Edipo Re di Pier Paolo Pasolini nella critica del tempo

Mario Mancini
11 min readJan 1, 2021

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Pier Paolo Pasolini nella parte del Grande Sacerdote che chiede a Edipo di porre fine alla peste che attanaglia Tebe.

“La vita finisce dove comincia”

Le ultime parole di edipo Re

Goffredo Fofi

La bella cassa (prologo ed epilogo) dell’Edipo Re di Pasolini non basta a convalidare quest’altra impresa, di necessità discutibile, ma che è comunque più giustificata, se non altro biograficamente, rispetto alla tematica dell’autore. Il ripiombare nel mito durante la lunga parte intermedia del film, avrebbe guadagnato a essere ridotto, per corrispondere alle esigenze stesse dell’assunto, a un mero riferimento, che durasse ad esempio poco più del prologo e dell’epilogo. La sua prevalenza sbilancia il film verso una noia costante, grazie anche alla povertà di realizzazione.

Tutta questa parte è decisamente scarsa d’invenzione cinematografica, e nonostante le giapponeserie e il “preistorico-arbitrario” — impresa in cui si mostrano più efficienti taluni Maciste — ogni invenzione è anzi esaurita al livello delle scenografie e dei costumi. È ripetitiva e mediocre, non abbastanza solare né abbastanza cupa da risultare tragedia, come è infatti soltanto in alcuni passi degni dell’autore il confronto tra i servi, gli amplessi consumati quando il dubbio già accende i protagonisti, i momenti finali.

Non ci convince, infine, la pretesa a un tipo di narrazione elegiaca e soffusa che avrebbe allora richiesto una maggiore elaborazione formale, la ricerca di un ritmo interno all’opera, e non la sbrigatività di una regia e di un montaggio che non hanno controllato e padroneggiato un materiale già povero.

Il film andrebbe visto nel suo insieme, ma i suoi squilibri sono così evidenti, che ci sembra più giusto vederlo nel suo meglio, soffermarci soltanto sul suo epilogo. Il cantore cieco, Edipo, guidato dal suo vivace Angelo (custode) sottoproletario — unico vero contatto con la vita — suona il flauto sulle porte del Duomo di Bologna per la borghesia che non lo ascolta, poi, per il proletariato, una nenia rivoluzionaria, e ancora inutilmente. Infine, egli torna ai luoghi dell’infanzia e ivi conclude che “la vita finisce dove comincia”.

L’intensità poetica delle rade immagini di questo brano è altissima e ci sembra un peccato, un’occasione mancata, che questa dichiarazione di sconfitta sia stata così poco approfondita e preparata dal comodo e rischioso ricorso al mito, così poco critico nonostante le opinioni a posteriori, inutilmente razionalizzatrici, del regista.

La cupa concentrazione di questa fine è tuttavia lancinante, perfino commovente: proprio perché ci sembra che Pasolini non tanto dica che borghesia o proletariato si sono mostrati sordi alla sua canzone, quanto invece lasci intendere (non si sa quanto consapevolmente, e quanto per un’esigenza di sincerità che può aver influito sull’intuizione poetica) di aver sempre cantato per se stesso, e che gli altri la storia, non fossero che occasioni, pretesto al suo interno rovello o, se vogliamo, al suo narcisismo e non oggetto vero di preoccupazione reale.

Un perenne soliloquio, non un tentativo di dialogo; tanto più se la voce: dell’altra parte è assente, e la sua estraneità data come scontata. Pasolini ci dice dunque di più che non nelle dichiarazioni teoriche o nelle presunte battaglie, più forse di quanto egli stesso mai riconoscerebbe, e con immagini assai belle.

Ma due dubbi permangono: il primo, che l’interesse oggettivo del regista e del poeta ne resti in fin dei conti limitato, riconducibile com’è a una sorta di incoerente decadentismo fin troppo sentimentale sotto l’apparente rozzezza dei suoi Cristi e garzoni il secondo, che avanziamo con estrema cautela, che questa dichiarazione di sconfitta e di morte non rientri anch’essa in una forma alquanto tradizionale di vagheggiamento della propria morte, più morbido che tragico.

Da Quaderni piacentini, n. 32, 1967

Alberto Moravia

La tragedia di Edipo, a meno di andare a cercare i primitivi polinesiani tra i quali vige ancora oggi il tabù dell’endogamia e dell’incesto, non ha niente a che fare con il mondo moderno. Anche se poi gli stessi eventi potrebbero benissimo verificarsi negli stessi modi.

La tragedia di Edipo appartiene al mondo arcaico greco; tanto è vero che in Grecia essa era un mito, cioè qualche cosa di così insopportabile per la società quale era allora da meritare di essere trasformato in mistero. Tuttavia il recupero della tragedia di Edipo oggi è pur sempre possibile, soprattutto in due modi: sia in senso conoscitivo e razionale, ossia scrivendo una storia moderna che (quasi sempre inconsapevolmente da parte dello scrittore) ne adombra i significati; oppure suscitando con piena consapevolezza il mito a livello estetico-culturale. Nel primo caso abbiamo un’operazione realistica; nel secondo un’interpretazione estetizzante. I precedenti in ambedue i casi sono molti: per il primo, si potrebbe risalire addirittura all’Amleto; per il secondo, i nomi di Wagner e di D’Annunzio, ostinati mitomani, sembrano i più legittimi.

Realistico è l’inizio dell’Edipo Re di Pier Paolo Pasolini. Realismo che discende da Freud, cioè dalla dimensione tragica che Freud ha legato per sempre al nudo fatto di nascere. Ma Pasolini ha respinto con mano delicata e ferma ogni tentazione didascalica e ci ha dato una bellissima sequenza sull’innocenza dell’amore materno e sulla fatalità di quello filiale.

Subito dopo Pasolini abbandona Freud per Jung, cioè abbandona l’ansia conoscitiva per la preoccupazione estetico-culturale e ci presenta l’Edipo di Sofocle sullo sfondo di una natura erosa e solenne, in Marocco, in villaggi turriti simili a rozze regge arcaiche. Abbiamo fatto un salto indietro di migliaia di anni, al tempo in cui il mito era attuale.

Anche qui, secondo noi, la poesia è raggiunta, sia pure attraverso un vagheggiamento estetizzante e culturale. Pasolini, quei monti, quei villaggi, quei riti li “sente” come elementi essenziali del mito e riesce a comunicarci il suo sentimento. L’uccisione di Laio è scandita con maestria; ma vi si nota un’esaltazione della ferocia che non è giustificata né prima né dopo da un contesto sociale analogo.

Tuttavia, finché dura l’ignoranza di Edipo, cioè per tutto il primo tempo, la rappresentazione è degna del migliore Pasolini. L’incrinatura si comincia ad avvertire nel secondo tempo, quando quella stessa brutalità che era servita a fare uccidere Laio, impedisce di affrontare il vero essenziale dramma di Edipo con un personaggio adeguato. È il dramma della conoscenza, della scoperta della verità. Come ha osservato il critico americano Ferguson, questo dramma è una specie di match fra Tiresia, il cieco che vede, ed Edipo, il veggente che è cieco.

In questo match verbale, Edipo non è un violento, un brutale, bensì un intellettuale come Amleto, strenuo, eroico, avido di verità. Se questo è vero, come crediamo che sia vero, allora bisognava prolungare il più possibile il duello fra Tiresia ed Edipo, lasciando in ombra il rapporto incestuoso con Giocasta (al quale dobbiamo pur tuttavia le parti più valide del secondo tempo).

Ma per far questo ci voleva un attore della forza di Julian Beck, non Franco Citti. Pasolini è convinto che il sottoproletariato delle borgate è omologo al mondo arcaico ma il suo film dimostra che non è vero. Edipo urla quando dovrebbe invece esprimersi quietamente e dialetticamente. Non bisogna infatti dimenticare che incesto e parricidio sono “tentazioni” eterne dell’uomo, cioè qualche cosa di oscuro e di irrazionale che soltanto la ragione può oggettivare e illuminare.

Poi la fine. Diciamo subito che avremmo preferito un ritorno al realismo dell’inizio, senza simboli, di nuovo freudiano, cioè conoscitivo. Una famiglia come quella della prima sequenza ma con una madre invecchiata e troppo affettuosa, un padre anziano non amato né rispettato e un figlio che inconsapevolmente, ciecamente, si comporta secondo i modi propri del complesso di Edipo. Pasolini invece ha preferito l’elegia al dramma.

Ha sostituito Antigone con Angelo, ha fatto trapassare l’Edipo fisicamente cieco del mito nella realtà del mondo moderno. Edipo che era nato a Tebe, qui si identifica con il bambino nato in una piccola città italiana. Una fine “privata”, simbolica, tristissima ma non catartica.

L’interpretazione di Silvana Mangano è splendida. Accanto a lei, bisogna mettere Julian Beck, eccellente nella parte di Tiresia. Di Franco Citti abbiamo già detto; vogliamo soltanto aggiungere che il suo volto è sì fortemente espressivo ma di qualche cosa che non ha niente a che fare con Edipo.

Da Al cinema, Bompiani, Milano, 1975

Giovanni Grazzini

Ventiquattro secoli dopo: Edipo re di Pasolini, libera versione cinematografica della tragedia di Sofocle, ambientata in un’età senza storia ma con un prologo e un epilogo nell’Italia di oggi. Si parte con un “interno borghese” degli anni Venti. In una cittadina settentrionale nasce un bambino; sgambetta sui prati, la madre lo allatta, il padre lo guarda con cipiglio, pensando che è venuto a rubargli l’amore della moglie.

Gli prende i piedini, e glieli stringe: è il gesto che secondo la psicanalisi crea nel lattante un complesso di ostilità verso il genitore (quasi che questi abbia voluto mandarlo al macello) e d’attrazione verso la madre: il complesso, appunto, di Edipo. Infatti, mutati tempo e paesaggio, si passa di colpo alla scena in cui un bambino appena nato, legato mani e piedi come un capretto, sta per essere ucciso da un servo di Laio. Siamo già nel mito, ma a differenza del testo di Sofocle esso ora si stende in racconto, nell’ordine cronologico della leggenda.

Lo riassumiamo a grandi linee, come risulta dal film. Il re di Tebe, Laio, vuol liberarsi del piccolo natogli dalla moglie Giocasta; l’oracolo ha detto che altrimenti il re sarà ucciso dal figlio, e che questi giacerà con la madre. Il servo non ha il coraggio d’eseguire l’ordine, il bambino viene raccolto da un pastore, adottato dal re di Corinto e battezzato Edipo (“dai piedi gonfi”). Cresciuto nella convinzione che il re e la regina di Corinto sono suoi genitori, un giorno Edipo si sente dare del trovatello.

Turbato, e sconvolto da un sogno sopraggiunto, va a Delfo, e dall’oracolo conosce il proprio destino; appunto quello d’uccidere il padre e giacere con la madre. Onde sfuggirgli, non torna a Corinto, e si dirige dove il fato lo porta: a Tebe. Per la strada incontra il re Laio, che gli dà di straccione. Inconsapevole, in un attacco d’ira, abbattute le guardie, Edipo l’ammazza: ecco compiuta la prima metà del vaticinio. Arriva a Tebe, atterra la Sfinge, e in premio sposa Giocasta.

Venuta la peste, l’oracolo fa sapere che la città, se vuol essere salva, dovrà liberarsi dell’omicida di Laio. Edipo, buon re, apre l’inchiesta. Già sospetta di se stesso, ma insiste per conoscere la verità. I dubbi si fanno più angosciosi quando Tiresia, l’indovino cieco, lo accusa. Si confrontano i ricordi del servo che abbandonò il bambino con quelli del pastore che lo salvò. Presto tutto è chiaro: l’orrenda profezia si è avverata.

Edipo, il quale ha continuato ad amare furiosamente Giocasta, corre da lei, e scopre che s’è impiccata. Allora, con la fibbia, s’acceca, e brancolando esce dal palazzo reale in cui ha consumato l’incesto. Un ragazzo gli mette in mano lo zufolo, perché trovi conforto.

L’epilogo trova Edipo, il bambino dell’inizio, che ormai adulto, sempre guidato dal ragazzo di Tebe, attraversa la Bologna di oggi. Il cieco suona sui gradini di San Petronio, mentre incrociano passanti benvestiti. Si trasferisce all’esterno d’una fabbrica, donde escono operai in bicicletta. Finalmente ripassa dinanzi alla casa natale, e si trova sul prato che lo vide in fasce. Ora soltanto sente d’essere giunto. «La vita finisce dove comincia»

Edipo re è un film importante per l’autobiografia di Pasolini, di grande interesse per l’ambientazione, notevole nell’interpretazione di Silvana Mangano. Detto, forzatamente, in breve: Pasolini invecchia, ripensa alla propria vita, dispersa dalle passioni, e si convince che ormai è inutile arrabbiarsi.

Accentua, dopo la «furiosa ondata irrazionalistica» del Vangelo e lo scherzo surreale di Uccellacci e uccellini il distacco dalla cronaca polemica, e cerca le radici della poesia in una contemplazione tragica dei dati ultimi della storia umana, nella solitudine dell’individuo, condannato a essere infelice finché non torna nel grembo della madre terra, nella caducità d’ogni sogno di potenza, nell’angoscia di inseguire una verità che provoca, una volta conosciuta, il buio totale, nell’impossibilità di sapere se siano gli uomini o il fato le molle della storia. Il cerchio si chiude quando il cieco si lascia condurre per mano dalla vitalità, forse ironica, della sua giovane guida.

Una posizione pessimistica, dove il cupio dissolvi è corretto dalla malinconia, ma abbastanza in linea con la pietà del quarto stasimo di Sofocle, che canta la miseria dell’uomo di fronte all’imperscrutabilità della sorte. E poeticamente fertile, se consente a Pasolini di placarsi nella perennità dei classici, filtri sublimi di ogni disperazione, e lo piega a una rielaborazione artistica delle proprie inquietudini che trasfigura l’antico conflitto fra passione e ideologia.

In Edipo re questo è soprattutto evidente: la speranza di Pasolini di assumere il mito, letto con Freud, come chiave interpretativa dei turbamenti propri e dell’uomo moderno, e di esporlo, perché sia meglio afferrato, con uno stile che lo sottragga alla convenzione teatrale.

Film come questi sono riusciti nella misura in cui la identificazione fra l’età antica e quella contemporanea sia resa possibile nel trapasso dalla realtà ai simboli, non le nuoccia il fatto che nel cinema realistico l’immagine, per la sua concretezza, anche se è portatrice di un simbolo, obbliga l’azione alla verosimiglianza (se il dato naturalista non è lievitato, resta incredibile allo spettatore che Edipo, dopo essersi spenti gli occhi, ancora grondante di sangue, abbia la forza e la voglia di pronunciare le belle battute contemplare dalla sceneggiatura; Sofocle, per l’appunto, faceva raccontare la terribile scena a un nunzio).

È indubbio che se qui talvolta la rappresentazione manca di tessuto emotivo, e talvolta invece tocca il melodramma (né è chiara la funzione di certe didascalie nei modi del cinema muto), è anche perché quel rapportare l’antico al moderno resta un’operazione prevalentemente intellettuale, non sempre fornita di mordente sul piano dell’illuminazione poetica. Da questo punto di vista Pasolini è ancora a mezza strada. La scorza ideologica gli impedisce di sciogliersi in canto, e non è più così lucida da dare al suo cinema un peso d’urto nell’ordine critico

Ma è altrettanto vero che è dovuto a una felice intuizione artistico-culturale il merito primo del film: il restituire il mito alla sua radice barbarica collocando il racconto in un paesaggio arido e assolato, fra mura ciclopiche (Edipo re è stato girato in Marocco), fra popoli primitivi del terzo mondo, e tuttavia parlanti con inflessioni siciliane: elementi psicologici e figurativi che respingendo ogni ambizione di ricostruzione archeologica e filologica della tragedia ne situano l’assunto in una cornice assai suggestiva.

In questa luce persino la mediocre interpretazione di Franco Citti si giustifica, se si pensa il suo Edipo come l’emblema di un’umanità rozza ed empia, che aspira soltanto al successo mondano, e sente più forte la delusione (Edipo, nel film, è dipinto fin dall’inizio come un ambizioso, disposto a barare pur di vincere).

La Mangano, invece, scava più a fondo nel suo personaggio: il motivo della carnale sensualità che lega il figlio alla madre ottiene grazie a lei maggior rilievo del motivo dell’abbacinamento e del rimorso di Edipo, espresso con giochi d’obiettivo nel sole, con gesti e grida forsennati che provocano scene ad effetto.

Oltre a lodare gli attori «minori» (Alida Valli, Julian Beck, Carmelo Bene; Ninetto Davoli fa da messaggero di Tebe e da guida al cieco), si deve segnare all’attivo del film la colorita fantasia dei costumi, dove si mescolano echi persiani, atzechi e africani, e il corredo musicale: un impasto di Mozart, di temi popolari russi, romeni, giapponesi, di lamentazioni arabe e pezzi per banda che sostengono l’azione anche quando langue, e sopperiscono un poco alla mancanza del coro.

“Oh umane generazioni, come simile al niente mi sembra la nostra vita!” dice il coro di Sofocle. L’avere raggiunto, sia pure con qualche fatica, questo traguardo di dolore universale; l’avere indicato le tenebre in cui annaspa l’uomo di oggi nonostante la presunzione dell’intelletto, ci sembra per Pasolini una virtù feconda di poesia. Non a caso egli pensa a una Vita di San Paolo: il viaggio continua.

Da Corriere della Sera, 4 settembre 1967

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.