Filosofia e Teologia in Alberto Magno; Ragione e Tede in Tommaso d’Aquino

di Nicola Abbagnano

Mario Mancini
7 min readAug 26, 2024

Vai agli altri articoli della serie “Grandi pensatori”

San Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino. Dettaglio del dipinto “San Paolo appare a San Alberto Magno e San Tommaso d’Aquino”, di Alonso Antonio Villamor (1661–1729), conservato al Convento di San Esteban di Salamanca.

Alberto Magno: Filosofia e Teologia

Il compito che Alberto si assume è quello di esporre il pensiero di Aristotele. «Tutto ciò che ho detto, egli dice come conclusione della Metafisica, è conforme all’opinione dei peripatetici: chi vorrà mettere a prova ciò che ho detto, legga attentamente i loro libri e non indirizzi a me, ma a loro, le lodi o le critiche che meritano».

E alla fine del libro Sugli animali: «Ecco la fine del libro sugli animali; con esso termina tutta la nostra opera di scienza naturale. In questa opera ho tenuto per regola esporre, meglio che potevo, ciò che hanno detto i peripatetici; e nessuno da essa può comprendere che cosa io stesso pensi in materia di filosofia naturale».

Che cosa cela veramente questa fedeltà di Alberto all’aristotelismo cosi energicamente proclamata e frequentemente ripetuta? Evidentemente la convinzione che l’aristotelismo non sia soltanto una filosofia, ma lafilosofia, l’opera perfetta della ragione, il termine ultimo del sapere umano.

Quella ammirazione per Aristotele che Averroè proclamava esplicitamente nelle sue opere, è il presupposto sottinteso dell’atteggiamento di Alberto. Questo presupposto, appunto, lo conduce a separare nettamente il dominio della filosofia da quello della teologia.

«Vi sono alcuni, egli dice (Met., XI, 3, 7), che credono di marciare nella via della filosofia e confondono invece la filosofia con la teologia. Ma le dottrine teologiche non coincidono, nei loro principi, con quelle filosofiche: la teologia è fondata sulla rivelazione e sull’ispirazione, non sulla ragione. Non possiamo dunque, in filosofia, discutere di questioni teologiche».

E ancora, nel De unitale:

«Bisogna vedere con ragioni e sillogismi quale opinione deve essere accettata e difesa. Non parleremo dunque affatto di ciò che insegna la nostra religione e non ammetteremmo niente che non possa essere dimostrato con un sillogismo».

In tal modo, il riconoscimento dell’aristotelismo come dell’autentica filosofia conduce Alberto a separare nettamente la filosofia stessa che procede per ragioni e sillogismi dalla teologia che si fonda sulla fede.

Servendosi per un momento del linguaggio di S. Agostino, Alberto afferma che due sono i modi della rivelazione di Dio all’uomo. Il primo è quello di un’illuminazione generale, cioè comune a tutti gli uomini, e in questo modo Egli si rivela ai filosofi.

Il secondo è quello di un’illuminazione superiore, diretta a farci intuire le cose sopramondane; e su questa illuminazione si fonda la teologia. Il primo lume riluce nelle verità di per sé note, il secondo negli articoli di fede (Sum. theol., I, 1, q. 4, 12).

La teologia è la fede che, secondo la parola di Anselmo, va in cerca dell’intelletto e della ragione (lb., I, 1, q. 5). Essa ha il suo movente nella pietà religiosa e difatti ha per oggetto tutto ciò che concerne la salvezza dell’anima (lb., I, 1, q. 2). Ma la fede che nel dominio religioso implica adesione ed assenso ed è la via che conduce alla scienza delle verità divine, nel dominio filosofico è pura credulità, estranea a qualsiasi scienza. Qui infatti la scienza è fondata sulla dimostrazione causale e non su ragioni probabili, e la fede non può avere che il valore di una opinione probabile (Ib., I, 3, q. 15, 3).

Per la prima volta, nella scolastica latina, la separazione tra filosofia e teologia era fatta cosi nettamente. Il dominio della filosofia viene ristretto a quello della dimostrazione necessaria. Al di là di esso, c’è bensì una scienza, ma una scienza che si fonda su principi ammessi per fede e che perciò deriva la sua validità dall’adesione e dall’assenso dell’uomo alla verità rivelata.

L’affacciarsi dell’autonomia della ricerca filosofica coincide in Alberto con l’esigenza di una ricerca naturalistica fondata sull’esperienza.

«Delle cose che qui esponiamo, egli dice in uno scritto di botanica (De vegetalibus, ed. Jessen, 339), alcune le abbiamo noi stessi comprovate con l’esperienza (experimento), altre le riferiamo dagli scritti di coloro, che non ne hanno parlato alla leggera, ma le hanno anche essi comprovate con l’esperienza. E difatti l’esperienza soltanto dà la certezza di tali argomenti, giacché intorno a fenomeni cosi particolari il sillogismo non ha valore».

Da: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Volume primo La filosofia antica, la Patristica e la Scolastica, Torino, 1993, pp. 553–554

Tommaso d’Aquino: Ragione e Fede

Il sistema tomistico ha la sua base nella determinazione rigorosa del rapporto tra la ragione e la rivelazione. All’uomo, che ha come suo fine ultimo Dio, il quale eccede la comprensione della ragione, non basta la sola ricerca filosofica fondata sulla ragione.

Quelle verità stesse, cui la ragione può giungere da sola, non è dato a tutti raggiungerle e la via che conduce ad esse non è scevra di errori. Fu perciò necessario che l’uomo fosse convenientemente e con più certezza istruito dalla rivelazione divina.

Ma la rivelazione non annulla né rende inutile la ragione: «la grazia non elimina la natura, ma la perfeziona». La ragione naturale si subordina alla fede, come nel campo pratico l’inclinazione naturale si subordina alla carità.

Certo, la ragione non può dimostrare ciò che è di pertinenza della fede, altrimenti la fede stessa perderebbe ogni merito. Ma può servire alla fede in tre modi diversi. In primo luogo, dimostrando i preambolidella fede, cioè quelle verità la cui dimostrazione è necessaria alla fede stessa.

Non si può credere a ciò che Dio ha rivelato, se non si sa che Dio c’è. La ragione naturale dimostra che Dio esiste, che è uno, che ha quei caratteri e quegli attributi che possono essere ricavati dalla considerazione delle cose da lui create.

In secondo luogo, la filosofia può essere adoperata a chiarire mediante similitudini le verità della fede.

In terzo luogo può controbattere le obiezioni che si fanno alla fede dimostrando che sono false o almeno che non hanno forza dimostrativa (In Boet. De trinit., a. 3).

Dall’altro lato, però, la ragione ha la sua verità propria. I principi che le sono intrinseci e che sono verissimi, in quanto è impossibile pensare che siano falsi, le sono stati infusi da Dio stesso, che è l’autore della natura umana.

Questi principi derivano dunque dalla Sapienza divina e sono costitutivi di essa. La verità di ragione non può mai venire in contrasto con la verità rivelata: la verità non può contradire alla verità.

Quando un contrasto appare, segno è che si tratta non di verità razionali, ma di conclusioni false o almeno non necessarie: la fede è la regola del corretto procedere della ragione (Contra Gent., I, 7).

Il principio aristotelico che «ogni conoscenza comincia dai sensi» è utilizzato da Tommaso per limitare la capacità e le pretese della ragione. La ragione umana può bensì elevarsi a Dio, ma solo partendo dalle cose sensibili.

«L’uomo non può giungere con la ragione naturale alla conoscenza di Dio se non attraverso le creature. Le creature conducono alla conoscenza di Dio, come l’effetto conduce alla causa. Si può dunque con la ragione naturale conoscere di Dio solo ciò che necessariamente gli compete in quanto è il principio di tutte le cose esistenti» (5. th., I, q. 32, a. 1).

Alle due dimostrazioni di cui la ragione è capace, quella a priori o propter quid, che parte dall’essenza di una causa per scendere ai suoi effetti e quella a posteriori o quia che parte dall’effetto, per risalire alla causa, la seconda soltanto può essere adoperata per la conoscenza di Dio (Ib., I, q. 2, a. 2).

Ma essa, se conduce a riconoscere con necessità l’esistenza di Dio come causa prima, non dice nulla circa l’essenza di Dio. Pertanto la ragione non può con le sue forze giungere a dimostrare la Trinità e l’Incarnazione e tutti quei misteri che si connettono a questi due.

Tali misteri costituiscono i veri e propri «articoli di fede» che la ragione può delucidare e difendere, ma non dimostrare; mentre l’esistenza di Dio e quant’altro, intorno a Dio, la ragione può raggiungere e dimostrare con le sue forze, costituisce i preamboli alla fede.

Chiarito cosi il dominio rispettivo della fede e della ragione, S. Tommaso passa a chiarire i relativi atti.Accettando una definizione di S. Agostino (De praedest. Sanctorum, 2), Tommaso definisce l’atto della fede, il credere, come un «pensare con assentimento» (cogitare cum assensu) intendendo per «pensare» la «considerazione indagatrice dell’intelletto e il consenso della volontà».

Il pensare che è proprio della fede è un atto intellettuale che va ancora indagando, perché non è ancora giunto alla perfezione della visione certa. Ora, non a tutti gli atti intellettuali di queste specie è congiunto l’assenso: il dubitare consiste nel non inclinare né per il né per il no; il sospettare consiste nell’inclinare da un lato, ma nell’essere tentato o mosso da ogni più piccolo segno dell’altra parte; l’opinare consiste nell’aderire a una cosa, con la paura che la cosa contraria sia vera.

«Ma questo atto che è il credere, dice Tommaso (5. tb., II, 2, q. 2, a. 1), include l’adesione ferma a una parte; nel che il credente è simile a chi ha scienza o intelligenza; la sua conoscenza tuttavia non è perfetta come quella di chi ha una visione evidente; nel che è simile a chi dubita, sospetta od opina. E cosi è proprio del credente pensare con assentimento».

L’assenso implicito nella fede, se è simile per la sua fermezza a quello implicito nell’intelligenza e nella scienza, è diverso nel suo movente-, giacché non è prodotto dall’oggetto, ma da una scelta volontaria che inclina l’uomo verso un lato piuttosto che verso un altro.

L’oggetto della fede infatti non è «visto» né dai sensi né dall’intelligenza, giacché la fede, come disse S. Paolo (Ebrei, XI, 1), è «la prova delle cose non vedute» (5. th., II, 2, q. 1, a. 4).

Cosi Tommaso pur riconoscendo alla fede una certezza superiore a quella del sapere scientifico fonda tale certezza sulla volontà, riservando alla sola scienza la certezza obiettiva.

Da: Nicola Abbagnano, Storia della filosofia, Volume primo La filosofia antica, la Patristica e la Scolastica, Torino, 1993, pp. 564–566

--

--

Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

No responses yet