Il concetto della storia e l’illuminismo

di Cesare Luporini

Mario Mancini
35 min readApr 11, 2021

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La vecchia e dibattuta questione circa il carattere “antistorico” della cultura illuministica non è ancora chiusa. Questa taccia di antistoricismo ha la sua origine, come tutti sanno, nel processo intentato all’età dei lumi dall’epoca romantica.

Tale processo (si tratta infatti di tutta una serie di atti di accusa) è legato agli interessi, alle ideologie, agli stessi compromessi col passato delle nuove forze politiche e sociali dominanti in Europa dopo la rivoluzione, o che premono in modo immediato per il dominio politico. È un processo che s’inizia immediatamente, dalla reazione termidoriana e antigiacobina (e il giacobinismo fu allora subito visto come manifestazione conseguente alle teorie di una parte almeno, ma la più considerevole, dei philosophes: di Voltaire, di Rousseau, di Diderot in prima fila) e si prolunga, evolvendosi e trasformandosi, nel pensiero della restaurazione, sotto i suoi vari aspetti, con motivi che spesso accomunano reazionari e liberali.

Alcuni anni fa il Croce, nel suo saggio su Il Duca di Serracapriola e Giuseppe de Maistre, parlando dei rapporti ideali fra il Cuoco e, appunto, il de Maistre, osservava (e quasi direi, si lasciava sfuggire l’osservazione) che:

«l’affinità di concetti, se non di tendenze politiche, tra vichiani e storicisti da una parte e romantici e reazionari dall’altra, rende naturale che essi si cercassero, s’istruissero e si rafforzassero a vicenda»[1].

E in quelle pagine accade al Croce di mettere in rilievo quali erano i motivi (antirivoluzionari, antigiacobini) che avvicinavano e, almeno in parte, alleavano i due gruppi. Sono appunto i motivi attraverso i quali ci si richiama, o si dice di richiamarsi, alla concreta diversità e particolarità della vita storica dei vari paesi e popoli, di contro a un astratto spirito giacobino, che sarebbe cieco dinanzi a tale realtà e proprio per questo, s’intende, destinato a fallire socialmente e politicamente.

L’origine dell’accusa di “antistoricismo” fatta al XVIII secolo non è quindi dubbia e proprio il carattere di questa origine sembrerebbe giustificare quanto recentemente affermava, in modo assai reciso, il Lukacs, che «la nozione di una Aufklärung non storica o addirittura antistorica è una leggenda reazionaria»[2]. Una nozione cioè che potremmo dire essa medesima antistorica.

Certo è che ancor oggi l’interpretazione dell’illuminismo, soprattutto in talune manifestazioni specialistiche e in quelle di tipo medio, pubblicistico o scolastico, della cultura[3] (che sono poi, nel loro insieme, le più largamente penetranti), quasi mai riesce a liberarsi dei motivi della polemica diretta ereditati dall’epoca romantica; e che questo accada non è certamente un caso.

Trasferito su altri e nuovi rapporti sociali si prolunga qui il terrore del giacobinismo, il terrore del terrore, ed in ispecie di quelli che a molti sembrano essere i presupposti ideologici necessari di ogni movimento rivoluzionario: negazione radicale del passato, distruzione dei “valori” da esso accumulati sulla base di sistemi e principi astratti destinati ad aprire le dighe alla temuta e mitologizzata irruzione delle masse, portatrici di tirannide.

È appunto questo attuale timore che mantiene ancora viva, in costoro, di riflesso, la polemica antilluministica o il sospetto e la diffidenza verso quell’età; o alimenta nascostamente, in altri meno rozzi, la tendenza a presentare il volto storico di quell’età in modo diverso da quello reale, smussandone le asperità, le punte più aggressive e polemiche, portando non solo la luce ma anche l’accento su aspetti secondari che sembrano contraddirne il fondamentale carattere rivoluzionario. Si ripete così da parte di questi moderni ma inautentici o incompleti storicisti, rispetto all’illuminismo, l’errore che fu proprio di questa età nei riguardi del medioevo, ma con una differenza fondamentale: la polemica dell’illuminismo contro il medioevo ebbe carattere progressivo, apriva le vie del futuro, mentre la polemica antiilluministica, nel suo attuale sopravvivere, è espressione ottusa di conservatorismo.

Ma la discussione intorno all’illuminismo è complicata anche da un altro elemento, che sembra muoversi in direzione opposta alla precedente.

Giova qui ricordare che ciò che prevalentemente nella nostra cultura va sotto il nome di “storicismo” è una filosofia che presenta sì “la storia come pensiero e come azione”, ma che introduce fra i due momenti, fra il pensiero e l’azione, fra la teoria e la pratica, un’insuperabile frattura mercè lo stesso concetto dell’atto storiografico inteso come catarsi, come pura liberazione dal premere del passato, a cui è affidata la funzione pratica di sgombrare da questo passato la strada dell’azione futura senz’aprire tuttavia su di essa alcuna prospettiva di conoscenza[4].

È uno storicismo che nega, che abolisce il problema stesso della prospettiva storica nella quale ci muoviamo, e a questo problema sostituisce la generica fede nella progressività, in ultima analisi, spontanea, provvidenziale delle sorti umane. E, per le elites politico-intellettuali che questa persuasione dovrebbe alimentare, quella che è stata chiamata la “religione della libertà”.

Questo storicismo è stato detto e a molti appare, non a torto, “troppo retrospettivo”[5] (anche se qui si tratti non di troppo e di troppo poco, ma della gnoseologia di questo storicismo e delle sue radici di classe), così che dal suo stesso campo si sono levate voci discordi a reclamare ciò che è stato chiamato un “ritorno alla ragione”: se non proprio alla “raison” settecentesca, tuttavia a qualcosa di apparentemente analogo, da costruirsi sulle spalle di codesto storicismo; a una ragione che dovrebbe riconoscere in se stessa, fu detto, un “vertice metastorico”, un annodamento di “valori” (“la razionalità, la necessita, la libertà, la religiosità” ecc.) che si porrebbero di continuo al di là della storia, trascendenti la storia, su di essa operando attraverso la coscienza degli uomini. «La storia — si è obiettato a quello storicismo — è attraversata e dominata da un’attività metastorica, che ne compendia in sé le essenziali ragioni».

Strano e semplicistico miscuglio di immanenza e trascendenza, di storicità, e metafisica! Ma a noi qui interessa che esso venga proposto come esigenza di “fondere in un getto la ragione storica e la regione metastorica”, ossia la ragione dialettica post-illuministica e la ragione ancora metafisica dell’illuminismo, per «salvare le recenti conquiste dello storicismo insieme con l’eredità illuministica».

È facile vedere come al fondo di un simile atteggiamento operi una concezione meccanica ed esteriore dell’eredità storica, in particolare di quella riguardante i valori ideali prodotti dall’umanità nel suo faticoso corso. Al serio problema della elaborazione e continua riconquista di tali valori nei termini delle nostre esigenze e lotte presenti, si sostituisce qui un astratto volontarismo e programmismo, che fu agevole al Croce respingere. Esso non offriva nessun fondamento concettuale determinato onde svolgere la punta critica rivolta allo storicismo crociano come “troppo retrospettivo”.

Una siffatta impostazione del problema dell’eredità illuministica (analogamente a quelle di carattere retorico tuttavia circolanti nei confronti dell’umanesimo e del rinascimento) non può essere che un ingombro della cultura: non meno dell’ancor persistente, anche se più nascosta, reazionaria polemica contro l’illuminismo; o dell’azione di deformazione delle linee fondamentali di questa come di altre età che rappresentarono grandi balzi in avanti, rivoluzionari, della società e della mentalità umana.

Gli atteggiamenti che ho indicati, positivi o negativi, ma comunque proprio essi antistorici, intorno all’illuminismo, esprimono dunque contraddizioni e limiti della cultura “tradizionale”, ivi compreso, nel riflesso teorico, ciò che in essa si chiama “storicismo”. Mostrano una sua particolare debolezza nell’elaborare alcune grandi eredità del passato, nel definirsi in rapporto a certe epoche del passato, quelle appunto in cui un vecchio mondo si dissolve e se ne prepara impetuosamente un altro.

Per quel che riguarda, in special modo, l’illuminismo, che fu nel suo insieme l’espressione ideologica della borghesia ascendente e rivoluzionaria, tali odierne contraddizioni attestano come in quell’epoca furono poste alcune istanze, ad esempio quella del progresso sociale e civile, che la borghesia dell’età successiva è stata costretta sempre più ad abbandonare nelle mani dei suoi avversari di classe, a neutralizzare e talvolta addirittura a rinnegare esplicitamente: così che anche lo storicismo nella sua forma idealistica non è più in grado di soddisfare ad esse se non dilatandole e rendendole innocue e passive nel genericismo della provvidenzialità e spontaneità storica.

Ma tutto ciò non sembra ancora sufficiente per mutare in modo radicale il vecchio giudizio sulla antistoricità del XVIII secolo. Proprio nei confronti di quella “leggenda reazionaria”, come l’ha chiamata il Lukacs, la strada percorsa dagli studi storici e in particolare dalle indagini di storia della storiografia in questi ultimi cinquant’anni ha portato anzi una serie di studiosi in posizioni assai diverse da esso.

Già al principio del secolo il Dilthey[6] si avviava (con cautela) a modificare quel giudizio tradizionalmente recato sul XVIII secolo, la “fable convenue”, come poi si è detto, della sua antistoricità. Alcuni sulla sua scia, altri per vie diverse, si sono mossi e hanno proceduto in quella direzione. Si tratta (e non è, vedremo, un caso) soprattutto di studiosi tedeschi e svizzeri, dal Fueter al Cassirer al Meinecke, per ricordare i nomi di maggior rilievo. Uscendo dalla polemica dell’epoca romantica e della storiografia della restaurazione e da quanto di essa era trapassato nel periodo positivistico (si pensi al Taine) questi studiosi avevano urtato in siffatta contraddizione: che proprio l’antistorico illuminismo aveva segnato un grande progresso nella storiografia, un progresso che costituiva un salto rispetto alla storiografia precedente e dal quale non si poteva non far cominciare la storiografia moderna. La stessa polemica antiilluministica, nei suoi riflessi storiografici, ne era una prova: non si polemizza più con la concezione storica di Bossuet, ma si discute ancora con quella di Voltaire.

Tuttavia altro è la constatazione di un fatto, altro la sua interpretazione. La polemica antiilluministica ha, nella cultura tedesca, radici che rimontano allo sviluppo stesso dell’illuminismo tedesco. Se il movimento degli Aujklärer e intorno ad esso il generale movimento del pensiero tedesco furono in gran parte sollecitati e fecondati dal più avanzato movimento francese, essi sono venati da un filo caratteristico, assai tenace, di polemica culturale (e anche di costume) antifrancese[7].

Si possono ricordare in proposito grandi nomi come Hamann, Winckelmann e in parte anche Kant. Ciò è connesso con lo sviluppo nazionale tedesco (fenomeni analoghi, anche se assai meno caratterizzati, si hanno nel ’700 italiano).

Questa polemica, trasformandosi, confluì nella reazione romantica. Dal punto di vista nazionale vi è indubbiamente minore conflitto o maggior continuità in Germania fra illuminismo e romanticismo che non in Francia. E ciò è naturale: in Germania la formazione nazionale e il movimento della borghesia erano più arretrati (uomini come Herder ne ebbero in certo modo coscienza: anche non traendone sempre conseguenze progressive), in Germania non vi fu la rivoluzione. L’antagonismo delle due epoche non corrispose in Germania al succedersi di due diverse classi al potere: esso fu il riflesso, in gran parte, di quanto avveniva sul terreno sociale e politico fuori di Germania. Ma fu d’altra parte il grogiuolo, almeno culturale, della coscienza nazionale tedesca.

In Germania la rivoluzione non fu sociale e politica, fu teorica e speculativa, come osservò lo Hegel, che ne era il principale e conclusivo rappresentante. È notevole che questo giudizio dello Hegel (che veniva poi ad essere un giudizio anche su se medesimo) fu accettato da Marx e da Engels che indicarono proprio attraverso di esso, insieme alla grandezza del moto filosofico e spirituale tedesco a cavallo dei due secoli, l’inferiorità storica della borghesia tedesca.

Ed è altresì notevole che l’interpretazione marxista di quel giudizio sia sostanzialmente fatta propria dal Croce in alcune pagine del suo libro La storia come pensiero e come azione, in cui egli discute col maggior storico tedesco contemporaneo intorno al problema che qui ci occupa, e cioè col Meinecke intorno alla sua Entstehung des Historismus.

La rivoluzione filosofica tedesca che va da Kant a Hegel fu indubbiamente, nella sua sostanza positiva, una “rivoluzione storicistica”, per usare la stessa espressione del Meinecke. Ma il Meinecke non la riferisce, com’è noto, a questo sviluppo filosofico che è l’unico, per quell’epoca, a cui essa può convenientemente spettare. Sarebbe inutile ripetere qui una critica che è già stata fatta dal Croce, nelle pagine che ho ricordato.

Ma valga notare il fatto che nel Croce opera in modo assai evidente l’impostazione che al problema era stata data dal marxismo, come si può riscontrare, ad esempio, dall’inizio del Ludovico Feuerbach e il punto d’approdo della filosofia classica tedesca di Engels. Questo punto di coincidenza (e l’assimilazione di certi elementi, che esso presuppone) è indicativo, a mio avviso, della differenza fra lo “storicismo” crociano e lo Historismus, con tutti i residui teologici specifici, cioè protestanti, individualistici e irrazionalistici, che quest’ultimo reca con sé[8].

Il fatto è che gli storici odierni tedeschi sono portati a sottovalutare il contrasto fra le due epoche e ad accentuarne invece gli elementi di convergenza, cioè a dissipare quell’elemento rivoluzionario teorico, speculativo, che nella storia della borghesia tedesca non ebbe (onde il suo stesso limite interno, il suo esser costruito sulla testa) un correlato pratico e cioè sociale e politico.

Quell’elemento rivoluzionario, il metodo storico-dialettico, si raddrizzò trapassando col marxismo nel movimento operaio, che fu esso erede, non solo in Germania, della “filosofia classica tedesca”. È singolare appunto che per il Meinecke la “deutsche Bewegung” culmini in Goethe e non in Hegel. Ma ciò non avviene a caso: ciò rispecchia la grave eredità (direi, la tara ereditaria) che pesa sulla cultura della Germania borghese, in relazione a quello che è stato il ritardato e infelice svolgimento nazionale e il fallimento democratico di quel paese[9].

Libri come la Entstehung des Historismus del Meinecke o L’età dell’illuminismo del Cassirer (a parte, naturalmente, i loro importanti apporti di indagini particolari), sia pure in forma e misura assai diverse, presentano un quadro caratteristicamente deformato di quella grande età e tendono a cancellarne i caratteri propri, dissolvendone gli interni rapporti di sviluppo, che culminano in un avvenimento sociale e politico molto preciso e grandioso, di portata mondiale, la rivoluzione francese: e ciò (spostando più o meno sensibilmente l’asse dello svolgimento culturale verso la Germania) per ritrovarvi le anticipazioni di un’epoca dello storicismo che, fra l’altro, come “epoca”, non è mai esistita.

Anche per questo non ritengo del tutto pertinente, ove sia intesa rigidamente e in modo unilaterale, l’affermazione del Lukacs che l’antistoricismo della Aufklärung sia una “leggenda reazionaria”. Ci troviamo oggi anzi proprio di fronte a un pericolo opposto, che sorga la “leggenda reazionaria” di uno storicismo illuministico (analogamente ad altri travisamenti in corso dei caratteri propri dell’umanesimo e del rinascimento) la quale tende semplicemente a cancellare, sul terreno della cultura, gli elementi specifici rivoluzionari non solo di quell’età, ma anche, obliterando il contrasto, di quella che l’ha seguita.

Tuttavia non si tratta, semplicemente, di tornare al giudizio tradizionale. Innanzi tutto questo giudizio è equivoco: in esso si mescola l’avversione all’illuminismo per la sua ribellione storica al passato, con la constatazione dell’insufficienza della “raison” illuministica a fondare, in modo riflesso e consapevole, il concetto della storia come processo e sviluppo. Di contro a ciò rimane il fatto incontestabile, sopra accennato, non solo del grande progresso costituito dalla storiografia illuministica[10], ma del suo carattere “moderno” (che è poi il suo carattere borghese), onde ci troviamo con essa in un rapporto di continuità e discussione che non sussiste più (se non indirettamente o sporadicamente) per la storiografia precedente.

Sulla storiografia dell’illuminismo le pagine più istruttive e concrete uscite dalla cultura tradizionale rimangono ancor oggi, a mio avviso, quelle ad essa dedicate dal Fueter[11], che non fu propriamente un “professore tedesco”, ma uno studioso svizzero, legato, attraverso la sua attività di pubblicista radicale, alla vita politica. Tuttavia il Fueter non ha risolto il problema che qui ci siamo proposti: lo ha, anzi, esplicitamente eluso. All’inizio del suo capitolo su “La storiografia dell’illuminismo” egli afferma di esser agevolato nel trattare separatamente il suo tema dal fatto che tale storiografia avrebbe “avuto uno sviluppo del tutto autonomo che non può essere messo senz’altro in parallelo con lo sviluppo dell’illuminismo in generale”.

Questa affermazione del Fueter non è accettabile[12]. Vi sono epoche della civiltà nelle quali la storiografia è un fatto secondario che non s’innesta in maniera essenziale nello svolgimento dei loro caratteri fondamentali: il manualista della storia della storiografia può in tali casi trattare il proprio argomento, relativamente, in modo separato. Ma non è così per la storiografia illuministica: opere come Le siècle de Louis XIV o l’Essai sur les moeurs di Voltaire, per prendere gli esempi più lampanti, appartengono in modo essenziale al movimento generale del secolo. E ben se ne avvede lo stesso Fueter nell’esecuzione effettiva della sua interpretazione. La quale ha il merito di aver tenuto conto, sia pur in modo rapsodico, degli elementi politici e di classe (in parte lo ha fatto anche il Meinecke) che operavano in quella storiografia e la rinnovavano. Il Croce nel suo rapido capitolo su “La storiografia dell’illuminismo” (in Teoria e storia della storiografia) ha fatto proprie e ripresentate molte delle affermazioni del Fueter, tuttavia svuotandole ed “epurandole” proprio di quei riferimenti concreti (ove egli intende invece di aver approfondito, in senso filosofico, il giudizio del Fueter).

Di quella storiografia egli ha travisato il carattere ritenendo di potervi osservare “la persistenza e il potenziamento del pensiero cristiano e teologico”, affermazione questa particolarmente equivoca. Non solo nella storiografia, ma in grande parte della cultura illuministica si può riscontrare sotto un certo riguardo la persistenza di elementi genericamente teologici. Questi elementi, anzi, con le concezioni deistiche, si ripresentarono all’interno dello stesso campo in cui fu data la più aspra battaglia contro le teologie confessionali, il campo della cultura scientifica, e furono oltrepassati solo dalle posizioni materialistiche più ardite.

Ma confondere questo fatto e tutto ciò che con esso è congiunto (la concezione ancora metafisica e statica così della “ragione” come della “natura”, e della stessa natura umana e dei suoi principi morali) con un “potenziamento del pensiero cristiano e teologico” significa dare un’interpretazione esattamente inversa a quello che era il movimento del secolo. Possiamo all’opposto affermare che quegli elementi teologici, dilatati e trasfigurati laicamente dal deismo e poi dalle rivendicazioni dell’autonomia della vita morale e perfino religiosa, come in Rousseau, subiscono perciò stesso una crisi sempre più rapida che diverrà, dopo l’esplosione rivoluzionaria, la crisi stessa della “raison” illuministica, in ogni suo aspetto, politico, sociale, filosofico e scientifico.

Tuttavia alla sagacia del Croce non è sfuggito il problema centrale che stiamo perseguendo. Il Croce, mentre accetta la rivalutazione compiuta dal Fueter, si pone la domanda della “cattiva fama” della storiografia illuministica. In verità non si tratta propriamente di una cattiva fama della storiografia illuministica, ma di tutto l’illuminismo in rapporto al problema della storia. Comunque il Croce ha rilevato il carattere peculiare di questa cattiva fama

«la quale — egli dice — suona ben diversa dalla semplice e consueta svalutazione che ogni periodo storico compie del periodo precedente col renderlo a sé inferiore».

Secondo il Croce questo che egli giustamente chiama «un particolare giudizio di svalutazione» sarebbe stato pronunziato «perfino sul confronto delle epoche che precessero l’illuminismo” come il rinascimento (è l’unico esempio recato) che non ha ricevuto l’epiteto di antistorico. Non che il rinascimento, egli dice, sia stato nella sostanza più storicistico dell’illuminismo, ma tale sarebbe apparso mercé il suo richiamarsi, nel mentre che rompeva col medioevo, alla tradizione classica greco-romana, coprendosi il volto, suggerisce il Croce, di questa maschera.

Questa interpretazione del Croce altera, credo, i termini storicamente reali del problema. Il richiamo al rinascimento è un riferimento a conquiste della nostra cultura storica (che hanno messo in forte luce certi caratteri propri di quel periodo) posteriori, nel complesso, all’accusa di antistoricità recata contro l’illuminismo. Quell’accusa fu fatta all’illuminismo non per un confronto con età precedenti, ma all’illuminismo come tale, attraverso il confronto che l’epoca che lo seguì istituì dell’illuminismo con se medesima. Ma vi è qualcosa di più. Quest’ultimo confronto, con tutti i suoi aspetti caratteristicamente antistorici che gli sono propri e ancor oggi subiamo, sorgeva tuttavia sulla base della coscienza che l’illuminismo si formò di se stesso come epoca, come “âge”.

Siamo con ciò al cuore della questione. L’illuminismo è stato la prima epoca che abbia avuto una piena coscienza della propria immanente originalità storica. Per intendere il rapporto fra storicità e illuminismo è necessario penetrare e chiarire questo punto fondamentale.

La polemica contro l’illuminismo e la sua antistoricità nacque da una rivalutazione di origine reazionaria e romantica del medioevo. Che questa polemica abbia poi dato luogo, nel suo ulteriore svolgimento, a risultati storiograficamente positivi per la conoscenza di quell’età, il medioevo, e per una sua più giusta valutazione (spunti ve ne furono già, per altro, anche nella più caratteristica storiografia illuministica) è un’altra questione. Tali risultati positivi furono comunque resi possibili dal fatto che in quello svolgimento s’innestarono elementi nettamente progressivi e cioè gli elementi nazionali e nazionali-popolari che, in opposizione al prevalentemente cosmopolitico XVIII secolo, venivano acquistando operativa coscienza di se medesimi, specialmente in quei paesi rimasti indietro nella loro formazione statale moderna e borghese, come la Germania e l’Italia[13].

Il fatto fondamentale è che quella polemica contro l’illuminismo e la sua antistoricità — cioè la sua incomprensione e irriverenza e mancanza di pietas storica verso il passato — accoglieva lo stesso schema storico creato dall’illuminismo. L’illuminismo non si contrappose al rinascimento, ma a quello che già da tempo si chiamava e tuttora si chiama medioevo, all’età di mezzo, da esso considerata dell’oscurità e della barbarie. L’illuminismo anzi si sentì in continuità storica, e non in antagonismo, col rinascimento.

Tutta la pubblicistica, la storiografia e la polemica illuministica ne sono una testimonianza. Il concetto stesso di “rinascita” come rinascita e splendore delle arti e delle lettere; come impulso di attività economica e slargamento, agli europei, dell’orizzonte mondiale; come ripresa storica del «sicuro cammino della scienza» (per usare una espressione kantiana) e, nell’insieme, come primo apparire dei “lumi” che rompe quell’oscurità e barbarie, è una nozione prodotta e applicata storiograficamente dall’illuminismo, anche se ha i suoi precedenti nei tre secoli anteriori: ed è in esso essenziale.

Si pensi alla venerazione illuministica (che comprende anche il Vico) per una figura come quella di Bacone. Ma la cosa più importante è che, a parte le esasperazioni polemiche legate al suo grande impulso rivoluzionario e rinnovatore, l’illuminismo aveva, nel fondo, storicamente, ragione. La contrapposizione ottocentesca (burckhardtiana[14], per intendersi) del rinascimento e dell’umanesimo non solo all’età che venne prima ma anche al periodo seguente; più esattamente, l’isolamento in cui furono posti quei grandi fenomeni storici perfino nel confronto di movimenti immediatamente ad essi incalzanti e con essi incrociantisi e dialetticamente congiunti, come i movimenti della riforma, i quali nascevano da una medesima matrice (l’ascesa della borghesia, il profilarsi politico e statale delle nazionalità) sono visioni e deformazioni puramente “culturistiche” (naturalmente non casuali, ma connesse alla particolare situazione degli intellettuali tedeschi che principalmente le originarono, nel secolo scorso, e ai rapporti di classe che essi rispecchiavano), le quali non hanno alcuna base storica reale, strutturale.

Per quanti apporti positivi possano aver recato nell’indagare e mettere in luce i molteplici aspetti di quel periodo, esse, con l’isolarli reciprocamente e il tagliare le loro radici strutturali, costituiscono l’antecedente ideologico dei tendenziosi capovolgimenti, vera opera di falsari della cultura, oggi di moda, nell’interpretazione dell’umanesimo e del rinascimento (e in minor misura perfino dell’illuminismo)[15], ottenuti sottolineando quanto di passato rimaneva in tali fasi storiche (pur esso, quando si vada a veder da vicino, in profonda trasformazione) e obliterando o disaccentuando gli aspetti nuovi e rinnovatori che le caratterizzano.

Gli uomini del rinascimento, in particolare, naturalmente, gli uomini di punta (e si pensi ancora una volta prima di tutto a Bacone, che ne ebbe forse la più netta consapevolezza, ma poi a Bruno, a Campanella, a Galileo, a Cartesio per risalire, digradando, fino ai quattrocentisti), si sentirono iniziatori di una nuova età, che rompeva col passato.

Essi espressero questa loro più o meno chiara (ma in alcuni si fece chiarissima) coscienza attraverso molte preoccupazioni e cautele di carattere soprattutto politico (dirette insieme verso lo stato e verso la chiesa, che eran congiunti), ma infine la espressero in corrispondenza con l’opera che essi iniziavano.

E da dire che questa loro coscienza, anche dove chiara, era sempre parziale e assai incerta nelle proprie motivazioni, molto inferiore a quella che acquisteranno gli illuministi; ma il moto si iniziava allora. Era il moto di ascesa rivoluzionario della borghesia che superava la ristrettezza del corporativismo medioevale, in cui fin allora era rimasta chiusa, se non nella sua realtà politico-organizzativa (che solo più tardi verrà distrutta), già in molte delle sue conseguenze economiche, culturali e scientifiche, e creava accanto a quella organizzazione e fuori di essa nuovi centri di vita economica (le compagnie coloniali, le prime manifatture) allo stesso modo come contro la corporativa università medievale creava le moderne accademie (allora moderne!)[16] centro propulsore, nel ’600 e nel ’700, della nuova scienza e cultura. E essenziale riconoscere in questo moto di ascesa, come ha fatto il marxismo, tre fasi decisive, tre successive rivoluzioni, nel senso più proprio e cioè politico della parola: la riforma, la rivoluzione inglese, la rivoluzione francese.

Osserva Engels che solo quest’ultima fu una battaglia che non si risolse in un compromesso con l’avversario di classe ma con la sua distruzione; condotta quindi fino in fondo, fino alle ultime conseguenze. E infatti cambiò la faccia al mondo. E osserva anche Engels che ciò fu reso possibile, fra l’altro, dal fatto che questa battaglia fu completamente laica, che essa cioè non si produsse, come le due rivoluzioni precedenti, in forma di rivoluzione religiosa, sotto il “travestimento” religioso.

Per quanto possa sembrare crudo questo termine, mi si consenta di rilevare che quando il Croce, nella conclusione del suo capitolo su “La storiografia dell’illuminismo”, che ho già citato, osserva che l’uomo del XVIII secolo, forte delle vittorie della “raison”, più «non provava alcun bisogno di coprirsi il volto di maschera» dice, e anche più materialisticamente (né l’avrebbe detto senza la lezione del marxismo), la medesima cosa.

Il fatto poi che il Croce riferisca quell’immagine, con cui si caratterizza la rivoluzione illuministica nella sua differenza dalle fasi storiche che l’hanno preparata, esclusivamente al classicismo greco-romano del rinascimento (il che, proprio per questo riguardo, è una verità solo parziale)[17] e non anche alla riforma religiosa, è indice unicamente della inconseguenza dello storicismo idealistico.

Tutto ciò non toglie naturalmente (e dovrebbe esser quasi inutile il dirlo, se tanti fraintendimenti intorno alla metodologia marxista non facessero avvertiti in senso contrario) che quelle “maschere” o “travestimenti” non avessero profondissima ragione storica, non rappresentassero grandi avanzamenti; cioè non racchiudessero entro di sé alte e viventi conquiste non soltanto sociali e politiche, ma anche culturali e morali.

Lo schema storico che l’illuminismo costruì per collocarvi se stesso, via via che esso acquistava coscienza di sé come epoca rivoluzionaria (e quindi, soprattutto, in Francia), è dunque da ritenersi, proprio da un punto di vista scientifico, fondamentalmente giusto. Esso è anche più completo di quanto generalmente non si creda.

Gli illuministi non si sentirono soltanto eredi degli uomini del rinascimento, iniziatori della nuova scienza (Bacone, Cartesio, Galileo, Keplero, e più indietro Copernico) ; non si sentirono soltanto in continuità storica, sia pur in parte già polemica (per esempio in Diderot) coi monarchi e i grandi ministri borghesi o borghesizzanti, creatori, contro la classe feudale, degli stati moderni assolutistici; essi si sentirono eredi, sul terreno politico e morale, anche della riforma religiosa.

Valga qui l’esempio del Voltaire, che in certo senso è particolarmente probante, perché la polemica antireligiosa e anticonfessionale di Voltaire, se è particolarmente acuminata contro il cattolicesimo, non si limitò soltanto ad esso. Tutti sanno con quanta antipatia egli considerasse il calvinismo, il suo rigorismo e la sua intolleranza, con quali parole egli bollasse, più d’una volta, il Calvino, martirizzatore dello scienziato moderno Serveto; quale fosse infine il suo atteggiamento riguardo alle guerre e lotte religiose in Francia, ove egli, pur riprovando la politica di Luigi XIV e la revoca dell’editto di Nantes, soprattutto per le sue conseguenze economiche e sociali e per le forme anacronistiche prese dalla persecuzione, sente fortemente il punto di vista unitario-statale francese.

Così come sono ormai assai noti i suoi rapporti dapprima di idillio (e pressoché di adescamento) e poi fatalmente di urto coi teologi e calvinisti di Ginevra e la questione del più o meno presunto “socinianesimo” della loro giovane generazione, che coinvolse anche il d’Alembert e assai drammaticamente Rousseau. In tutto ciò operavano elementi di polemica immediata; ma quando si passa in Voltaire dal giudizio politico al giudizio storico, cioè solo mediatamente politico (distinzione che è necessario introdurre, non solo a cagione della battaglia in cui questi uomini erano impegnati, ma per la coscienza che essi cercavano di acquistare della realtà storica in cui si svolgeva la loro lotta) vediamo mutarsi il suo atteggiamento.

Di fronte all’energia di azione politica dei «réformateurs du seizième siècle» l’attenzione di Voltaire si fa seria e il giudizio che egli esprime, da un punto di vista del tutto laico, sarà positivo. Quei riformatori hanno

«dechiré tous liens par qui l’Eglise romaine tenait les hommes, ayant traité d’idolatrie ce quelle avait de plus sacré, ayant ouvert les portes de ses cloitres, et remis ses trésors dans les mains des séculiers».

Il loro movimento ha prodotto non solo dei vantaggi economici, ma ha spinto al rinnovamento politico attraverso l’esprit républicain che permeava, indirizzato a distruggere gli abusi dell’organizzazione costituita e a produrne una nuova, libera e garantita, dalla quale fosse escluso l’avvilimento della “obéissance passive”. Né Voltaire ha mai nascosto la sua simpatia per questo esprit républicain che è al suo fondo esprit populaire: egli anzi sottolinea il carattere popolare inizialmente proprio della riforma, specialmente là dove essa ha trionfato e dato i migliori frutti.

Lo stesso giudizio di Voltaire sui primordi del cristianesimo è influenzato da questa concezione. La tirannide degli ecclesiastici, la loro deprecata sete di potere, comincia dopo Costantino; prima abbiamo esprit républicain, esprit populaire, che in seguito al riconoscimento ufficiale e alla statalizzazione della chiesa viene in contraddizione con l’apparato ecclesiastico ed è quindi destinato a riaccendersi periodicamente nelle eresie[18].

I riformatori moderni hanno avuto il merito di sgombrare pregiudizi e superstizioni, così che, sotto questo riguardo, “les pays du Nord” sono, secondo Voltaire, partiti in vantaggio quanto al progresso dei “lumi”: e lo stesso “libero esame” viene già visto distaccato dai suoi caratteri teologici, come farà poi tutta la storiografia laica. In questo quadro, che qui ho appena tratteggiato, va posto anche il rapporto, di solito interpretato assai ristrettamente, degli illuministi con Pietro Bayle: con quel Pietro Bayle che non fu solo un “critico” e un “pirronista”, ma il grande mediatore fra lo spirito della riforma e quello dell’illuminismo.

L’illuminismo ebbe dunque, là dove era più avanzato e maturo, una coscienza acutissima non solo della propria originalità, ma anche delle proprie origini storiche e costituì intorno a se medesimo un giudizio epocale che è, nel suo complesso, quello che ancora noi dobbiamo accettare[19]. Donde gli venne questa autocoscienza storica? Credo non vi sia dubbio a rispondere: dalla stessa coscienza politica che esso veniva acquistando. Non si possono intendere appieno uomini come Voltaire, Rousseau, Diderot e lo stesso Montesquieu se si considerano soltanto come dei pensatori e dei filosofi, degli “intellettuali”.

Essi furono nello stesso tempo, anche se in varia misura, uomini politici, i capi politici della borghesia rivoluzionaria, nel periodo di preparazione: gli unici capi politici che in quella fase prestatale e ancor lungi dall’essere insurrezionale, ma già egemonica, la borghesia rivoluzionaria era in grado di avere. Furono essi a dare a questa borghesia la coscienza del suo distacco non solo dal medioevo e dal feudalesimo, ma, a un certo momento, anche dalla forma politica dell’assolutismo; a darle la consapevolezza della sua forza, a gettare le prime linee programmatiche del suo futuro potere, a fornirle gli strumenti ideologici con cui riuscirà a muovere le masse popolari, a dare espressione anche ai suoi tentativi di compromesso con la parte avversa. Non a caso la rivoluzione porrà poi questi uomini nel suo Pantheon.

Il processo di acquisizione di questa coscienza è anche la chiave degli interessi storiografici dell’illuminismo: per essi vale, nel senso più immediato, ciò che aveva detto il settecentista tedesco Spittler, esser la storia la scienza della nascita del presente. Qui è anche la ragione per cui, nonostante tutte le insufficienze teoriche e metodologiche[20], s’inizia col ’700 la storiografia moderna.

Il Meinecke ha osservato, a proposito del grande successo dell’Essai sur les moeurs di Voltaire, che quest’opera forniva alla borghesia una presentazione apologetica della sua preistoria[21]. Per quanto sfocata da un certo compiacimento letterario quest’osservazione contiene un forte nucleo di verità. Non solo l’Essai, ma tutta la storiografia volteriana, la più rappresentativa del secolo, è intimamente connessa alla presa di coscienza di questa classe, del suo passato nazionale, dei suoi interessi. Ciò costituisce la stessa ragion d’essere del Siècle, e l’intelaiatura concettuale di un’opera il cui carattere occasionale, di grosso pamphlet politico, non ha mai fatto sufficientemente considerare il suo significato storiografico, l’Histoire du parlement.

La ragione attuale dell’Essai era ancora più vasta: l’enorme allargamento dell’orizzonte storiografico che in esso si operava, con il disegno di una storia universale non teologica, non provvidenziale, era congiunto con l’idea, esaltante per Voltaire, dell’attività mercantile come tessuto connettivo della nuova civiltà. Questa decisa rottura con ogni visione teologico-provvidenzialistica della storia umana, così come con la vecchia storiografia annalistica e panegiristica dei regnanti, e l’allargamento dell’attenzione ai fatti culturali ed economici — tutti aspetti che sono già stati rilevati specialmente dal Fueter — appaiono strettamente legati al formarsi della coscienza rivoluzionaria di classe della borghesia e quindi, contrariamente a quel che il Fueter aveva detto, al movimento generale del secolo.

Ma il Fueter ha giustamente messo in rilievo, in un’osservazione particolare, il legame che vi era fra i caratteri salienti di questa storiografia — la sua modernità, la sua spregiudicatezza e vastità di interessi — e il fatto che essa era espressione, per la prima volta, di una classe non ancor giunta al dominio politico, ma che vi tendeva con impeto.

La modernità di questa storiografia è data non solo dallo spirito “critico” e razionalistico che l’informa, ma più ancora dall’urgere e affiancarsi di nuovi contenuti, selezionati da quello spirito critico, in connessione ai bisogni e alle aspirazioni della classe borghese. Soprattutto questa pressione ed ebollizione della materia porta all’abbandono delle vecchie forme e concezioni storiografiche, e pone in primo piano il problema della storia come problema di quel mondo umano che attendeva di esser riformato.

Quel mondo storico-umano venne così a contatto con il razionalismo che si era temprato e modellato nelle scienze della natura. Questo contatto concreto con la materia storiografica attuale, sotto la spinta dei nuovi bisogni civili, segna anche la fondamentale differenza fra la sistematica politica del XVIII secolo e quella del secolo precedente, fra un Montesquieu o un Rousseau e un Hobbes o uno Spinoza.

Ma quel contatto fu anche un urto; ebbe cioè necessariamente caratteri contraddittori. Quella raison naturalistica, esemplata sulla concezione di una natura statica e che eternamente, attraverso le sue leggi, ripete se stessa (di una natura cioè metafisica e non storica), recava con sé un limite interno di antistoricità. Scorrendo le pagine più ardite degli illuministi si è spesso colpiti dal contrasto fra una materia storiografica che tende naturalmente a dialettizzarsi e la forma che è ben lungi dall’offrire a questa esigenza la possibilità di una realizzazione consapevole o conseguente.

Quel limite era non solo scientifico e filosofico; era anche un limite politico. Esso identificava la “ragione” borghese prerivoluzionaria in quell’universalismo che più tardi, col XIX secolo, maturato l’antagonismo con le masse nullatenenti e proletarie, si manifesterà come universalità astratta, puramente formale e giuridica. «Quel regno della ragione — dirà Federico Engels — non era altro che il regno della borghesia idealizzato».

E non è forse un caso che nel punto dove la rivoluzione procederà più avanti, tendendo a oltrepassare gli stessi interessi borghesi, ciò avverrà sulla scia teorica di quel Rousseau, in una parte dei cui scritti, e soprattutto nel Discorso sull’origine dell’ineguaglianza, quei limiti della raison si erano venuti a logorare per dar luogo a un metodo implicito che sia pur in modo primitivo e sommario, era già dialettico e di una dialettica non idealistica[22]. Ma se il pensiero di Rousseau, coi problemi e le istanze che portò alla luce, costituì un validissimo impulso ideale e pratico, fornendo nell’ambito delle idee sociali la piattaforma di allargamento necessaria alla rivoluzione borghese, la dialettica materialistica che si ritrova in una parte di esso non era in grado di aprire, al di là dei modelli razionalistici, una prospettiva storica determinata, allo stesso modo come le masse più democratiche della rivoluzione non potranno assumere ancora, di contro alla borghesia, una fisionomia di classe.

L’antistoricismo dell’illuminismo fu dunque un antistoricismo relativo alla sua stessa proposizione del problema della storia, nei riguardi della società umana, e ai limiti e alle contraddizioni in cui questa proposizione era costretta, e si manifesterà come tale quando non solo lo svolgimento filosofico, ma tutto il complesso della vita sociale da cui esso sorge, porranno nuove esigenze attraverso il venire alla luce di nuovi antagonismi di classe. Fu un antistoricismo che segnava il primo passo nella conquista della storicità.

Si è spesso, e non a torto, giustificato l’antistoricismo degli illuministi con la necessità in cui essi si trovarono di combattere un passato che ancora ingombrava il terreno. Fu così che il De Sanctis spiegava l’insuccesso del Vico che questo passato, apparentemente, voleva solo comprendere:

«Fatti in là e sta’ fra le tue nuvole — direbbe al Vico un illuminista — e non venire fra gli uomini che non te ne intendi. Il passato tu lo hai studiato su’ libri: è la tua erudizione. Ma il passato è per noi cosa reale, di cui sentiamo le punture a ogni nostro passo. Il fuoco ci scotta e tu ci vuoi provare che, perché è, ha la sua ragion d’essere. Lascia prima che noi lo spegniamo, e poi ci parla della sua natura».

Quanto sia calzante, nella sostanza, questa vivace notazione ce lo dice anche la reciproca, non certo casuale, estraneità (che colpirà lo stesso De Sanctis) fra il Vico e il suo conterraneo e contemporaneo Pietro Giannone, “scrittore militante”, il quale divenne, all’opposto del primo, figura europea.

In verità quanto al Vico non si trattava solo di un problema di “comprensione”. Egli, come ha osservato il Croce, serrava la storia nella legge dei corsi e dei ricorsi, che era legge naturalistica (di quel naturalismo, antistorico). Tuttavia non è ancor questa una ragione sufficiente per spiegare il suo insuccesso. Il punto è toccato dallo stesso Croce quando egli afferma che il Vico «fu chiuso all’idea del progresso»[23]. La legge dei corsi e ricorsi recava in sé gli svantaggi, senza i vantaggi, del naturalismo settecentesco che potè aprirsi in modo operante e rivoluzionario sul mondo storicoumano mercé quell’idea del progresso che si era già affermata e aveva fatto prova di sé nello svolgimento concreto delle scienze della natura e nella lotta da esse condotta per la propria affermazione.

Un’osservazione analoga a quella di De Sanctis troviamo in Engels riguardo ai caratteri antistorici dell’illuminismo. «Qui teneva avvinto lo sguardo — egli dice — la lotta contro i resti del Medio Evo. Il Medio Evo era considerato come una semplice interruzione della storia».

Il giusto schema storiografico in cui, abbiamo visto, l’illuminismo pose se stesso come epoca fu congiunto nel suo sorgere al concetto antistorico ed esclusivamente polemico di questa “interruzione”. Ma lo Engels riporta, in ultima analisi, quella antistoricità alla “ristrettezza specifica” della ragione illuministica (e del metafisico materialismo settecentesco): alla «sua incapacità di concepire il mondo come un processo».

Era una medesima antistoricità che si rileva sia nella considerazione della natura che in quella del mondo umano. Questa antistoricità doveva esser superata solo molto più tardi, nel corso del XIX secolo. E ciò avvenne dapprima in modo parziale, nella forma della costruzione idealistico-speculativa. Ma il concetto della storia come processo e sviluppo che ne risultò venne liberato da ogni residuo di metafisico finalismo attraverso la rovesciante critica prodotta dal materialismo storico, fondata essenzialmente sul rapporto attivo degli uomini con la natura, onde si costituisce la sfera dell’economia, e sulla nozione della prassi umana sociale.

Intorno a queste istanze proposte dal marxismo non può tuttavia non accentrarsi la discussione della teoria storiografica. Se il concetto della prassi sociale (e quello che esso include dell’uomo) comporta la consapevolezza che ogni storiografia muove dai nostri interessi attuali e presenti, e dai loro contrasti, e quindi, teoreticamente, implica il rapporto di pensiero e di azione, è una elusione di tale consapevolezza (di cui non ci si può nascondere le radici di classe) concepire l’atto storiografico come mera liberazione e catarsi, sprigionante una altrimenti irrelata spontaneità del fare. Qui si inserisce semplicemente un elemento di irrazionalità.

La distruzione di ogni finalismo nella concezione della storicità umana, e quindi nella storiografia, non abolisce il nesso conoscitivo col presente nel suo movimento, ossia nel suo protendersi verso il futuro, di cui non si è attori e disegnatori consapevoli se non facendosi un problema delle condizioni attuali in cui si inserisce l’azione[24]. Il problema della prospettiva storica nella quale ci muoviamo entra necessariamente (anche se eluso o mistificato o confusamente e contraddittoriamente posto) come elemento determinante della scelta e del giudizio che si realizzano nell’atto storiografico. Rappresentarsi le cose altrimenti significa porre la teoreticità come una impensabile interruzione della pratica.

Non è senza interesse fissare, come un risultato di queste pagine (e quindi come una direttiva dello studio), che la storiografia moderna nacque nel rivoluzionario periodo del razionalismo illuministico intrinsecamente connessa col bisogno di chiarimento intorno alla propria epoca delle forze sociali che muovevano al rinnovamento della vita sociale, e nei modi e nei limiti consentiti dal processo di questa vita e dai correlativi raggiungimenti teorici.

Note

[1] B. Croce, Uomini e cose della vecchia Italia, Serie seconda, Bari, 1927, p. 206.

[2] G. Lukacs, Brève histoire de la littérature allemande (Du XVIII siècle à nos jours), trad, de l’allemand, Paris, 1949, p. 43. Come risulta dal contesto il Lukacs col termine Aufklärung si riferisce, in questo punto, all’illuminismo in generale.

[3] Come esempio delle prime giova ricordare quanto osservava A. Gramsci (si legge sotto il titolo “Diritto naturale e folclore” in Letteratura e vita nazionale, Torino, 1950, p. 219), sulla «polemica “apparente” degli attuali esercitatori di scienza del diritto, che in realtà, non distinguendo fra il contenuto reale del “diritto naturale” (rivendicazioni concrete di carattere politico-economico-sociale), la forma della teorizzazione e le giustificazioni mentali che del contenuto reale dà il diritto naturale, sono essi più acritici e antistorici dei teorici del diritto naturale». Quanto alle seconde si possono trarre esempi largamente non solo dalla stampa periodica di carattere più corrente, ma dalla maggior parte dei manuali, specie di storia, in uso nelle scuole.

[4] Intorno a questo punto, che si riprende qui a p. 231, cfr. la seconda delle due note (“Intellettuale” e “borghese” e Frattura tra pensiero e azione) che il Croce rivolse al presente scritto negli ultimi Quaderni della critica (n. 19–20, 1951, pp. 208–09)

[5] G. De Ruggiero, II ritorno alla ragione, Bari, 1946, p. 35. (Per le citazioni e i riferimenti che seguono cfr. pp. 23, 24, 28, e passim).

[6] Specialmente nel saggio Das achtzehnte Jarhundert und die geschichtliche Welt, che fu pubblicato nella «Deutsche Rundschau» dell’agosto e settembre 1901 (ora in Gesammelte Schriften, III, p. 209 sgg.)

[7] Il Lukacs (op. cit., p. 35) afferma: «C’est une des falsifications favorites du chauvinisme allemand moderne que de prèter une attitude anti-française aux grands penseurs de l’Aufklärung». Il Lukacs ha indubbiamente ragione nel respingere le deformazioni e generalizzazioni della storiografia a cui fa riferimento. Ma sta di fatto, tuttavia, che quegli atteggiamenti ci furono e non in forme o da parte di uomini trascurabili (Interessanti accenni ad essi in C. Antoni, La lotta contro la ragione, pp. 138, 161, 185 e passim). Quegli atteggiamenti sono congiunti a taluni aspetti essenziali, antagonistici, dell’illuminismo tedesco, sia per il risveglio che in esso cominciò a prodursi dello spirito nazionale, sia per i legami da cui mai del tutto si sciolse (e che più tardi variamente rigerminarono) con le tradizioni religiose e perfino teologiche che esso aveva dietro di sé, tuttavia operanti nella cultura di quel paese. Il che è storicamente spiegato dal fatto che la rivoluzione borghese ebbe la sua prima esplosione proprio in Germania con la riforma luterana, e dal fallimento nazionale e sociale di tale rivoluzione, con le conseguenze che ne derivarono non solo per la vita materiale e politica, ma per il costume e lo spirito tedesco.

[8] La distinzione che si intende qui segnare è quella fra i residui teologici specifici, ossia di diretta derivazione confessionale, e il teologismo generico proprio di una filosofia e costruzione “speculativa”. Credo che questa distinzione abbia grande importanza storiografica per tutto il pensiero moderno e anche, nella pratica, per gli atteggiamenti via via assunti dai filosofi e dagli uomini di scienza nei riguardi del confessionalismo, a partire dalla riforma, ossia dal momento in cui, come dice Engels, «fu rotta la dittatura spirituale della Chiesa» (e sotto certi aspetti si può anticipare al ’400 italiano). Quanto al Croce, Gramsci osservava, in un medesimo contesto, che «tra i suoi contributi positivi allo sviluppo della scienza sarà da annoverare la sua lotta contro la trascendenza e la teologia nelle loro forme peculiari al pensiero religioso-confessionale» e come «la filosofia del Croce rimane una filosofia “speculativa” e in ciò non è solo una traccia di trascendenza e di teologia, ma è tutta la trascendenza e la teologia, appena liberate dalla più grossolana scorza mitologica». (A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino, 1948, p. 190).

[9] Assai caratteristica di quanto ho cercato qui di indicare è l’introduzione della recente opera del Srbik, Geist und Geschichte vom deutschen Humanismns bis zur Gegenwart, B. I., Salzburg, 1951 ; particolarmente le pp. 17, 21, 22.

[10] Osserva il Lukacs, (op. cit., p. 43) che «la période des lumières non seulement a compté des historiens marquants (Montesquieu, Voltaire, Gibbon) mais encore a contribué au développement de la méthode historique et par cela méme au développement du sens historique»

[11] Fueter, Storia della storiografia moderna, 1911, traduz. italiana, vol. II, Napoli, 1944.

[12] Il problema invece era già stato intravisto unitariamente dal Troeltsch fin dal 1897, nel suo scritto «Die Aufklärung” (redatto per la Realencyclopàdie für protestantische Theologie und Kirche; ora in Gesammelte Schriften, p. 338 sgg.), nel quale, pur tendendo a ridurre la storiografia illuministica pressoché solamente ai suoi aspetti “pragmatici”, egli afferma a conclusione di una rapida caratterizzazione di questa storiografia : «Durch all das aber wurde die Geschichtsforschung, indem sie von der Aufklärungsidee ergriffen wurde, wiederum zu einem mächtigen Hebel der Aufklärung und verstarkte die Gesammtrichtung der Zeit, so verschieden ihr philosophischer Hintergrund bei den Einzelnen auch gefärbt sein mochte, etc.»

[13] Il cosmopolitismo era ormai divenuto atteggiamento reazionario (non per nulla fu l’ideologia a cui intendeva appoggiarsi il Metternich). Come tale è sentito in Italia da uomini quali Leopardi o De Sanctis (che scorgeva nel distacco da esso uno dei principali meriti del Mazzini), e in Russia dal Bielinskij, che pure fu un tenace oppositore del gretto slavofilismo.

[14] Mi riferisco all’indirizzo nel cui inizio si inserisce il successo della famosa opera del Burckhardt, che è esempio largamente eloquente. Un giudizio sulla storiografia burckhardtiana sarebbe naturalmente cosa assai più complessa.

[15] Se ne può trovare un tipico esempio nel libro dell’americano Becker, tradotto anche in italiano: La città celeste dei filosofi settecenteschi, Napoli, 1946.

[16] È tuttavia da ricordare la maggior libertà di cui poterono fare uso alcune delle università e degli “studi” italiani, e la loro modernità, nel periodo rinascimentale: il che si prolungò a Padova, entro l’ambito della più autonoma politica religiosa dello stato veneziano.

[17] Quel classicismo, filtrato e edulcorato dall’educazione gesuitica, permane infatti in tutto il XVIII secolo, specialmente in Francia, e costituisce il suo lato morto. Basti pensare al teatro tragico francese del tempo e al gusto a cui si legava la cui influenza agì perfino in Inghilterra minacciando per un momento, di oscurare o limitare nella sua stessa patria la gloria di Shakespeare. E tuttavia quel gusto permetteva allora in Francia l’incontro, nella vita mondana e artistica, fra aristocrazia modernizzante e la borghesia più cospicua o ambiziosa, anche se era in fondo fittizio come l’incontro stesso. Accanto a quel teatro tragico, che non fu l’unica manifestazione di quel classicismo, ma la più vistosa, correva senza intaccarlo la vena del teatro borghese che frescamente si espresse in Marivaux e nell’italiano Goldoni (il quale si trasportò a Parigi). Le idee e gli esempi di rinnovamento del Diderot furono inizialmente fecondi, più che in Francia, in Germania: fu di qui che partì, questa volta, la sana reazione del vivo sul morto; fu in Germania (la cui vita teatrale era stata nelle corti da prima stimolata dall’esempio francese) che avvenne col Lessing, con lo Sturm und Drang e col giovane Goethe, il rivolgimento teatrale moderno che rompeva le regole e gli schemi dei vecchi generi. Contemporaneamente il movimento tedesco portava a una visione rinnovata del mondo classico, di cui il Winckelmann fu la più alta espressione. In Francia tuttavia la “maschera” di quel vecchio classicismo, adattata ai tempi, servì ancora alla rivoluzione e più tardi a Napoleone.

[18] Questi concetti del Voltaire si ritrovano disseminati nei suoi scritti e nelle sue lettere, ma furono particolarmente elaborati nel Siècle de Louis XIV, al capitolo Du calvinisme ecc.

[19] Per il concetto di epoca, periodo ecc., e le questioni di periodizzazione, cfr. D. Cantimori, La periodizzazione dell’età del rinascimento nella storia d’Italia e in quella d’Europa, in Relazioni del Congresso internazionale di scienze storiche (Roma 4–11 settembre 1955), voi. IV, “Storia del Rinascimento”, p. 307 e sgg. (particolarmente, per l’aspetto generale e la ineliminabilità del problema, pp. 316–7).

[20] Insufficienze, naturalmente, solo in quanto si istituisca il confronto con posteriori conquiste del metodo e dei concetti storiografici. Ma che tuttavia sembrano talvolta rivelarsi intrinsecamente in quei momenti o punti di tale storiografia in cui si profila una contraddizione, nel senso accennato più oltre nel testo, tra la materia e la forma.

[21] Su questa indicazione del Meinecke ritorna W. Kaegl nel saggio Voltaire und der Zerfall des christlichen Geschichtsbildes (in Historische Meditationen, I, Zurich, 1942, p. 235).

[22] Si veda, a questo proposito, l’analisi tracciata da F. Engels, nell’Antiduhring (traduz. ital. Roma, 1950, pp. 153- 54) del Discorso sull’origine dell’ineguaglianza.

Si possono, a questo punto, richiamare alcune tesi assai suggestive avanzate dal Lukacs nell’opera citata. Egli scorge nel Werther di Goethe («primo successo mondiale tedesco», accanto a quello di Winckelmann) l’opera che nella forma più individuata e caratterizzata, e, potremmo dire, in maniera pregnante, fornisce l’analisi dell’uomo nuovo scoperto letterariamente dagli inglesi (Richardson) e dal Rousseau, con le indicazioni e i presentimenti delle contraddizioni interne della società borghese. Il Lukacs connette questo rilievo a quello che sarebbe il «point spécifique sur lequel s’achève l’Aufklärung» (nel senso proprio, ossia tedesco, del termine), affermando di essa che «son combat la conduit jusqu’au pres-sentiment du caractère foncièrement contradictoire de la vie et de la realité, et en relation avec cela, à la compréhension du caractère historique de toute existence». Non nel senso tuttavia di un capovolgimento dialettico, rispetto al movimento precedente nel suo insieme : «il faut naturellement se garder — egli dice — d’opposer ces idées aux tendances générales du mouvement des lumières qui les ont précedées». Mi sembra che il Lukacs nella formulazione di queste importanti indicazioni, suscettibili di molti svolgimenti, sia andato, quanto alla storicità, un poco oltre il segno, rischiando di trasferire nell’illuminismo, e far culminare nel primo Goethe, in certo modo anch’egli una “Entstehung des Historismus”. Della sua affermazione centrale mi pare sia da accogliersi la prima parte : che l’illuminismo, attraverso il suo travaglio ideale e le lotte che esso rispecchia, giunge al presentimento del carattere fondamentalmente contraddittorio della vita e della realtà (e di questa intuizione, si può aggiungere, fornì talvolta geniali e coerenti realizzazioni letterarie e artistiche, come già rilevavano i fondatori del marxismo per il Neveu de Rameau. Al quale proposito cfr. anche Hegel, Fenomenologia dello spirito, trad, de’ Negri, voi. II, pp. 78–83 ; e pp. 53, 99, 100). Ma non la seconda, ossia che ciò costituisca già «comprensione del carattere storico di ogni esistenza». Qui veramente non siamo più che al presentimento; se si deve alla storicità serbare come essenziale non solo l’elemento della contraddizione, ma il Carattere dello svolgimento: Credo sia da tener fermo che la Aufkldrung sotto questo aspetto non va oltre la presentazione della contraddizione ; e che la punta più avanzata verso la scoperta della nozione di sviluppo è ancora da vedersi nel Discorso sull’origine dell’ineguaglianza del Rousseau e nelle sue implicazioni.

[23] B. Croce, La storia come pensiero e come azione, Bari, 1938, p. 70. Si tratta delle pagine, già menzionate, in cui il Croce, sotto il titolo “Lo storicismo e la sua storia” conduce la sua discussione col Meinecke. Il brano che ho riportato della Storia della letteratura italiana del De Sanctis è riferito anche dal Croce, più largamente, in una nota.

[24] Nell’ambito di questa discussione rientra la «prospettiva del possibile» di cui parla G. Calogero, onde oltrepassare le difficoltà dello storicismo idealistico-retrospettivo e l’indicata frattura tra pensiero e azione («non ci sono problemi della conoscenza fuor che nel medesimo senso in cui ci sono nella prassi»: in Etica giuridica politica, Torino, 1946, p. 222). Ma ivi essa è risolta soggettivisticamente, come «programma dell’azione, mentre qui ci riferiamo alla «possibilità reale», per esprimersi con Kant, racchiusa nella presente situazione e con essa identica (e quindi oggetto di analisi e di giudizio), a cui ogni concreto programma non può non esser relativo. Così che il nesso fra azione e pensiero ci sembra implicare necessariamente questo giudizio del presente come intrinseco a ogni storiografia. (Cfr. G. Calogero, op. cit., specialmente i capitoli IV, VII, Vili e XVII-XIX).

Da: Cesare Luporini, Voltaire e le “Lettres philosophiques”. Il concetto della storia e l’illuminismo, Einaudi, Torino 1977, pp. 199–232

Cesare Luporini (Ferrara, 1909- Firenze, 1993), dopo alcuni studi iniziali sul pensiero europeo fra Settecento e Ottocento, si è rivolto all’approfondimento della teoria marxista, in particolare delle opere mature di Marx. Molti i suoi lavori di storia della filosofia: Filosofi vecchi e nuovi (1947), La mente di Leonardo (1953), Voltaire e le “Lettres philosophiques” (1955), Spazio e materia in Kant (1961), Leopardi progressivo (1966). È stato senatore della Repubblica per il PCI.

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Mario Mancini
Mario Mancini

Written by Mario Mancini

Laureatosi in storia a Firenze nel 1977, è entrato nell’editoria dopo essersi imbattuto in un computer Mac nel 1984. Pensò: Apple cambierà tutto. Così è stato.

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