Elezione americane: La prassi della “concessione”
Un piccolo gesto per salvaguardare la democrazia americana
di Stefano Luconi, docente Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova
L’assalto a Capitol Hill, il 6 gennaio 2021, da parte dei sostenitori di Donald Trump, convinti che il loro candidato non avesse perduto le elezioni presidenziali del 2020, e le ambigue risposte del tycoon circa la sua disponibilità a riconoscere il responso delle urne del prossimo 5 novembre contribuiscono a valorizzare la “concessione”, cioè la dichiarazione con cui il candidato uscito battuto dal conteggio dei voti ammette la propria sconfitta e legittima la vittoria del suo avversario.
Tale atto di conclusione della corsa per la Casa Bianca non è contemplato dalla Costituzione federale né rappresenta un obbligo legale, ma è entrato da oltre un secolo nelle procedure tradizionali in cui si articolano le elezioni. Si tratta di un gesto che, sia pure assolutamente non dovuto, aiuta ad assicurare un pacifico passaggio del potere e a ricompattare il Paese dopo le inevitabili lacerazioni e divisioni che caratterizzano ogni sfida per la presidenza.
John Adams e Thomas Jefferson: quando ancora non esisteva la “concessione”
“Abbiamo chiamato con nomi diversi coloro che sono fratelli nello stesso principio. Siamo tutti repubblicani. Siamo tutti federalisti”. Così si espresse il democratico-repubblicano Thomas Jefferson nel suo discorso di insediamento alla presidenza, il 4 marzo 1801, per ricomporre, in nome del comune interesse nazionale, le fratture partitiche che avevano spezzato la società americana nella campagna elettorale del 1800, quando i candidati si erano affrontati senza esclusione di colpi.
John Adams, il presidente federalista in carica che ambiva a un secondo mandato, aveva insinuato che Jefferson fosse un ateo, un libertino e un meticcio, figlio di una nativa americana e di un mulatto afroamericano. Oltre a costituire la prima fake news nella storia politica degli Stati Uniti, si trattava di calunnie di non poco conto in una nazione profondamente religiosa dove la stragrande maggioranza degli afro-discendenti era ridotta in schiavitù. Jefferson aveva ribattuto, accusando Adams di mirare a instaurare una dittatura personale e di stare pianificando una guerra contro la Francia, incurante del contributo dato da questo Paese alla conquista dell’indipendenza delle tredici colonie nordamericane dall’Inghilterra.
Profondamente deluso dalla sconfitta, il collerico Adams non volle presenziare al passaggio delle consegne con il suo successore e, per non rischiare di imbattersi in Jefferson neppure per caso il giorno dell’insediamento, lasciò addirittura Washington prima ancora dell’alba per tornarsene nella natia Quincy in Massachusetts. Tuttavia, pur in mancanza di una “concessione” formale, Adams non mise in discussione la legittimità della vittoria di Jefferson e le parole del neopresidente bastarono così per riunificare almeno temporaneamente l’elettorato.
L’illusione del perfetto sistema istituzionale
Il passaggio incruento del potere da Adams a Jefferson, mentre poco tempo prima in Francia era stata la ghigliottina a segnare i cambiamenti di regime (l’esecuzione di Luigi XVI aveva posto termine alla monarchia costituzionale nel 1793 e quella di Maximilien de Robespierre, l’anno successivo, aveva concluso il Terrore, che si era consolidato in precedenza attraverso la condanna a morte dei girondini), alimentò l’idea della presunta perfezione del sistema istituzionale statunitense, per cui era possibile sbarazzarsi di un governo impopolare con la sola forza pacifica del voto, senza bisogno di ricorrere a spargimenti di sangue per eliminare fisicamente l’élite al potere. In base a questa considerazione, nel discorso inaugurale del suo primo mandato, il 4 marzo 1817, il presidente James Monroe si spinse a celebrare l’assoluta eccellenza delle istituzioni federali, aggiungendo che sarebbe stato impossibile migliorarle ulteriormente.
Stephen Douglas: il precursore della “concessione”
La fede nella capacità taumaturgica delle elezioni iniziò a venir meno con l’accentuarsi della frattura tra il Sud schiavista e gli abolizionisti del Nord, culminata con lo scoppio della guerra civile (1861–1865).
Dopo che nel 1860 era stato eletto alla Casa Bianca il repubblicano Abraham Lincoln, alcuni Stati schiavisti — South Carolina, Mississippi, Florida, Alabama, Georgia, Louisiana e Texas — misero in atto la propria secessione dall’Unione federale, pur senza dare ancora inizio alle ostilità militari, perché non si riconoscevano in un presidente che intendeva vietare la diffusione della schiavitù nei nuovi territori entrati a fare parte degli Stati Uniti.
Alla fine di febbraio del 1861, pochi giorni prima dell’entrata in carica del nuovo inquilino della Casa Bianca, il candidato democratico che Lincoln aveva sconfitto, Stephen Douglas, gli confidò: “La nostra Unione deve essere preservata. I sentimenti di partigianeria devono cedere il passo al patriottismo. Sono con voi, signor presidente, e che Dio la benedica”.
Fu un’attestazione di lealtà a Lincoln fatta in una conversazione privata a quattr’occhi, non una vera e propria “concessione” pubblica. Ma nelle parole di Douglas era implicita l’accettazione della sconfitta nonché l’intenzione — rivelatasi alla fine del tutto velleitaria — di facilitare una riconciliazione nazionale che tutelasse l’integrità territoriale del Paese e prevenisse un conflitto armato tra il Nord e il Sud.
William J. Bryan: l’iniziatore di una tradizione
Per arrivare alla prima “concessione” ufficiale fu necessario attendere la fine dell’Ottocento in un rinnovato clima di forti tensioni all’interno degli Stati Uniti. L’esplodere della questione sociale, in seguito alla vertiginosa crescita industriale nel trentennio successivo alla fine della guerra civile, causò una marcata conflittualità che spesso degenerò in scontri armati, soprattutto in occasione degli scioperi proclamati dal nascente movimento operaio.
In questo contesto, la campagna elettorale del 1896 si rivelò particolarmente infuocata. Il candidato democratico William J. Bryan si atteggiò a paladino delle masse dei lavoratori contro l’oligarchia di Wall Street, suscitando allarme tra imprenditori e uomini d’affari. John Hay, patrocinatore del suo antagonista repubblicano William McKinley, dipinse Bryan come “un avvocatucolo da strapazzo che promette il Paradiso in terra a chiunque abbia i pantaloni bucati e la rovina a chi vada in giro con la camicia pulita”.
Di contro, Bryan definì i centri finanziari dell’Est come “il territorio del nemico” e fu quasi lusingato dal fatto di venire presentato dalla propaganda repubblicana come un pericoloso anarchico pronto a scatenare la rivoluzione. Nondimeno, due giorni dopo essere stato sconfitto da McKinley, al fine di placare gli animi dei suoi sostenitori che tendevano a leggere nella vittoria repubblicana una cospirazione ordita dall’oligarchia finanziaria, Bryan inviò al neopresidente un telegramma, prontamente riprodotto sulla stampa, nel quale si congratulava per la sua elezione e affermava che il popolo americano si era espresso e la sua decisione era “legge”.
Gli sviluppi di una tradizione
Il telegramma di Bryan rappresentò la prima “concessione” formale di un candidato sconfitto nelle elezioni presidenziali e segnò l’inizio di una tradizione arrivata fino al 2020. I mezzi per rispettarla sono ovviamente mutati nel corso del tempo rispetto al ricorso al telegrafo dell’epoca di Bryan. Nel 1928 il democratico Alfred E. Smith, battuto dal repubblicano Herbert Hoover, fu il primo ad avvalersi della radio.
Nel 1940, il repubblicano Wendell Willkie, che aveva perduto contro il democratico Franklin D. Roosevelt, si fece riprendere da una cinepresa a beneficio dei notiziari cinematografici. Nel 1952 Adlai Stevenson, un altro democratico, sconfitto questa volta dal repubblicano Dwight D. Eisenhower, inaugurò l’era dei discorsi di “concessione” pronunciati in diretta televisiva.
A fronte della diversità degli strumenti di comunicazione, ciò che è rimasto invariato è stato il rendere omaggio alla democrazia elettorale, un topos per cui il candidato perdente accetta il responso delle urne in quanto espressione della volontà dei cittadini.
Quando Nixon si atteggiò a statista
All’usanza della “concessione” non si sottrasse neppure il repubblicano Richard M. Nixon, quasi universalmente riconosciuto come il presidente più scorretto della storia degli Stati Uniti, fino all’emergere di Donald Trump, al punto da essere soprannominato “Tricky Dick”, Dick (diminutivo di Richard) il lestofante.
Nel 1960, contrapposto al democratico John F. Kennedy, Nixon non riuscì a ottenere la presidenza per meno di 113.000 voti popolari su quasi 69 milioni di schede valide. Il margine del successo di Kennedy fu estremamente risicato, pari a circa lo 0,1%.
In particolare, Kennedy non sarebbe riuscito a entrare alla Casa Bianca se non avesse conquistato l’Illinois e il Texas, Stati noti per la corruzione politica diffusa, dove il numero dei votanti effettivi sembrò in un primo momento essere stato superiore a quello degli iscritti nelle liste degli elettori.
Perfino il presidente uscente, Eisenhower, cercò di indurre Nixon, che era il suo vice alla Casa Bianca, a contestare il risultato e a chiedere una verifica dei voti. Però, soprattutto in Texas, non esisteva al tempo una procedura codificata per conteggiare le schede una seconda volta e il vuoto legislativo avrebbe dilatato i tempi della proclamazione del vincitore.
In piena guerra fredda con l’Unione Sovietica, Nixon non volle contribuire a creare un vuoto al vertice del governo statunitense, che avrebbe potuto prolungarsi per mesi, e, pertanto, decise di sacrificare le proprie ambizioni personali in nome dell’interesse nazionale, riconoscendo l’elezione di Kennedy. Per prevenire ipotetici colpi di testa dei suoi sostenitori, volle anche precisare di avere “grande fiducia nel fatto che il nostro popolo, repubblicani e democratici allo stesso modo, si unirà nel sostenere il nostro prossimo presidente”.
La disfida tra Al Gore e George W. Bush
Il caso più eclatante di fedeltà ai valori della democrazia elettorale statunitense si manifestò nel 2000. Quell’anno si contesero la Casa Bianca il democratico Al Gore e il repubblicano George W. Bush. Fu un testa a testa all’ultimo voto nel quale risultò decisivo l’esito delle consultazioni in Florida: chi avesse vinto in questo Stato avrebbe conquistato la maggioranza nel collegio dei grandi elettori e si sarebbe aggiudicato la presidenza.
Dopo lo spoglio dei primi voti, il divario di Gore da Bush sembrò incolmabile e i principali network televisivi preannunciarono la vittoria del candidato repubblicano in Florida. Come da tradizione ormai consolidata, Gore si complimentò pubblicamente con Bush per l’elezione. Tuttavia, mentre proseguiva il conteggio delle schede, il margine di vantaggio di Bush si assottigliò sempre di più.
Gore ritirò allora la “concessione” e chiese la verifica del risultato finale che attribuiva la maggioranza a Bush per un pugno di voti in uno Stato governato dal fratello del suo antagonista, il repubblicano Jeb Bush.
Si accese così un contenzioso giudiziario che arrivò fino alla Corte Suprema. Con una sentenza del 12 dicembre il tribunale federale di più alto grado bloccò il riconteggio manuale delle schede chiesto da Gore, stabilì che la disparità dei criteri per valutare la validità dei voti nelle diverse contee dello Stato violava a discapito di Bush il principio della parità dei diritti prevista dal XIV emendamento della Costituzione, concluse che non c’era tempo sufficiente per definire un metodo omogeneo prima del giorno della convocazione dei grandi elettori e di fatto assegnò la vittoria in Florida al candidato repubblicano, che al momento si trovava in testa nello spoglio per appena 537 voti su un totale di quasi sei milioni, consentendogli così di ascendere alla Casa Bianca.
La decisione della Corte Suprema fu presa a maggioranza. I cinque giudici che sottoscrissero il verdetto erano stati tutti nominati da presidenti repubblicani, mentre i quattro contrari erano stati scelti da presidenti democratici. La sentenza fu, pertanto, considerata un verdetto dettato da motivazioni di partito. Nondimeno, dopo che per cinque settimane era rimasto in sospeso chi sarebbe stato il nuovo inquilino della Casa Bianca, Gore non volle prolungare ulteriormente questa situazione di incertezza e, il 13 dicembre, in un drammatico discorso al Paese, riconobbe l’elezione di Bush alla Casa Bianca.
Dopo aver citato testualmente le parole che Douglas aveva rivolto a Lincoln quasi un secolo e mezzo prima, Gore aggiunse che esprimeva la propria “concessione” in nome dell’unità del popolo americano e per il bene della democrazia.
Hillary Clinton: l’ultimo hurrah della “concessione”?
A questi principi si richiamò anche la democratica Hillary Clinton nell’ammettere la sua inaspettata sconfitta contro Trump nel 2016. Malgrado le dimostrazioni di piazza di chi considerava il tycoon un presidente illegittimo in quanto aveva ricevuto circa tre milioni di voti popolari meno di Clinton, quest’ultima volle spegnere sul nascere le proteste, precisando che “la nostra democrazia costituzionale consacra il trasferimento pacifico del potere, un valore che non solo rispettiamo ma abbiamo anche a cuore”.
La pratica della “concessione” è stata, invece, completamente ignorata da Trump. Già durante campagna elettorale del 2016 The Donald aveva ammonito che avrebbe accettato i risultati del voto soltanto se fosse stato lui a vincere, un’affermazione che equivaleva a dichiarare che non avrebbe riconosciuto un eventuale successo di Hillary Clinton. In quella circostanza non ebbe l’occasione di mettere in atto la sua minaccia solo perché il collegio dei grandi elettori gli assegnò la presidenza.
Non fu così quattro anni più tardi, quando Trump negò di essere stato battuto da Joe Biden e addirittura fomentò un’insurrezione nel vano tentativo di impedire che il Congresso certificasse l’elezione del suo sfidante democratico. Ancora oggi Trump sostiene di essere stato il vero vincitore delle presidenziali del 2016 e che il successo di Biden sarebbe stata la conseguenza di presunti brogli che né il tycoon né i suoi avvocati sono mai riusciti a provare.
Come se non bastasse, in vista del voto del prossimo 5 novembre, Trump ha assoldato un esercito di migliaia di scrutatori e decine di avvocati per mettere in discussione qualsiasi esito che non sancisca la sua riconquista della presidenza. Pertanto, non ci possiamo ragionevolmente aspettare da Trump il riconoscimento della ipotetica elezione di Harris la notte del prossimo 5 novembre.
Un antidoto per le crisi istituzionali
Con il suo comportamento Trump ha sabotato il principale strumento che dalla fine dell’Ottocento è servito non solo a impedire che i contrasti politici che animano le campagne elettorali degenerassero in spaccature insanabili della società americana, ma anche a impedire che gli statunitensi maturassero un senso di sfiducia nella democrazia del proprio Paese.
Un sistema di elezione indiretta del presidente che permette di insediarsi alla Casa Bianca anche a un candidato che non ha ottenuto la maggioranza, assoluta o perfino relativa, delle preferenze di chi ha partecipato alle votazioni si presta di per se stesso a provocare contestazioni del responso delle urne e a causare crisi di legittimità del vertice delle istituzioni federali agli occhi dei cittadini. Il concetto di democrazia elettorale comporta che chi ha appoggiato lo sconfitto accetti di essere governato da chi ha vinto le consultazioni.
Questa dinamica funziona se gli elettori confidano nella correttezza dei meccanismi del voto e, dai tempi del telegramma di Bryant, la “concessione” del candidato battuto ha svolto la funzione di fornire tale garanzia. Di contro, il venire meno dell’ammissione della sconfitta alimenta i sospetti e la delegittimazione del sistema, a tal punto che coloro che sono usciti battuti nelle votazioni possono sentirsi in diritto, se non addirittura in dovere, di rovesciare istituzioni che non godono più del loro consenso.
L’occupazione del Congresso a opera dei fiancheggiatori di Trump è stata un primo esempio di una possibile degradazione della democrazia americana. Poco meno di quattro anni fa gli Stati Uniti hanno dimostrato di possedere ancora gli anticorpi per fronteggiare iniziative eversive che per il momento non hanno oltrepassato la soglia del velleitarismo.
Tuttavia, in una società sempre più polarizzata lungo linee di appartenenza partitica, che ha visto un recente aumento degli atti di violenza politica, il rifiuto della tradizionale “concessione”, in ragione di presunti brogli elettorali, potrebbe rompere quell’argine che finora ha scongiurato il precipitare di una crisi istituzionale capace di travolgere la maggiore democrazia occidentale.
Stefano Luconi insegna Storia degli Stati Uniti d’America nel dipartimento di Scienze Storiche, Geografiche e dell’Antichità dell’Università di Padova. Le sue pubblicazioni comprendono La “nazione indispensabile”. Storia degli Stati Uniti dalle origini a Trump (2020), Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022 (2022) e L’anima nera degli Stati Uniti. Gli afro-americani e il difficile cammino verso l’eguaglianza, 1619–2023 (2023).
Libri:
Stefano Luconi, La corsa alla Casa Bianca 2024. L’elezione del presidente degli Stati Uniti dalle primarie a oltre il voto del 5 novembre, goWare, 2023, pp. 162, 14,25€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle
Stefano Luconi, Le istituzioni statunitensi dalla stesura della Costituzione a Biden, 1787–2022, goWare, 2022, pp. 182, 12,35€ edizione cartacea, 6,99€ edizione Kindle