.
L’astrologia in fondo non è altro che un feticismo onomastico proiettato nel futuro. Cosi, per esempio, chi è nato in aprile, con Venere nel suo cielo, deve essere soggetto alle caratteristiche della Venere mitologica, segno dell’amore e dei facili piaceri della vita; chi viene al mondo sotto il segno dell’Ariete, invece, è destinato — garante il leggendario vello lanoso dell’ariete — a diventare tessitore. Il mese di aprile, infatti, sarebbe particolarmente favorevole alla conclusione di affari che riguardano la lana.
Per secoli e fino ai giorni nostri gli uomini sono stati affascinati da questi erronei sillogismi pseudo-matematici.
Insieme alla progressiva meccanizzazione dell’astrologia congetturale si formò, anche per soddisfare bisogni pratici, un manuale illustrato di astrologia valido per ogni giorno dell’anno. I pianeti, che per 360 giorni — in tal modo era calcolata la durata di un anno — non offrivano varianti sufficienti, si trassero dunque in disparte per cedere completamente il posto a una ampliata astrologia delle stelle fisse.
Il cielo delle stelle fisse di Arato — elaborato attorno al 300 a. C. — divenne ed è ancor oggi lo strumento primario dell’astronomia. Attraverso questa mappa del cielo una rigorosa scienza della natura greca era riuscita a intellettualizzare le animate creature dell’immaginazione religiosa e a ridurle a funzionali punti matematici.
Certo, questo brulichio di uomini, animali ed esseri favolosi — che a noi appare già sovrabbondante — non offriva all’astrologia ellenistica una scorta sufficiente di geroglifici divinatori per le sue predizioni quotidiane. Da ciò scaturì una tendenza retriva verso formazioni propriamente politeistiche, che già nel primo secolo della nostra era condusse alla Sphaera barbarica, creata verosimilmente in Asia Minore da un certo Teucro.
Questa non è altro che una descrizione del cielo delle stelle fisse, che supera di tre volte il catalogo astrale di Arato, e si arricchisce di nomi astrali egizi, babilonesi e dell’Asia Minore. Con acume geniale Franz Boll l’ha ricostruita in Sphaera (1903) e, cosa di grande significato per la storia dell’arte, ha tracciato le tappe fondamentali della sua migrazione dai tratti favolosi verso Oriente, e da Oriente di nuovo in Europa.
La Sphaera barbarica è penetrata, per esempio, fin dentro un piccolo libro illustrato con xilografie, ove si conserva ancora uno dei calendari astrologici provenienti dall’Asia Minore. Questo libro, l’Astrolabium planum, edito dall’erudito tedesco J. Engel, fu stampato per la prima volta da E. Ratdolt ad Augsburg nel 1488, ma a compilarlo era stato un celebre italiano, Pietro d’Abano, una sorta di Faust padovano del Trecento contemporaneo di Giotto e di Dante.
La Sphaera barbarica di Teucro era sopravvissuta anche in un’altra forma, che a sua volta corrisponde al testo greco conservato nella suddivisione in decani, ognuno dei quali rappresentava il terzo di un mese o dieci gradi dello zodiaco. Questo tipo di sfera era stato tramandato al Medioevo occidentale dai repertori astrologici e dai lapidari arabi. La Grande introduzione, di Abü Ma‘shar — scomparso nell’886 e autorità suprema dell’astrologia medievale — contiene una triplice sinossi delle immagini delle stelle fisse, in apparenza del tutto peculiari e appartenenti a nazionalità diverse.
A una considerazione scientifica più ravvicinata, però, risulta che le stelle fisse si compongono solo degli elementi della Sphaera di Teucro, arricchita da apporti barbari. Grazie all’opera di Abü Ma’shar è possibile seguire l’avventura delle migrazioni delle stelle fisse fino a Pietro d’Abano. Giunta in India dall’Asia Minore attraverso l’Egitto, la Sphaera fini, transitando probabilmente per la Persia, nell’Introductorium majus di Abü Ma’shar, e fu poi tradotta in ebraico in Spagna da un ebreo spagnolo di nome ibn ‘Ezra, morto nel 1167.
Questa traduzione ebraica poi fu resa in francese nel 1273 a Malines da un certo Hagins, un erudito ebreo, su commissione di un inglese, Henry Bates. La versione in francese costituì la base dell’edizione latina, terminata nel 1293 dal nostro Pietro d’Abano. Essa fu ristampata più volte, per esempio a Venezia nel 1507. I libri conosciuti come Lapidari, che descrivono l’influsso magico dei decani su determinate pietre, giunsero in Spagna per la stessa via, cioè attraverso l’India e l’Arabia.
A Toledo, intorno al 1260, alla corte di re Alfonso il Saggio la filosofia della natura ellenistica ebbe una curiosa rinascita: manoscritti spagnoli miniati tradotti dall’arabo fecero rinascere quegli autori greci che dovevano fare dell’astrologia alessandrina ermetico-iatrologica, ossia oracolare, un bene comune fatale per l’intera Europa.
Boll non ha ancora incluso fra i suoi argomenti di studio la versione più monumentale dell’Astrolabium planum, vale a dire le pareti del Salone di Padova, che, ispirate da Pietro d’Abano nel solco della Sphaera barbarica, appaiono come pagine di un grande in-folio, tratte da un calendario di quotidiane predizioni astrologiche. Riservandomi di commentare in altra sede questo monumento più che raro dal punto di vista storico-artistico, accennerò qui soltanto a una pagina dell’Astrolabium che ci condurrà alla fine agli affreschi di Ferrara.
Alle fonti della figurazione di Schifanoia
Nella parte inferiore di questa pagina si scorgono in basso due piccole figure inserite in uno schema oroscopico (fig. 1).
L’uomo con falce e balestra, che dovrebbe apparire nel primo grado dell’Ariete, rappresenta Perseo, il quale sorge effettivamente insieme all’Ariete; la sua spada ricurva è trasformata qui in falce. Sopra si legge in latino: «nel primo grado dell’Ariete si leva un uomo che nella destra regge una falce e nella sinistra una balestra».
Più sotto, come predizione per chi è nato sotto questo segno, è scritto: «Talvolta lavora e talvolta va alla guerra».
Siamo dunque di fronte a un banale feticismo onomastico applicato al futuro! Sopra i due schemi oroscopici si trovano tre figure che il linguaggio astrologico definisce decani. Distribuiti in gruppi di tre per ciascun segno dello Zodiaco, essi risultano alla fine trentasei.
Il sistema di tale ripartizione risale all’Egitto arcaico, sebbene la forma esteriore dei simboli dei decani riveli chiaramente che dietro l’uomo con il berretto e la scimitarra si nasconde di nuovo Perseo, che qui come prima facies del segno governa non solo il primo grado, ma tutti i primi dieci gradi dell’Ariete.
Sarebbe sufficiente un’occhiata all’autentico Perseo antico, come è raffigurato nel manoscritto Germanicus di Leiden (fig. 2), per dimostrare senza ombra di dubbio che la scimitarra e il turbante del primo decano hanno conservato fedelmente la spada ricurva e il berretto frigio di Perseo.
Su una tavola astrologica di marmo di epoca imperiale romana, il famoso Planisfero Bianchini (fig. 3), ritrovato nel 1705 a Roma sull’Aventino, poi donato da Francesco Bianchini (1661–1729) all’Accademia di Francia — oggi al Louvre, l’opera misura 58 centimetri quadrati, cioè due piedi romani –, i decani egizi si presentano ancora autenticamente tali, sia pure in forma stilizzata, visto che il primo decano porta una scure bipenne.
La fedeltà medievale verso la tradizione ha preservato questa versione del primo decano dell’Ariete. Il Lapidario di Alfonso il Saggio di Castiglia mostra un uomo dall’incarnato scuro, con un succinto grembiule sacrificale, che porta una scure bipenne.
Ma solo una terza versione della serie dei decani, e precisamente quella dell’arabo Abü Ma‘shar, ci conduce direttamente alle enigmatiche figure della striscia mediana di Palazzo Schifanoia.
Nel capitolo del Liber introductorii maioris che qui ci interessa, l’autore fornisce una sinossi di tre diversi sistemi di stelle fisse: quello corrente arabo, quello tolemaico e quello indiano.
Sulle prime, in questa serie dei decani indiani, si pensa di essere circondati dai frutti della più genuina immaginazione orientale. D’altra parte, per sollevare il velo all’immagine greca primitiva anche l’iconologia critica deve continuamente rimuovere strati incalcolabili di aggiunte di per sé incomprensibili. Cosi, analizzando più attentamente questi decani indiani non ci stupiamo più se alcuni accessori autenticamente indiani si sono diffusi rivestendo simboli astrali di origine schiettamente greca.
L’indiano Varâhamihira (VII secolo), autorità alla quale Abü Ma’shar fa riferimento senza nominarla, nel suo Brhajjataka menziona giustamente come primo decano dell’Ariete un uomo dalla scure bipenne. A tale proposito si legge:
Come primo decano dell’Ariete si presenta un uomo con i fianchi cinti di un panno bianco; è nero, quasi a indicare la sua capacità di proteggere, d’aspetto terribile e con gli occhi rossi, tiene alzata nella sua mano una scure. Questo è un uomo-dreskana (decano) armato e dipendente da Marte (Bhauma).
Abü Ma‘shar scrive:
Gli Indiani affermano che in questo decano si leva un uomo nero dagli occhi rossi, di alta statura, di grande coraggio e di sentimenti elevati che indossa un’ampia veste bianca cinta in mezzo da una corda. L’uomo è adirato, sta dritto, custodisce e osserva.
Le due figure concordano dunque con la tradizione a parte in un dettaglio: nello scrittore arabo il decano ha perduto la sua scure e ha conservato solo la veste cinta da una corda.
Quattro anni fa, leggendo il testo arabo di Abü Ma‘shar nella versione tedesca di Dyroff, aggiunta al libro di Boll, mi ricordai all’improvviso delle enigmatiche figure di Ferrara, interrogate invano e a lungo cosi spesso. L’una dopo l’altra esse mi si rivelarono come i decani indiani di Abü Ma‘shar. Cosi il primo personaggio della fascia mediana di marzo (fig. 4) fu costretto a togliersi la maschera: mi apparve come l’uomo nero in piedi che osserva adirato, mentre afferra ostentatamente la corda che cinge la sua veste.
Il sistema astrale di Schifanoia
Questa scoperta mi permette oggi di analizzare con sicurezza l’intero sistema astrale rappresentato nelle fasce mediane di Palazzo Schifanoia.
Il cielo greco delle stelle fisse costituiva lo strato inferiore sul quale si era depositato il sistema di culto dei decani di derivazione egizia. Quest’ultimo era stato coperto a sua volta dallo strato emerso dalla trasformazione mitologica indiana, che probabilmente, attraverso la mediazione persiana, era transitata nella cultura araba.
Solo dopo che la versione ebraica aveva sovrapposto un ulteriore residuo, il cielo greco delle stelle fisse si era riversato, grazie alla intermediazione francese da cui era scaturita la traduzione latina di Abü Ma‘shar di Pietro d’Abano, nella monumentale cosmologia del primo Rinascimento italiano, in particolare nelle trentasei figure enigmatiche della fascia mediana raffigurate a Ferrara.
Passiamo adesso alla fascia superiore, dove si svolge la processione degli dei.
Diversi artisti con capacità qualitativamente diseguali hanno collaborato all’intero ciclo di affreschi. Fritz Harck e Adolfo Venturi hanno compiuto il difficile lavoro di pionieri della critica stilistica, e a Venturi siamo debitori anche dell’unica testimonianza documentaria: si tratta di una lettera avvincente e ricca di notizie, datata 25 marzo 1470, da cui risulta che Francesco del Cossa era stato l’ideatore dei primi tre mesi (marzo, aprile, maggio).
Il mese di marzo
In alto, nell’affresco di marzo (fig. 5), scorgiamo chiaramente seppur molto danneggiata Pallade [Minerva] con la Gorgone sul petto e la lancia in mano, che viene portata su un carro trionfale con tendaggi svolazzanti, trainato da liocorni.
A sinistra si distingue il gruppo dei discepoli di Atena: medici, giuristi, poeti, che una ricerca più minuziosa potrebbe forse giungere a identificare con personalità dell’Università ferrarese dell’epoca.
A destra, lo sguardo si volge verso una cerchia di donne ferraresi intente a lavori di cucito: in primo piano tre donne che ricamano, dietro di loro tre tessitrici concentrate sul telaio, circondate da una schiera di eleganti spettatrici. Questa comitiva di dame, sedute in atteggiamento all’apparenza cosi innocente, fornisce agli adepti dell’astrologia la predizione antica per i nati sotto il segno dell’Ariete: colui che è venuto alla luce nel mese di marzo sarà dotato di una abilità particolare nel maneggio della lana.
Nel suo poema didascalico consacrato all’astrologia, unico documento di ampio respiro della poesia astrognostica prodotta dalla poesia latina imperiale romana, Manilio celebra con questi versi l’attitudine mentale e professionale dei nati sotto l’Ariete:
… et mille per artes
veliera di versos ex se parientia quaestus:
nunc glomerare rudis nunc rursus solvere lanas,
nunc tenuare levi filo nunc ducere telas,
nunc emere et varias in quaestum vendere vestes …
La concordanza con il poema di Manilio — fatto questo finora sfuggito agli studiosi — non è casuale. A partire dal 1416, gli Astronomica sono fra i classici riscoperti e resuscitati con amorevole entusiasmo dai dotti umanisti italiani .
In un passo famoso Manilio presenta le divinità che tutelano i mesi:
Lanigerum Pallas, Taurum Cytherea tuetur,
formosos Phoebus Geminos; Cyllenie, Cancrum,
Iuppiter, et cum matre deum régis ipse Leonem;
spicifera est Virgo Cereris fabricataque Libra Vulcani;
pugnax Mavorti Scorpios haeret;
venantem Diana virum, sed partis equinae,
atque Augusta fovet Capricorni sidera Vesta;
e Iovis adverso Iunonis Aquarius astrum est
agnoscitque suos Neptunus in aequore Pisces.
I sette trionfi delle divinità ancora conservati a Schifanoia corrispondono in modo assolutamente letterale, come vedremo tra poco nel secondo esempio, a questa serie, che non è attestata da nessun altro autore. Pallade tutela marzo, il mese dell’Ariete; Venere il Toro e aprile; Apollo i Gemelli e maggio; Mercurio il Cancro e giugno; Giove e Cibele proteggono insieme — alleanza questa del tutto caratteristica e non documentabile altrove — il Leone e luglio; Cerere la Vergine e agosto; Vulcano, infine, la Bilancia e settembre.
Non v’è dubbio alcuno sulle fonti letterarie che costituiscono la traccia ideale dell’intero ciclo figurativo.
In basso, nella semioscurità del regno intermedio, imperano i dèmoni astrali ellenistici, in un tipico travestimento medievale. In alto, il poeta latino aiuta le divinità pagane nel loro tentativo di riguadagnare l’avita atmosfera superiore dell’Olimpo greco.
Il mese di aprile
Rivolgiamoci adesso ad aprile, retto dal Toro e da Venere (fig. 6).
Scivolando nel fiume su un’imbarcazione trainata da cigni, i cui tendaggi fluttuano vivacemente al vento, la dea non rivela esteriormente nessuna traccia dello stile greco. A una prima occhiata essa si distingue solo per la veste, i capelli sciolti e la ghirlanda di rose da quella popolazione dei due giardini d’amore che, su entrambe le rive, è intenta m modo del tutto profano alle proprie faccende.
Se consideriamo a parte il gruppo di Marte e Venere sul loro cocchio, il troubadour, cinto da catene e trainato da cigni che sta languidamente inginocchiato di fronte alla sua signora, evoca addirittura un’atmosfera nordica alla Lohengrin come si presenta, per esempio, nella miniatura fiamminga che raffigura la storia leggendaria del casato di Cleves . Considerato il vivo interesse della corte ferrarese per la cultura cavalleresca francese, si potrebbe legittimamente presupporre una simpatia per questa moda spirituale di importazione nordica.
Ciò nonostante Francesco del Cossa ha rappresentato Venere in base al rigoroso programma della dotta mitografia latina.
Nel suo Manuale iconografico delle divinità il già ricordato Alberico dà la seguente descrizione di Venere, che qui riporto in base a un manoscritto illustrato italiano (fig. 7) . Tradotto dal latino il passo suona all’incirca cosi:
Venere occupa tra i pianeti il quinto posto. Per questo è comunemente rappresentata nella quinta posizione. Venere è dipinta come una vergine molto bella che, nuda, nuota nel mare; nella destra porta una conchiglia e ha il capo ornato da una ghirlanda di rose bianche e rosse, mentre colombe la accompagnano svolazzandole attorno. Vulcano, dio del fuoco, rozzo e orribile, è il suo sposo, e si colloca alla sua destra. Di fronte alla dea, sono tre piccole vergini nude, dette le Tre Grazie-, due hanno il viso rivolto verso lo spettatore, mentre la terza mostra la schiena. Anche il figlio di Venere, Cupido, alato e cieco, le sta accanto e colpisce con freccia e arco Apollo, dopo di che temendo l’ira degli dèi va a rifugiarsi nel grembo della madre, la quale gli porge la mano sinistra.
Osserviamo di nuovo l’Afrodite del Cossa: la ghirlanda di rose rosse e bianche, le colombe che svolazzano attorno alla dea che procede sull’acqua. Amore, raffigurato sulla cintura della madre, minaccia con freccia e arco una coppia di innamorati, ma soprattutto le Tre Grazie — raffigurate sicuramente sulla base di un modello artistico antico — ci dimostrano che l’intenzione dell’artista era quella di ricostruire effettivamente l’Antico.
Bisogna avere una certa capacità di astrazione per riconoscere nella miniatura francese della fine del Trecento l’Anadiomène di Alberico nel suo viaggio per la Francia medievale.
Raffigurata allo stesso modo, Venere sorge dal mare nell’Ovide moralisé (fig. 8). La situazione e gli attributi sono chiari. Certo, Amore è diventato un re alato in trono, e la dea nata dalla schiuma del mare sembra aver afferrato nel suo stagno un’anatra invece della conchiglia. Ma per il resto ci colpiscono residui mitici inequivocabili: rose bianche e rosse galleggiano sull’acqua, tre colombe svolazzano e una delle tre Grazie cerca di collocarsi nella canonica posizione di spalle.
L’Olimpo di Alberico è raffigurato nei testi francesi fino al Quattro e Cinquecento e, attorno al 1465, inciso su rame perfino nell’Italia del Nord nei cosiddetti Tarocchi del Mantegna.
Passiamo adesso a considerare gli dèi dell’Olimpo che, come dèmoni astrali, continuano a sopravvivere nei calendari dei pianeti.
Si osservi, ad esempio, il destino dei Figli di Venere sul foglio di un libro xilografico borgognone risalente all’incirca al 1460 e ispirato probabilmente a modelli tedeschi. Nulla è troppo demoniaco né troppo inquietante: la signora di Cipro, nata dalla schiuma del mare, è trasformata nella proprietaria di un giardino molto confortevole e piacevole, dove su un prato fiorito alcune coppiette di innamorati si bagnano e scherzano a suon di musica.
Se in aria sulle nubi, fra i segni zodiacali, non aleggiasse una donna nuda, uno specchio nella destra e dei fiori nella sinistra, le figure sopra ricordate non sarebbero considerate per quello che effettivamente sono: scoli figurati astrologicamente utili che rappresentano le qualità mitiche della Venere cosmica, che ogni anno ridesta nella natura e negli uomini la gioia di vivere.
A Ferrara l’astrologia planetaria finisce per cedere il passo all’astrologia dei decani, visto che le dodici divinità di Manilio occupano la regione delle stelle erranti.
Ciò nonostante, non si può disconoscere che nell’affresco del Cossa il giardino d’amore e i suonatori sono ispirati ai tradizionali Figli di Venere. Certo, l’avvincente senso realistico dell’artista — di cui è testimonianza impareggiabile la predella con scene della vita di san Vincenzo Ferrer nella Pinacoteca vaticana — supera l’elemento non artistico di impronta letteraria che si manifesta invece tanto più chiaramente nelle immagini dei mesi di Palazzo Schifanoia, dove una personalità artistica più fiacca non riesce a infondere vita all’arido programma.
Il mese di luglio
Una personalità simile è l’autore dell’affresco del mese di luglio (fig. 9). Secondo Manilio questo mese appartiene alla coppia divina Giove-Cibele, mentre stando alla dot- i trina planetaria tardoantica il reggente del mese di luglio e del segno zodiacale del Leone è Sole-Apollo.
In alto nell’angolo, a sinistra dell’affresco, si individuano in una cappella alcuni monaci inginocchiati in preghiera davanti a una pala d’altare. L’immagine, che ha trovato la sua collocazione in uno schema basato prevalentemente sul sistema di Manilio delle dodici divinità, deriva in realtà dal ciclo dei figli planetari del Sole-Apollo. Difatti, questi uomini pii in preghiera sono attestati fin dal 1445 nella Germania meridionale come una espressione tipica dei Figli del Sole
A tale proposito il verso tedesco contenuto in un libro xilografico sui pianeti suona: «Vor mitten tag sie dynen gote vil, dornoch sy leben wie man wil» («Al mattin servon molto Dio, dopo vivono a lor desio».
A parte questa incursione nel regno planetario del Sole, il mese del Leone, cioè luglio, è retto secondo Manilio dalla coppia divina con la corona turrita di Giove-Cibele, la quale condivide pacificamente il trono del loro carro trionfale.
I gruppi raffigurati a destra dell’affresco mostrano con quale serietà si intendesse far rivivere l’antica leggenda. Non a caso, come vuole la saga barbarica, sullo sfondo è adagiato Attis. La prova di quanto gli ecclesiastici avvolti in vesti sacerdotali cristiane con piatti, cembali e tamburi siano pensati realmente come Galli, e che i giovani in armi sullo sfondo rappresentino dei coribanti brandenti spade, è data qui dai tre sedili vuoti in primo piano: a sinistra un seggio a braccioli vacante, a destra due treppiedi.
Non c’è dubbio: questi posti a sedere nello stile dell’epoca sono presentati in modo cosi appariscente in quanto simboli esoterici di culto di un autentico mistero antico. Dovrebbero essere i troni vacanti di Cibele, menzionati ancora da sant’Agostino con espresso riferimento a Varrone .
La leggenda di Cibele, anche senza questo riferimento pittorico straerudito sui troni delle divinità, non si ritrova con tutti i suoi dettagli barbarici solo in Alberico. È già presente, insieme ad altre figure pagane molto curiose, nel foglio isolato di un manoscritto del XII secolo conservato a Regensburg. Dietro a Cibele, sul cocchio trainato da leoni, si notano due coribanti con le spade sguainate . Come abbiamo detto, alla cosiddetta mentalità medievale non faceva certo difetto un’intenzione archeologica formalmente fedele.
II pittore che ha affrescato il mese di luglio — la cui forza figurativa non fa dimenticare, come riesce invece al vitale mondo figurativo del Cossa, lo sfondo illustrativo — è un epigono della concezione artistica medievale ormai prossima alla fine.
La scena nuziale a sinistra dovrebbe rappresentare le nozze di Bianca d’Este, sorella di Borso, con Galeotto della Mirandola, il cui fratello Pico, valoroso pioniere della lotta contro la superstizione astrologica si scaglia in un intero capitolo di una sua opera contro l’assurda dottrina araba dei decani.
Si capisce che un uomo del Rinascimento, nel cui ambito più intimo si intromettevano questi dèmoni astrologici (perfino Savonarola, nemico dell’astrologia, era nato a Ferrara), finisse per opporre resistenza a una combinazione cosi barbarica tra idolatria e fatalismo. Certo, è notevole con quanta forza il mondo degli dèi antichi della corte estense fosse ancora legato a idee e pratiche medievali tardoantiche. Ancora nel 1470 si trovano solo i primi sintomi di una sicura restituzione artistica dell’Olimpo, sintomi che individuiamo appunto nella sostituzione delle divinità planetarie con la serie delle dodici divinità di Manilio.
Il progetto iconografico degli affreschi
Chi potrebbe essere stato il dotto ispiratore di questi affreschi? Alla corte estense l’astrologia aveva un ruolo importante: di Lionello d’Este si racconta per esempio che indossasse ogni giorno della settimana, come gli antichi magi sabi, un abito del corrispondente colore planetario.
Pietro Buono Avogaro, uno degli astrologi di corte, scriveva pronostici per ogni anno, mentre un certo Carlo da Sangiorgio prediceva il futuro perfino mediante la geomanzia, ultima degenerata propaggine della divinazione astrologica antica.
In realtà, non fu Avogaro bensì l’altro professore di astronomia all’Università di Ferrara, cioè Pellegrino Prisciani, bibliotecario e allo stesso tempo storiografo di corte, l’ispiratore sommamente erudito delle immagini dei mesi di Palazzo Schifanoia.
Di questo fatto, la critica delle fonti fornisce una prova indiziaria. Certo, anche Avogaro cita più volte nei suoi pronostici Abü Ma‘shar, ma è Pellegrino Prisciani — il cui ritratto è conservato sul frontespizio della sua Orthopasca nella Biblioteca di Modena — ad appoggiarsi per un responso astrologico all’autorità di quel singolare trinomio di eruditi che, come abbiamo dimostrato, rappresentano le principali fonti di ispirazione degli affreschi: Manilio, Abü Ma‘shar e Pietro d’Abano.
Devo la copia di questo documento finora sconosciuto, e per me così importante, alla cortesia del direttore dell’Archivio di Modena, il signor [Umberto] Dallari.
Eleonora d’Aragona, consorte del duca Ercole, aveva chiesto a Prisciani, astrologo di fiducia della famiglia, l’indicazione della migliore congiunzione astrale sotto la quale poteva essere esaudito il desiderio formulato. Nella sua risposta, Prisciani constata con gioia che tale situazione si presenta proprio in quel momento: Giove si trova in congiunzione con la testa del Drago e la Luna è in posizione favorevole nel segno dell’Acquario.
Nel suo erudito responso, qui pubblicato in appendice [omesso], Prisciani si appella agli aforismi di Abü Ma‘shar e al Conciliator di Pietro d’Abano, ma l’autorevole accordo finale lo fa intonare a Manilio:
Quod si quem sanctumque velis castumque probumque, hie tibi nascetur, cum primus Aquarius exit.
Penso che questa prova indiziaria trovi una conferma definitiva da un’ulteriore testimonianza documentaria: nella lettera già ricordata, Francesco del Cossa si lamenta dell’atteggiamento assunto nei suoi confronti dal sovrintendente ducale alle arti: scavalcandolo, il Cossa esprimeva al duca Borso in persona il cattivo trattamento e la scarsa remunerazione. L’ispettore alle arti di Palazzo Schifanoia non era altri che il nostro Pellegrino Prisciani. Cossa, dice, si rivolge al duca stesso perché non vuole importunare Pellegrino Prisciani:
… non voglio esser quello il quale et a pellegrino de prisciano et a altri vegna a fastidio.
Ma dal contesto risulta chiaramente che voleva evitare quell’uomo erudito perché Prisciani, riguardo al pagamento, aveva inteso porre l’artista sullo stesso piano degli altri pittori dei mesi, definiti dal Cossa — e oggi comprendiamo la sua legittima e vana indignazione — come «i più tristi garzoni di Ferrara».
Non credo di far torto alla memoria di Pellegrino Prisciani se affermo che egli stimava gli altri pittori quanto Francesco del Cossa, se non altro perché essi avevano raffigurato con bella esattezza le sottigliezze del suo erudito programma.
Non dobbiamo dimenticare che il programma di Prisciani rivela al fondo un ideatore che sa trattare con delicatezza gli elementi profondamente armonici della cosmologia greca, anche se l’esecuzione pittorica può comportare una dispersione non-artistica causata dal sovraccarico dei dettagli.
Detto questo, se traduciamo in uno schematico diagramma l’intero ciclo ferrarese (fig. 10) nei termini di una cosmologia a sfera, salterà agli occhi che la triplice striscia pittorica di Palazzo Schifanoia è appunto un sistema sferico trasportato su una superficie piana che congiunge le sfere definite da Manilio con quelle del Planisfero Bianchini.
Il nucleo centrale della sfera terrestre è simboleggiato dal calendario illustrato della corte e dello Stato del duca Borso. Nella fascia più alta si trovano, conformemente alla descrizione di Manilio, le dodici divinità olimpiche protettrici dei mesi, di cui a Ferrara esistono ancora Pallade, Venere, Apollo, Mercurio, Giove-Cibele, Cerere e Vulcano.
Manilio ha attribuito la reggenza dei dodici mesi a dodici divinità invece che ai pianeti, e le ha venerate in quanto tali (fig. 11). A Ferrara tale teoria cosmologica è mantenuta nella sua idea fondamentale, solo in singoli punti si potrebbero indicare frammenti dispersi dell’astrologia planetaria medievale più antica, mentre la mitografia descrittiva erudita, principalmente Alberico, contribuisce in modo anche troppo abbondante alla realizzazione dettagliata dello sfondo.
Figura 11: “Sphaera” sinottica con i mesi, disegno.
La sfera zodiacale risulta comune a Manilio, al Planisfero Bianchini e al ciclo dei mesi di Palazzo Schifanoia. Ma grazie all’elaborazione del sistema dei decani, che nel Planisfero Bianchini è intercalato come una regione particolare tra le stelle fisse e i pianeti, la sfera di Prisciani ha la stessa natura cosmologica del Planisfero Bianchini. I decani indiani di Abü Ma‘shar, che a Ferrara governano la fascia mediana degli affreschi, ci rivelano — certo solo dopo un’auscultazione minuziosa — che un cuore greco palpita sotto il mantello a sette strati da viandante di questi pellegrini, che molto avevano viaggiato da epoca a epoca, da popolo a popolo.
L’evento stilistico della pittura ferrarese
I dipinti del Tura, che erano conservati nella biblioteca di Pico della Mirandola, ci sono noti purtroppo solo grazie ad alcune descrizioni. Forse ci avrebbero mostrato come nella pittura ferrarese di quest’epoca si annunci l’evento stilistico principale che simboleggia la svolta fra il primo Rinascimento e l’alto Rinascimento: la restaurazione di un più elevato stile ideale anticheggiante nella rappresentazione dei grandi protagonisti della leggenda e della storia antiche.
Tuttavia, nessun ponte sembra condurre da Palazzo Schifanoia a questo ideale umanistico anticheggiante.
Abbiamo visto che nel 1470 la leggenda di Cibele adempie alla sua funzione illustrativa medievale nello stile prosaico di un corteo, giacché Mantegna non aveva ancora mostrato come la madre degli dèi potesse essere presentata con il passo solenne dei cortei sugli archi di trionfo romani. Anche la Venere di Cossa ancora non si accinge ad ascendere dalla regione inferiore del realismo di costume «alla franzese» al luminoso etere della Venere Aviatica di Villa Farnesina .
Ciò nonostante esiste una sfera intermedia tra Cossa e Raffaello, cioè Botticelli, che doveva liberare la sua dea della bellezza dal realismo medievale, tipico della banale arte di genere «alla franzese», dalla servitù illustrativa e dalla pratica astrologica.
Il Calendario Baldini (Botticelli?)
Già alcuni anni fa ho cercato di dimostrare che le incisioni del cosiddetto Calendario Baldini sono un’opera giovanile di Botticelli, e in ogni caso riflettono le caratteristiche della sua concezione dell’Antico. Per la nostra analisi quest’opera presenta un duplice interesse: riguardo al testo e alle raffigurazioni.
Il primo aspetto concerne solo un insieme di prescrizioni pratiche per gli adepti dell’astrologia. Se lo esaminiamo con attenzione questo Calendario si rivela come un vero compendio di astrologia ellenistica applicata trasmesso attraverso la mediazione di Abü Ma‘shar.
La circostanza, apparentemente secondaria, di disporre di un’edizione più recente di tale opera ci permette di cogliere come nella raffigurazione sia implicita una preziosa idea storico-stilistica. Qui possiamo osservare in statu nascendi, grazie alla forma leggermente sfumata, il nuovo principio stilistico della mobilità idealizzante all’antica.
La prima edizione del Calendario, databile circa al 1465, segue esattamente i tipi usati nelle serie astrologiche nell’Europa del Nord (fig. 12).
Tra i Figli di Venere si scorge una piccola e irrigidita figura femminile in atto di danzare: una donna in costume borgognone porta sulla testa un indubbio hennin francese con la guimpe. Il suo aspetto dimostra che già Baldini (o Botticelli) deve essersi attenuto a una versione borgognona del modello nordico.
La seconda edizione dell’incisione, posteriore solo di qualche anno, svela la direzione e la natura della trasformazione stilistica operata dal primo Rinascimento fiorentino (fig. 13).
Adesso, dalla larva borgognona rigidamente imbozzolata, si libera la farfalla fiorentina, la «Nynfa» dall’acconciatura alata e dalle vesti svolazzanti di menade greca o di Vittoria romana.
Da ciò che è stato detto, risulta chiaramente che i due dipinti di Venere eseguiti da Botticelli, vale a dire La Nascita di Venere e la cosiddetta Primavera, cercano di far riacquistare alla dea incatenata dal Medioevo la sua libertà olimpica, in senso sia mitografico sia astrologico.
Venere, Anadiomène liberata dalla sua crisalide, compare sull’acqua e nella conchiglia in mezzo a rose che le fluttuano attorno. Nell’altro dipinto consacrato alla dea, che alcuni anni fa ho chiamato II regno di Venere, restano fra il suo seguito le sue compagne, cioè le Tre Grazie.
Oggi vorrei però dare una sfumatura un po’ diversa a quella definizione, che doveva aver dischiuso immediatamente allo spettatore quattrocentesco versato nella astrologia l’essenza della dea della bellezza e della signora della natura ridestantesi. Vorrei parlare della «Venere pianeta», la dea astrale che compare nel mese di aprile, da lei stessa retto.
Simonetta Vespucci — entrambi i dipinti di Botticelli fanno parte a mio avviso del culto della sua memoria — morì, come sappiamo, il 26 aprile 1476. Botticelli ricevette dalla tradizione del passato il materiale che utilizzò per creare in modo personalissimo un’umanità ideale, il cui nuovo stile forgiò con l’aiuto della ridestata antichità greca e latina, ossia grazie all’Inno omerico, a Lucrezio e a Ovidio, quest’ultimo interpretato non da un monaco moralizzante, bensì dal Poliziano.
L’artista coniò questo nuovo stile soprattutto perché la scultura antica gli aveva mostrato come il mondo greco degli dèi danzasse nelle sfere celesti la sua ronda al suono della melodia platonica.
L’ampliamento dei confini della disciplina della storia dell’arte
Stimati colleghi! Nella mia conferenza la risoluzione di un enigma figurato, che per giunta è stato impossibile chiarire in modo più articolato, ma solo proiettare come sequenza di fotogrammi, non era evidentemente fine a se stesso.
In questa sede il mio tentativo parziale e provvisorio, ha avuto soprattutto lo scopo di perorare un ampliamento metodologico dei confini tematici e geografici della nostra disciplina.
L’inadeguatezza e l’universalità delle categorie evoluzionistiche hanno impedito fin qui alla storia dell’arte di mettere il proprio materiale a disposizione di una «psicologia storica dell’espressione umana» che resta tuttora da scrivere.
Nel clima dominante — o troppo materialistico o troppo mistico — la nostra giovane disciplina si preclude ogni visione complessiva storico-universale. Brancolando, stenta ancora a trovare una propria teoria dell’evoluzione fra gli schematismi della storia politica e delle dottrine sul genio.
Con il mio tentativo di interpretare gli affreschi di Palazzo Schifanoia mi auguro di aver mostrato che un’analisi iconologica può rischiarare una singola oscurità e insieme illuminare nella loro connessione le grandi fasi dell’evoluzione.
Certo, un metodo simile non si deve far intimorire dal controllo poliziesco dei confini, ma deve considerare l’Antico, il Medioevo e l’Evo moderno come un’epoca indissolubile, e interrogare altresì le più alte opere artistiche e i prodotti dell’arte applicata come documenti equivalenti dell’espressione umana.
Ciò che mi premeva, non era tanto la soluzione elegante di un enigma, quanto sollevare un nuovo problema che potrei formulare cosi: «in quale misura l’avvento nell’arte italiana di una trasformazione della figura umana può essere considerata come il risultato di un confronto transnazionale con le rappresentazioni figurative sopravvissute della cultura pagana dei popoli del Mediterraneo orientale?»
Lo stupore e l’entusiasmo di fronte all’incomprensibile evento della genialità artistica sarà più intenso se riconosceremo che il genio è grazia e allo stesso tempo è il risultato di un’energia capace di confronto critico.
Il nuovo grande stile che ci ha donato il genio artistico italiano era di fatto radicato nella volontà sociale di liberare l’umanità greca dalla “pratica” medievale e latina di matrice orientale. Con questa volontà diretta a restaurare l’Antico, il “buon europeo” ha iniziato la sua lotta per i Lumi in quell’epoca di migrazioni internazionali dalle immagini che definiamo in modo un po’ troppo mistico età del Rinascimento.
L’appendice Lettera di Pellegrino de’ Prisciani da Mantova alla duchessa [Eleonora] di Ferrara (26 ottobre 1487) è stata omessa. Si potrà leggere nella citata edizione Einaudi alle pp. 64–66
Da: Aby Warburg, Astrologica. Saggi e appunti 1908–1929, Einaudi, Torino, 2019, pp. 23–63