Dialogare in nome del cielo!

Il dialogo come combattimento simbolico per la verità

Mario Mancini
7 min readOct 13, 2021

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Estratto dal libro: Vittorio Robiati Bendaud e Ugo Volli, Discutere in nome del cielo. Dialogo e dissenso nella tradizione ebraica, Guerini e Associati con goWare (per il digitale), Milano 2021

Daniele Crespi (1598–1630), “Dialogo tra i santi Pietro e Paolo”, Pinacoteca di Brera, Milano

Vorrei proporvi un brano di un libro già stimolante dal titolo: Discutere in nome del cielo. Anche se il titolo ha un preciso significato, come vi invito a scoprire, ritengo il suo titolo, comunque, una bellissima esortazione universalistica. Mi scuso per tale forzatura nei confronti di questo, in ogni caso, bel libro.
Si tratta di un lavoro di Vittorio Robiati Bendaud, studioso del pensiero ebraico impegnato nel dialogo ebraico-cristiano sul piano internazionale e di Ugo Volli, semiologo e filosofo del linguaggio. Il libro è stato pubblicato da pochi giorni da Guerini e Associati con goWare (per la versione digitale).

Impegnarsi in un dialogo è uno dei comportamenti più rivoluzionari della vita collettiva e ha origini antiche quanto l’uomo. Nella Bibbia stessa, come scrivono gli autori, il dialogo non è solo una pratica conoscitiva ma una pratica essenzialmente etica tesa, a coinvolgere i partecipanti nelle decisioni comuni.

Purtroppo il dialogo è un faro che va sempre più spegnendosi nel nostro mondo, una luce tremula abbuiata da una verità assertiva e assoluta che non intende impegnarsi nel confronto. I due autori scrivono a proposito di verità monologica e dialogo polifonico:

“E così la verità, che è monologica — anche quando Dio si china sull’essere umano e dialoga con lui, come la Bibbia racconta — , diviene immediatamente dialogica, molteplice, come le scintille prodotte da un martello che frantuma la roccia. Questa è l’origine della discussione e del suo valore grandemente positivo”.

Discutere appunto generando scintille come quelle prodotte da un martello che frantuma una roccia (immagine stupenda). Qualsiasi vero dialogo, vera discussione “implica sempre — come scrivono Robiati Bendaud e Volli — un confronto di pensieri, argomentazioni, prospettive e identità, che si rispecchiano, si oppongono e si definiscono nel travaglio della relazione con l’altro da sé”.

Travaglio infinito, questo è il dialogo. Come proposta di lettura da questo libro abbiamo scelto questo passo, più filosofico, che tratta della cultura dialogica greca la quale ha impresso i connotati alla forma dialogica moderna e ne ha definito i metodi e gli scopi.

Buona lettura!

Dialogo come valore a sé

Nel dialogo greco si parte dall’ipotesi: ypo-thesis, ossia ciò che sta (thesis) sotto (ypo) la discussione. La parola greca usata da Platone è però «pròblema», che ha come etimologia «ciò che è buttato avanti», messo sotto gli occhi di tutti: non si tratta del nostro problema da risolvere, ma appunto di un’ipotesi di soluzione.

Il dialogo è il processo di verifica o falsificazione di queste ipotesi attraverso l’interazione verbale. Nel farlo si realizza un passo fondamentale nel percorso della comunicazione.

Ci si espone al dialogo per le più varie ragioni. Tuttavia, nel momento in cui vi si è immersi, si è costretti a considerare il discorso come un valore a sé: il dialogo ha le sue regole la più importante delle quali è la garanzia del suo ordinato svolgimento.

Discutendo secondo modalità scientifiche, che in fondo sono ancora quelle socratiche, ci troviamo in posizione di responsabilità nei confronti del dialogo, delle sue forme grammaticali, sintattiche, semantiche.

Come ogni cornice, il dialogo costituisce anche una sorta di prigione, di ambiente chiuso da cui non si può evadere. Non possono farlo soprattutto le posizioni espresse perché, come in tutti gli ambienti logici, ogni proposizione porta con sé una serie di conseguenze, che vengono coerentemente sviluppate.

Le regole del dialogo

In particolare, non è lecito fare due affermazioni contraddittorie: per qualunque sistema logico l’asserzione di una proposizione, congiunta a quella della sua contraddittoria (A e non A), permette di dedurre qualunque altra proposizione e naturalmente anche il suo contrario; quindi la contraddizione rende indeterminato il discorso, elimina la distinzione fra vero e falso, svuota il senso del linguaggio.

Dopo una contraddizione non è più possibile continuare il dialogo; non ha più senso quello che si dice. Per Socrate la contraddizione è di per sé una sofferenza, una discordia dell’anima che non è sopportabile. Ma l’impegno degli interlocutori nei confronti del dialogo che intraprendono è più vasto e profondo del rifiuto della contraddizione.

In fondo è da qui che parte l’intuizione di Habermas: il fatto che la comunicazione sia la struttura fondamentale del nostro mondo sociale ci induce a proporre delle regole pragmatiche di base, né soggettive né oggettive, ma poste a condizione della possibilità stessa del discorso e dunque della conoscenza, della percezione stessa della realtà.

Pure, l’impegno comune per tutelare il dialogo non è affatto il segno di una ricerca pacifica comune, di una collaborazione. Se vogliamo darne una caratterizzazione finale, il dialogo greco è un combattimento simbolico per la verità.

Dialogo come combattimento logico

Cerchiamo di comprendere meglio questo punto, tentandone un inquadramento nel passaggio fra pensiero mitico e pensiero razionale, come lo caratterizza Colli (1972). La contrapposizione teorizzata da Nietzsche fra apollineo e dionisiaco, dove la tragedia apparteneva alla sfera dionisiaca e la filosofia a quella apollinea, secondo Colli non regge.

La sapienza ascritta nella tradizione greca al nome di Apollo non è affatto pacificata ma fondamentalmente violenta, ed è caratterizzata dall’enigma, la cui radice è la sapienza religiosa arcaica: non dichiarazione e prescrizione di un dio benevolo, ma conflitto fra uomini e dei.

Come il sapere è conquistato attraverso la lotta, così tutta la tradizione greca è attraversata da questo grande paradigma agonistico, in cui la vittoria ha un forte significato religioso e la sconfitta implica un pericolo mortale, non solo a livello psicologico.

Nell’enigma, che presenta un senso multiplo, c’è l’idea che chi non riesce a penetrare abbastanza in profondità la parola e la sapienza non solo perde la sfida, ma perde anche se stesso.

Questo in entrambi i casi: sia per l’enigma che origina la sfida e la lotta fra uomini e dei, sia per l’enigma che dà abbrivio alla sfida e alla lotta fra gli uomini: un duello fra sapienti. Così accade per esempio a Omero, il più grande dei poeti greci, che, secondo una tradizione riferita da Eraclito, muore per non aver saputo rispondere a ciò che a noi appare un banale indovinello.

Dialogo in dialettica

Qui comincia a delinearsi un rovesciamento che — secondo Colli — dimora alla base del «miracolo» greco. Verso il V o il VI secolo, infatti, la lotta si trasforma in dialettica. Forma generale della dialettica è quella di un percorso a bivi, di un albero logico in cui la scelta deriva da una discussione.

Essa si realizza non sulla base di un libero scambio di opinioni, ma è articolata in problemata posti da un interrogante in forma di dilemmi e dalle scelte di un dichiarante. Con questo meccanismo ripetuto quanto serve si dovrebbe giungere all’eliminazione dell’opzione sbagliata, mostrando che essa non regge, che si contraddice.

In Socrate e in Platone l’interrogante custodisce una verità che cerca di far emergere: il processo funziona, quando riesce (non sempre), come un acido che elimina tutto ciò che si può dissolvere, ma che lascia intatto, anzi svela e fa risplendere, un nucleo incorruttibile di verità, così ritrovando almeno in parte l’eredità dell’antica sapienza perduta.

In comune fra Socrate e i sofisti c’è la considerazione della radice distruttiva del percorso polemico. Tutte le cautele di cui viene ad ammantarsi il dialogo sono il frutto di una percezione molto netta del pericolo del dialogare, ovvero ritualizzazioni di forme di combattimento dovute non al rispetto per l’avversario in quanto prossimo, ma al timore che si prova per lui in quanto essere, per così dire, armato.

La polifonia del dialogo non è — o non è soltanto — semplice premessa a una comunicazione di contenuti, ma lotta regolata, in cui l’opposizione è fondamentale e fruttuosa e il negativo manifesta la sua capacità creativa. L’esplicitazione stessa del conflitto è, nella cultura greca, un valore.

Da: Vittorio Robiati Bendaud e Ugo Volli, Discutere in nome del cielo. Dialogo e dissenso nella tradizione ebraica, Guerini e Associati, con goWare (per il digitale), Milano, 2021, pp. 66–69.

Vittorio Robiati Bendaud

Coordina il Tribunale Rabbinico del Centro-Nord Italia e da numerosi anni è impegnato nel dialogo ebraico-cristiano a livello internazionale. Allievo di Giuseppe Laras, approfondisce lo studio del pensiero ebraico e dei rapporti tra genocidio armeno e Shoaḥ Autore e traduttore, collabora con numerosi giornali e riviste. Per Guerini e Associati ha scritto La stella e la mezzaluna. Breve storia degli ebrei nei domini dell’Islām (2018).

Ugo Volli

Semiologo e filosofo del linguaggio, è stato docente di Semiotica all’Università di Torino. Ha scritto di teatro, comunicazione, cultura su la Repubblica, L’Europeo, Epoca, l’Espresso, Il Mattino. Fra le sue opere si ricordano Manuale di semiotica (2002), Lezioni di filosofia della comunicazione (2008), Il resto è interpretazione. Per una semiotica delle scritture ebraiche (2019). Per le nostre edizioni ha curato, con Martina Corgnati, Il genocidio infinito (2015).

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Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.